L'ANM è l'associazione cui aderisce il 96% circa
dei magistrati italiani. Tutela i valori costituzionali, l'indipendenza e l'autonomia della magistratura.

I poteri del procuratore della Repubblica

di Armando Spataro - 9 gennaio 2015

pag-49B.jpg

Il “procuratore capo”: una criticabile definizione; l’interpretazione “costituzionalmente orientata” dei poteri del procuratore della Repubblica, a partire dalla titolarità esclusiva dell’azione penale; la gerarchia praticabile è quella di tipo organizzativo; la ripartizione del lavoro tra gruppi specializzati; assegnazione e revoca dei procedimenti: la revoca non è possibile per mero “contrasto sull’an”; il visto sulle richieste di misure cautelari; le direttive sull’impiego della polizia giudiziaria; la selezione delle priorità: cenni, in particolare, sul rischio-prescrizione; i rapporti con i mezzi di informazione; il  “buon governo” comune, sintesi del lavoro della Procura della Repubblica.


Questo intervento non riguarda il tema generale dell’organizzazione delle Procure e le relative competenze di chi le dirige (si pensi, ad esempio, a quelle su gestione delle risorse, rapporti con la dirigenza amministrativa, con l’Avvocatura e con la magistratura onoraria), ma solo quello più specifico dei poteri del procuratore della Repubblica nei confronti dei magistrati che compongono l’ufficio e delle modalità con cui essi possono essere esercitati, argomento da sempre al centro del dibattito sulla nostra giustizia penale. È possibile, anzi doveroso, occuparsene in modo del tutto sganciato da fatti d’attualità che possono destare l’attenzione della pubblica opinione. È quanto chi scrive tenterà di fare, valendosi anche di convinzioni personali manifestate sin dal 2007, in occasioni di incontri di studio del CSM, e ribadite in anni successivi.
In premessa va subito detto che appare inaccettabile, e comunque criticabile, la troppo spesso utilizzata definizione di “procuratore capo della Repubblica”, una definizione che, pur presente in alcuni articoli del c.p.p. e del d. lgs. 25.7.2006 n. 240 (sulle “...competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari”), nonché in alcune risoluzioni o “risposte a quesiti” del CSM, non è usata nell’Ordinamento giudiziario (nel Titolo III “Del Pubblico Ministero” del r.d. 30.1.1941 n. 12 si parla, infatti, di titolari degli uffici del pm) e neppure nel testo base in materia di organizzazione degli uffici di Procura (d. lgs. 20.2.2006 n. 106, come modificato  con l. 24.10.2006 n. 269).
A sostegno di questa convinzione, supportata anche dalle ragioni della temporaneità degli incarichi direttivi, introdotta nell’ordinamento per evitare le patologie da  “accumulo” di potere, non sembrano prive di rilievo un paio di altre circostanze: nell’art. 1 del citato d.lgs. 106/2006, a proposito delle attribuzioni del procuratore, risulta soppresso l’inciso secondo cui egli esercita l’azione penale “sotto la propria responsabilità” (quasi ne fosse, nel bene e nel male, il dominus assoluto)  e non soltanto – come ora recita la norma – “nei modi e nei termini fissati dalla legge”. Inoltre, pur in un quadro di accentuata gerarchizzazione degli uffici di Procura, la l. 269/2006, anche qui novellando lo stesso d.lgs. 106/2006 n. 106, ha previsto che il procuratore della Repubblica può esercitare l’azione penale personalmente oppure “mediante assegnazione” a uno o più magistrati dell’ufficio della trattazione dei procedimenti (ovvero del compimento di singoli atti di essi),e non più mediante “delega”, termine che, nell’originaria formulazione della norma, sembrava riferirsi a un diritto o a un potere personale incondizionato del delegante, tale da includere il potere di revoca ad libitum del mandato conferito .
Eppure tanti magistrati sono ancora affezionati alla qualifica formale di “capo” ed è difficile che essa non compaia nelle cronache giornalistiche quando vi si citano i dirigenti delle Procure.
Vediamo allora se la indubbia accentuazione del ruolo del procuratore della Repubblica abbia determinato un inevitabile rapporto di sovraordinazione gerarchica rispetto agli altri componenti dell’ufficio o se debba essere interpretata, compatibilmente con i princìpi costituzionali, semplicemente come uno strumento per garantire maggiore omogeneità ed efficienza nell’esercizio delle attività di competenza del pubblico ministero, ovviamente a partire dall’obbligatorio esercizio dell’azione penale.
La premessa di quest’intervento rende già evidente l’orientamento di chi scrive: un procuratore della Repubblica non può o non deve ispirarsi a una concezione gerarchica dell’esercizio delle proprie funzioni.Deve essere spiegato in concreto, però, come egli deve agire, non bastandol’ovvia considerazione secondo cui deve operare in piena armonia con tutti i componenti dell’ufficio, non solo con i procuratori aggiunti, di cui va valorizzato il ruolo co-organizzativo, ma anche con i sostituti, rispettandone autonomia, professionalità e dignità.
Va subito precisato, allora, che questa visione del ruolo del procuratore non comporta affatto che egli rinunci ai poteri riconosciutogli in tema di organizzazione dell’ufficio (ex art. 1 co. 6 d.lgs. 106/2006) o che possa venir meno al dovere di assicurare il corretto, puntuale e uniforme esercizio dell’azione penale (ex art. 1 co. 2 d.lgs. 106/2006, che richiama pure il doveroso rispetto delle regole del giusto processo), ma presuppone che egli eserciti i suoi poteri e adempia ai suoi doveri secondo un’interpretazione “costituzionalmente orientata” di quanto in proposito previsto dalla legge, a partire dal rispetto delle garanzie di indipendenza e autonomia che la Carta riconosce sia ai giudici che ai pm (ex artt. 101, 102, 105, 107 e 112, ma anche ex art. 97 in ordine ai canoni ivi previsti di imparzialità, trasparenza e buon andamento  delle pubbliche amministrazioni). Un rispetto tanto più necessario ove si pensi che la Procura della Repubblica è oggi l’ufficio giudiziario più esposto al rischio di guida verticistica,
In proposito, allora, è bene confrontarsi subito con il testo dell’art. 1, co. 1, del d.lgs. n.106/2006 (“Il procuratore della Repubblica, quale preposto all’ufficio del pm, è titolare esclusivo dell'azione penale…”) e con quello del citato art. 2, co. 1, del medesimo d.lgs. (come modificato dall’art. 1 l. 269/2006 n. 269) secondo cui “Il procuratore della Repubblica, qualetitolare esclusivo dell'azione penale, la esercita personalmente o mediante assegnazione a uno o più magistrati dell'ufficio…”. Se ne potrebbe dedurre, come anche autorevoli interpreti sostengono, che il procuratore, per via di tale esclusiva titolarità, possa revocare immotivatamente l’assegnazione di un procedimento ogni qualvolta non condivida modalità di gestione investigativa o le conclusioni nel merito del magistrato assegnatario. Ma le cose non stanno così.
Come scriveva in un virtuoso provvedimento organizzativo del giugno del 2006 l’allora procuratore di Milano Manlio Minale, l’obbligo di esercitare l’azione penale viene riferito, nell’articolo 112 della Costituzione, al pubblico ministero come ufficio e dunque con tale principio devono armonizzarsi l’interpretazione e l’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 106/2006. Riesce impossibile pensare, insomma, almeno a chi scrive, che i titolari dell’azione penale siano solo i 136 procuratori della Repubblica italiani, ciascuno con un nome e un cognome, e non i 136 uffici del pm, ciascuno con i magistrati che li compongono. La norma, dunque, non può che fare riferimento, secondo questa opzione (forse minoritaria), al dovere del procuratore di organizzare e coordinare l’esercizio dell’azione penale, chiedendo e praticando egli stesso l’ovvio scrupoloso rispetto non solo della legge, ma anche dei criteri omogenei approvati per la trattazione degli affari penali: se, infatti, l’obbligatorio esercizio dell’azione penale (e la sua titolarità) è riferibile all’ufficio del pm, è chiaro che esso passa attraverso il rispetto delle regole interne anche da parte di chi le ha elaborate e non dipende dagli orientamenti soggettivi dei magistrati che lo compongono.
Ciò rimanda, allora, alla vera natura del potere del procuratore che esercita una gerarchia di tipo organizzativo, capace di esprimere un potere di indirizzo circa l’adozione, da parte degli aggiunti e dei sostituti, di criteri omogenei ai fini delle determinazioni inerenti il promovimento dell’azione penale e circa l’utilizzo delle risorse disponibili: un problema reale, presente in ogni Procura. Ne derivano naturalmente non secondari corollari: se il procuratore deve assicurare e propugnare il corretto esercizio dell’azione penale deve anche potersi informare, chiedendo e ricevendo notizie che gli consentano di essere effettivamente al corrente del contenuto delle attività in corso. Di qui l’importanza del suo rapporto costante e fecondo con gli aggiunti (innanzitutto), ma anche con i sostituti. Se l’esercizio dell’azione penale deve essere puntuale, si deve anche convenire che sollecite devono essere le indagini preliminari: di qui la necessità di effettiva applicazione del principio costituzionale che attribuisce al pm la direzione della polizia giudiziaria, dunque anche in ordine alle modalità di conduzione delle investigazioni. L’esercizio dell’azione penale deve essere infine uniformeapparendo intollerabile e fonte di delegittimazione del ruolo del pm l’adozione di prassi e criteri disomogenei in materie identiche o affini  all’interno dello stesso ufficio. È sul punto apprezzabile che il CSM, con vari interventi pur non vincolanti (risoluzioni, risposte a quesiti etc.), abbia inteso suggerire l’adozione di indirizzi omogenei da parte di tutte le Procure della Repubblica, ma è chiaro che anche i singoli componenti di ciascuna Procura non possono certo considerarsi estranei rispetto alla necessità di perseguire l’obiettivo della uniformità degli orientamenti, oltre che, più in generale, quello dell’efficienza e della credibilità dell’azione degli uffici di cui fanno rispettivamente parte.
Una conclusione – questa – legittimata dal tenore del comma 2 dell’art. 2 d.lgs. n. 106/06: “con l’atto di assegnazione per la trattazione di un procedimento, il procuratore della Repubblica può stabilire i criteri ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività. Se il magistrato non si attiene ai principi e criteri definiti in via generale o con l’assegnazione, ovvero insorge tra il magistrato ed il procuratore della Repubblica un contrasto circa le modalità di esercizio, il procuratore della Repubblica può, con provvedimento motivato, revocare l’assegnazione; entro dieci giorni dalla comunicazione della revoca, il magistrato può presentare osservazioni scritte al procuratore della Repubblica”.
Va cioè adottato un modulo organizzativo che, fondato sul rispetto pieno della dignità e dell’autonomia professionale degli aggiunti e dei sostituti, consenta loro di proporre osservazioni – a loro volta rispettose delle competenze del procuratore – sui provvedimenti non condivisi che li riguardino, soprattutto in tema di assegnazione e revoca nella trattazione degli affari penali, ma anche di improvviso e immotivato mutamento dei relativi criteri.
In questa prospettiva, si colloca anche il potere organizzativo del procuratore di ripartire il lavoro, ove le dimensioni dell’ufficio lo consentano, tra gruppi specializzati (di equilibrata composizione numerica) nella trattazione di materie che richiedono particolare professionalità ed esperienza dei magistrati, così favorendo scelte adeguate in tema di assegnazione dei procedimenti: tali ripartizioni, ovviamente, impongono un importante limite alle scelte discrezionali del procuratore che, avendo preventivamente valutato le ragioni legittimanti l’individuazione di settori che richiedono competenze specialistiche, non potrebbe certo discostarsene assegnando, ad es., un processo per reati in materia societaria a un magistrato del gruppo specializzato in reati di terrorismo (salvo il ricorso a forme stabili di coordinamento tra gruppi o alla coassegnazione a magistrati appartenenti a gruppi diversi nel caso di indagini connesse su reati oggetto di distinte competenze).
Non v’è dubbio, peraltro, che le risoluzioni o delibere del CSM del 12 luglio 2007 e del 21 luglio 2009, pur con i rilievi critici alla seconda desumibili da quanto segue, contengano le linee cui un procuratore deve ispirarsi nell’organizzazione dell’ufficio e nei rapporti con i magistrati che ne fanno parte. Resta comunque necessario – ed è sempre il CSM ad affermarlo – che occorre analizzare l’esperienza in corso nelle Procure italiane in vista di eventuali ulteriori indicazioni. Proprio quelle linee guida, però, danno luogo a un irrinunciabile “sistema di garanzia” per i singoli magistrati delle Procure idoneo, anche solo indirettamente e per specifiche competenze non incidenti sulla conduzione degli affari penali, a consentire al CSM stesso di esaminare e vagliare le decisioni del procuratore sia pure per finalità ormai limitate (soprattutto in tema di conferma o meno, dopo il primo quadriennio, nelle funzioni dirigenziali).
Insomma, se in una Procura della Repubblica vige un progetto organizzativo, discusso dall’ufficio (come sempre dovrebbe avvenire) e deliberato secondo l’iter ordinamentale, le regole che vi sono previste vincolano tutti a partire dal procuratore, pur considerando l’elasticità necessaria nella loro interpretazione, poiché non si discute in questi casi del giudice naturale precostituito per legge: ma è certo che l’elasticità non può essere confusa con l’arbitrio sicché, nel caso in cui il procuratore deroghi senza consenso degli interessati a una regola interna, ad esempio in tema di assegnazione e/o revoca di assegnazione degli affari penali, ciò dovrà intervenire con  provvedimento motivato, sia per consentire le osservazioni dei sostituti, come prevede la legge, sia perché è da ritenersi impraticabile la possibilità di una “motivazione implicita”.
All’interno di questa cornice, quello della revoca dell’assegnazione di un procedimento è certamente il tema più delicato nei rapporti tra procuratore e sostituti, sicché, per meglio chiarire il pensiero di chi scrive, è bene ricorrere a specifici esempi: si provi a immaginare che il sostituto assegnatario di un procedimento ritenga immotivatamente di non doversi conformare, ad es. in tema di richieste o meno di misure cautelari per certi reati, alle linee guida discusse e approvate in un ufficio di Procura o incorra in una macroscopica e inescusabile violazione di legge o in una ingiustificata inerzia nella trattazione del processo (e, nei fatti, ometta di porvi rimedio), che emetta provvedimenti clamorosamente abnormi o non intenda riconoscere la competenza di un diverso gruppo specializzato dell’ufficio: è chiaro che il procuratore potrà revocare motivatamente l’assegnazioneper effetto delle prerogative riconosciutegli per legge in materia di misure cautelari (art. 3 d.lgs. 106/2006)  o di definizione dei criteri generali da seguire per l'impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti (art. 4, co. 2 stesso d.lgs.).Altrettanto potrà fare nei casi in cui si manifesti rifiuto di attuare un coordinamento delle indagini anche rispetto alle competenze della D.N.A. o di svolgere i necessari accertamenti nell’interesse dell’indagato o, ancora, in caso di insanabile dissenso tra magistrati coassegnatari del procedimento tale da rendere necessaria una scelta per superarlo. E molti altri esempi ancora sarebbero possibili poiché il lavoro del pm, parte pubblica nel processo, è molto più complesso di quanto si possa immaginare e non si presta sempre a schematizzazioni astratte.
Si provi a immaginare, invece, una situazione molto diversa e forse più rilevante per il tema qui in trattazione: il sostituto assegnatario, al termine delle indagini preliminari correttamente condotte, intende promuovere l’azione penale, mentre il procuratore non condivide tale conclusione. O viceversa. Può bastare, in assenza di errori o di mancato rispetto dei “principi e criteri definiti in via generale o con l’assegnazione”, la semplice divergenza di opinioni, cioè un contrasto sull’an, per giustificare la revoca dell’assegnazione stessa al sostituto? Va doverosamente ricordato che il CSM, il 21.9.2011, con una delibera approvata a maggioranza, sembra avere dato una risposta positiva a tale quesito, sia pure ancorandola a una serie di limiti e condizioni tali da attenuare il senso della decisione e, comunque, riservandosi “di adottare una delibera di carattere generale che disciplini l’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero nella prospettiva ordinamentale”. Il che non è ancora avvenuto.  L’esistenza del potere del procuratore di revocare l’assegnazione per contrasto sull’an potrebbe, peraltro, essere ricondotta (non trattandosi di un caso di violazione  di principi e criteri definiti dal procuratore stesso) al “contrasto circa le modalità di esercizio” dell’attività che precede il promovimento dell’azione penale. Ma ciò richiederebbe un’interpretazione estensiva di tale inciso, pure previsto dal co. 2 dell’art. 2 d. lgs. 106/2006.
Orbene è certamente necessaria un’ampia riflessione sul tema, accompagnata dallo studio delle prassi adottate nelle Procure italiane, ma secondo chi scrive la risposta al quesito, circa il potere del procuratore di revocare l’assegnazione per mero contrasto sull’an,  non può che essere negativa, pur dovendosi dare per scontata la doverosità di ogni immaginabile e preliminare interlocuzione, allargata all’aggiunto competente, per pervenire a una soluzione condivisa. Sostenere, invece, che quel tipo di disaccordo possa giustificare la revoca dell’assegnazione non pare soluzione praticabile (neppure attraverso l’elaborazione di linee guida che, successive al contrasto, tendano ex post a una legittimazione della revoca) ove il procuratore voglia rispettare l’autonomia del sostituto e interpretare virtuosamente il proprio ruolo.
E del resto, al di là della possibilità del sostituto di avanzare motivata richiesta di esonero dalla trattazione dell’affare su cui si registra il contrasto, nel senso predetto depongono l’art. 70 co. 4 ordinamento giudiziario e l’art. 53 c.p.p. che fanno  riferimento all’assoluta autonomia del pm che rappresenti la pubblica accusa in udienza. Infatti, per sostenere la possibilità di revoca dell’assegnazione durante la fase delle indagini per mero contrasto sull’an, si dovrebbe contemporaneamente affermare che l’autonomia del pm costituisce un principio a doppio regime o a “doppia velocità”, valido solo in sede dibattimentale. Eppure proprio in udienza, attraverso le conclusioni della pubblica accusa,si manifesta con maggior impatto l’esigenza di identificazione di quelle conclusioni con le linee dell’ufficio, diretto dal procuratore. Perché mai allora il procuratore potrebbe imporre le sue scelte solo nella fase di indagine e non anche nella più rilevante fase pubblica dibattimentale?
Il nesso necessario tra le “due autonomie” (quella in fase di indagine e quella in udienza) è sostanzialmente affermato anche dal CSM nella sua risposta del 6 marzo 2013 al quesito proposto da alcuni sostituti procuratori in ordine alla necessità o meno di espressa designazione da parte del procuratore per la partecipazione di due o più pm a una medesima udienza dibattimentale. Il CSM ha infatti affermato “la necessità che le disposizioni del procuratore siano adottate con modalità trasparenti, e comunque tali da escludere che con l’intervento in fase processuale di altro pm nel procedimento in origine assegnato solo ad altro sostituto si concretizzi in una interferenza con l’esercizio autonomo delle funzioni in udienza garantito (ndr. : all’originario assegnatario) dalle norme sopra richiamate”. Si è voluto evitare, in sostanza, che per quella via indiretta possano essere aggirate e ribaltate le conclusioni di chi ha diretto le indagini preliminari.
Resta da dire, comunque, che anche al fine di evitare contrasti originati da possibili ingerenze del procuratore nella conduzione delle indagini, è auspicabile che il dirigente dell’ufficio, in via generale o con l’assegnazione del processo, definisca in modo trasparente e preciso i criteri di cui al co.2 dell’art. 2 del d.lgs. 106/2006.
L’autonomia professionale, in ogni caso, resta caratteristica propria di ogni magistrato, non solo dei giudici, ai quali il presidente del Tribunale non potrebbe certo imporre di assolvere invece di condannare. E viceversa. Con il che si ribadisce la necessità di contrastare una visione esasperatamente gerarchica dei poteri dei procuratori.
Tale convinzione non è smentita neppure dalle prerogative del procuratore della Repubblica  previste dall’art. 3 d.lgs. 106 del 2009, secondo cui occorre il suo assenso (o di un aggiunto o di un magistrato delegato) per disporre un fermo o richiedere misure cautelari personali (purché non attinenti le procedure di convalida di arresti e fermi effettuati dalla pg) e – salvo sua diversa indicazione – misure cautelari reali. Si tratta di previsioni di legge connesse alla particolare incidenza di tali misure rispetto allo status libertatis dei cittadini o a loro diritti primari, tanto che non possono estendersi ad altri provvedimenti: il procuratore, ad es., non potrebbe disporre che anche le richieste di autorizzazione alle intercettazioni o alle relative proroghe siano condizionate al suo visto, mentre è ovvio che – nell’ambito dei suoi poteri organizzativi – possa dare indicazioni sulla necessità di utilizzare con attenzione tale strumento di indagine e di non dar corso a seriali richieste di proroghe in assenza di reali ragioni che le legittimino.
Tutto ciò, come già si è detto, non significa affatto rinuncia all’esercizio dei poteri che la legge riconosce al procuratore in materia di organizzazione dell'ufficio del pubblico ministero, compresi quelli ex art. 4 d. l.vo 106/2006: anzi, questo è un settore in cui è possibile parlare di necessità assoluta di esercizio di una “gerarchia positiva”, quella che si realizza anche nella determinazione dei criteri generali ai quali i magistrati addetti all'ufficio devono attenersi nell'impiego della polizia giudiziaria e delle risorse finanziarie e tecnologiche. Con la polizia giudiziaria, in particolare, va preventivamente – e non acriticamente – discusso l'uso delle risorse tecnologiche assegnate, ad es. per attività di intercettazione di conversazioni (con le ovvie ricadute sull'utilizzazione delle risorse finanziarie delle quali l'ufficio può disporre). Tutto al fine di assicurare l'efficienza dell'attività dell'ufficio. Del resto, il ruolo di direzione della pg che la Costituzione e la legge procedurale attribuiscono al pm nei confronti degli appartenenti alle sezioni e ai servizi di polizia giudiziaria deve dar vita a una prassi di interscambio virtuoso di conoscenze ed esperienze, all’elaborazione comune di strategie investigative, al rispetto delle esigenze di coordinamento investigativo nell’ottica non delle “brillanti operazioni di polizia”, ma dell’acquisizione di prove solide da portare al vaglio dei giudici. Di qui le indicazioni che alla pg il procuratore deve impartire, ad esempio, circa la necessità di redigere informative contenenti gli elementi di fatto essenziali per le determinazione del pm, evitando parti valutative degli elementi di fatto accertati (che competono al pm) ed eseguendo di iniziativa – per accorciare i tempi dell’indagine – gli accertamenti che appaiono ictu oculi necessari.
È il processo in contraddittorio, infatti, l’unico sbocco dell’investigazione, ed è solo la sentenza del giudice che ne attesta la qualità. Ed è al giudice, inoltre, che la legge attribuisce il più incisivo controllo sull’esercizio dell’azione penale, anche attraverso la sollecitazione a promuoverla, rivolta al pm inadempiente.
Sempre nell’ambito della discussione sulla gerarchia organizzativa e sul tema dei rapporti con i componenti l’ufficio, può collocarsi un altro delicatissimo tema concernente i poteri del procuratore, quello della selezione delle priorità nella trattazione dei fascicoli negli uffici dei pm.Negli ultimi anni, la selezione dei criteri di priorità è stata spesso giustificata con la crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penalee con l’impossibilità materiale degli organi giudicanti di trattare tutti i procedimenti per i quali il pm promuove l’azione penale a causa di sovraccarichi di lavoro, carenze di organico (di magistrati e personale amministrativo) e strutturali ormai assolutamente insopportabili. Senonché, l’obbligatorietà dell’azione penale è un principio da difendere con le unghie  e con i denti perché garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: ci si deve rendere conto che l’obbligatorietà è il malato da aiutare a guarire, non la malattia da cancellare!Dunque, pur se il tema merita ben altro approfondimento, il procuratore della Repubblica non può, in assenza di un sistema di tipizzazione delle priorità legislativamente predeterminato, elaborare criteri di priorità nella trattazione dei reati che non tengano conto della loro gravità e importanza, come graduate innanzitutto dalla entità delle pene edittali e che al contrario si ispirino alla scelta (variamente paludata) di non trattare procedimenti per reati che egli ritenga destinati in tempi medio-brevi alla prescrizione, spesso senza considerare aspettative e diritti delle parti offese.
Non a caso, in data 9 luglio 2014, il Consiglio Superiore della Magistratura ha adottato una delibera in cui si afferma, da un lato, che, per quel che attiene all’individuazione dei criteri di priorità da parte degli uffici requirenti, i dirigenti delle Procure della Repubblica devono innanzitutto tenere conto dei criteri adottati dai corrispondenti uffici giudicanti e, dall’altro, l’impossibilità di considerare il “rischio-prescrizione” quale criterio preminente rispetto agli altri possibili criteri di individuazione delle priorità. E per i dirigenti degli uffici giudicanti,  nella delibera del 10 luglio 2014, il CSM ha specificato che, in tema di criteri di priorità nella trattazione degli affari penali, “non potranno essere adottati provvedimenti che comportino un accantonamento di procedimenti per farne conseguire gli effetti estintivi per prescrizione”.
L’orientamento appena espresso, del resto, sembra rafforzato dalla recente approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del decreto legislativo recante “Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto”,  conseguente a quanto previsto dalla legge delega 28 aprile 2014 n. 67 (art. l, co.1, lett. m): quando il provvedimento entrerà in vigore, le Procure disporranno di un più corretto strumento di deflazione dei propri carichi di lavoro, che produrrà effetti positivi anche su quelli degli organi giudicanti penali.
Anche il ruolo di rappresentanza esterna dell’Ufficio attribuito al procuratore potrebbe essere ritenuto espressione del suo potere gerarchico: trova riconoscimento nella disciplina dei “Rapporti con gli organi di informazione”(art. 5 d.l.vo 106/2006), secondo cui il dirigente dell’ufficio mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione. Una previsione opportuna che, specie se rafforzata dall’utilizzo prevalente della prassi dei comunicati stampa, ed escludendo riferimenti ai magistrati assegnatari dei procedimenti cui la notizia si riferisce, serve a prevenire enfasi informativa. Siamo di fronte, quindi, a previsione riguardante l’esercizio di un potere virtuoso del procuratore, sicuramente da condividere e che deve mirare anche a fornire all’esterno l’immagine di un ufficio sobrio, compatto ed efficiente.
In conclusione, va precisato che quanto sin qui affermato è frutto della lettura organica del sistema ordinamentale in relazione a quello costituzionale, della sua storia nell’età repubblicana, dell’esperienza da molti magistrati (tra cui chi scrive) maturata negli uffici del pubblico ministero: tutto ciò impone di non rassegnarsi a interpretazioni mortificanti (nient’affatto dovute) del sistema vigente.


Il livello di efficienza di una Procura della Repubblica, infatti, non si fonda sul quantum di potere di chi la dirige, né sulla declamazione delle best practices (magari riassunte in ammalianti avvisi affissi sulle porte degli uffici) o sui pur apprezzabili e talvolta utili “bilanci di responsabilità sociale” diffusi in occasione delle inaugurazioni degli anni giudiziari : occorre piuttosto dar vita a un “buon governo” organizzativo che, nei fatti e attraverso l’effettivo sviluppo di sinergie positive interne, conduca, nel rispetto delle regole del giusto processo, al “corretto, puntuale ed uniforme” esercizio dell’azione penale. Tutte le componenti della Procura, dunque, devono procedere con reciproco rispetto, unite e senza enfasi, insieme progettando, costruendo e facendosi poi carico della “manutenzione” dell’impianto comune: ce lo impone anche il diluvio di leggi, convenzioni e sentenze che ci piovono addosso intensamente e che ormai ci impongono di guardare con attenzione al di là dei nostri confini.

Autore
Armando Spataro
Procuratore della Repubblica a Torino