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Milano 9 aprile 2015: morte in tribunale

di Ciro Cascone - 24 luglio 2015

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Giovedì 9 aprile era una giornata come le altre a Milano. I colori della primavera già si avvertono nell’aria, la frenesia del quotidiano non conosce soste, il week-end si avvicina. Anche quella mattina il Palazzo di Giustizia è frequentato, come ogni giorno, da migliaia di persone: avvocati, cancellieri, magistrati, imputati, testimoni, consulenti, cittadini, stagisti, giornalisti, forze dell’ordine, studenti in visita nell’ambito dei loro percorsi di legalità. Un luogo affollatissimo, dunque, una piccola cittadella che si popola dalle otto del mattino, fino al tardo pomeriggio, quando comincia a svuotarsi, ma ancora si percepiscono nel deserto dei suoi corridoi i passi e i respiri di chi li ha attraversati anche se solo per un giorno, per poche ore, portandovi le proprie speranze, richieste, aspettative, paure, emozioni, cioè un pezzetto della propria vita. 
Nessuna di queste migliaia di persone si aspettava quella mattina che avrebbe vissuto e toccato, in quel luogo, l’imprevedibilità umana, concretizzata da Claudio Giardiello, un uomo entrato armato in tribunale e deciso a fare una strage per vendicarsi di presunte ingiustizie subite dal sistema. Verso le undici del mattino, Giardiello, seduto tra il pubblico dell’aula della seconda sezione penale, dove era in corso un processo per bancarotta che lo vedeva tra gli imputati, estrae la pistola e comincia a sparare, colpendo dapprima a morte l’avvocato Lorenzo Claris Appiani, che si apprestava a rendere la propria testimonianza in quel processo, poi altri due coimputati, Giorgio Erba, che morirà di lì a poco, e Davide Limongelli, che rimarrà ferito. Subito dopo l’omicida esce dall’aula, incrocia un commercialista, Stefano Verna, che si era occupato di un suo procedimento, e lo ferisce; infine si reca al secondo piano, entra nella stanza del giudice Fernando Ciampi (titolare in passato di uno dei vari procedimenti che lo avevano riguardato), in quel momento intento, con l’aiuto di una cancelliera, a far ripartire una stampante, e lo uccide. Poi esce dal tribunale e si allontana con la sua moto. Verrà arrestato solo qualche ora dopo a 30 chilometri di distanza da Milano. 
Nella concitazione venutasi a creare prende corpo l’ipotesi che l’assassino sia ancora in giro armato nel palazzo, per cui tutti cercano riparo nelle aule e nelle stanze dei giudici, si vivono momenti di panico, aggravati dal fatto che ai più, agli stessi operatori della giustizia, è sconosciuta non solo l’esatta dinamica di quanto accaduto ma soprattutto il terribile bilancio che ne è seguito, che diverrà chiaro solo con il passare delle ore.
Nel frattempo, un’emozione incontenibile coinvolge tutti. Lo stesso pomeriggio del 9 aprile viene convocata dall’ANM milanese un’assemblea dei magistrati, con invito esteso anche agli avvocati. Il giorno successivo vi sarà un’assemblea congiunta magistrati-avvocati, in un’Aula Magna stracolma di migliaia di persone dentro e fuori, senza distinzione di provenienza e professione, e durante la quale la commozione toccherà vette altissime al momento dell’intervento della mamma di Lorenzo Claris Appiani, il giovane avvocato ucciso.
Questa la sintesi dei fatti, a margine dei quali possono svolgersi varie considerazioni. Colpisce, innanzitutto, il fatto che teatro degli eventi sia stato un tribunale. Non mancano precedenti simili, avvenuti nel passato recente.
Il 25 settembre 2002 un uomo (ex carabiniere in pensione) sparò alla moglie, uccidendola, nel Tribunale di Varese durante un’udienza in cui si discuteva la loro causa di separazione. Lo stesso fu successivamente condannato a 20 anni di reclusione per questo fatto.
Il 17 ottobre 2007 un quarantenne albanese sparò durante l’udienza di divorzio nel Tribunale di Reggio Emilia, colpendo a morte la moglie e il cognato e ferendo il legale della donna; dopo l’intervento di due poliziotti (uno dei quali pure rimase ferito) l’uomo fu ucciso mentre si apprestava a colpire ancora.
Nonostante la medesima drammaticità degli eventi, il contesto stavolta è molto più grave e preoccupante. Qui non si è trattato di una vendetta privata agita in un luogo pubblico come il tribunale, dove la lite scatenante la violenza doveva essere trattata e ricomposta. In questo caso l’esplosione omicida è stata premeditatamente e platealmente portata in scena quale momento di vendetta pubblica contro il sistema giustizia. Emblematiche le prime dichiarazioni dell’omicida al momento dell’arresto: «Quel posto è l’origine di tutti i miei mali: è il tribunale che mi ha rovinato… La giustizia fa schifo». Quell’uomo voleva uccidere non tanto e/o non solo chi riteneva gli avesse procurato problemi o fatto dei torti, la sua controparte processuale, ma voleva evidentemente colpire dei simboli, persone che non erano entrate in diretta relazione con lui, in sue vicende private, ma che in qualche modo rappresentavano le istituzioni da cui si sentiva oppresso. Uccidere un giudice, uno dei tanti giudici che si erano occupati dei suoi processi, in questo contesto non può assumere altro significato, se non porsi quale fortissima valenza simbolica di reazione estrema contro un sistema ritenuto iniquo, colpendo a caso.


La sicurezza


Davanti a un episodio del genere si è tentati di liquidare il tutto chiamando in causa la follia umana: si è trattato di un gesto isolato di un pazzo, e perciò a maggior ragione imprevedibile e inevitabile. È una spiegazione per certi versi tranquillizzante, ma insoddisfacente. Se proprio follia era, quella di Giardiello, è stata una lucida follia, pianificata e costruita con calma. E che ha evidenziato il serio problema di sicurezza in cui si trovano a operare oggi le strutture giudiziarie. È inspiegabile come una persona possa entrare armata in un tribunale, fare quello che ha fatto e poi uscire indisturbata. Sicuramente qualcosa non ha funzionato, qualcosa non funziona.
L’accesso al Palazzo di Giustizia di Milano avviene attraverso quattro ingressi pedonali, tutti presidiati da personale di vigilanza privata, tre dei quali aperti al pubblico, che al momento dell’accesso viene sottoposto a controllo mediante metaldetector, mentre il quarto è riservato al solo personale autorizzato ad entrare senza controlli, previa identificazione (magistrati, avvocati, personale dipendente). Da questo ingresso è riuscito a passare l’assassino armato, inducendo evidentemente in errore gli addetti alla vigilanza ed eludendo pertanto i controlli di sicurezza. Ma al di là di eventuali responsabilità di singoli, che saranno accertate, va forse rivisto il sistema complessivo attinente la sicurezza delle strutture giudiziarie. Anche perché in altri tribunali la situazione è spesso diversa da Milano, e non certo in meglio. La riflessione deve allargarsi anche alle vigenti modalità di vigilanza, oggi affidate – per esigenze di bilancio e di taglio dei costi – per lo più a società private, che la esercitano attraverso personale armato e personale non armato. Appare opportuno sottoporre a rivisitazione una tale scelta, privilegiando la presenza di forze dell’ordine, o comunque, ove sia necessario ricorrere anche a personale di società private, richiedere attività di vigilanza armata e non di semplice portierato.
Altro aspetto critico riguarda la vigilanza all’interno delle strutture giudiziarie. Solitamente è prevista la presenza di forza pubblica nelle udienze con detenuti (assicurata, per lo più, dal personale di polizia penitenziaria di scorta ai detenuti), mentre non si ha alcuna forma di presenza nelle altre udienze penali con imputati in stato di libertà. Né risultano forme di vigilanza alle udienze civili, dove pure tante volte sarebbe necessaria. Anche su tale aspetto è necessario che si apra un serio confronto, ripristinando forme minime di sicurezza in tutte le aule giudiziarie, a tutela non solo degli operatori ma anche e soprattutto dei cittadini che entrano in contatto ogni giorno con l’attività giudiziaria, che devono poter contare sul fatto di trovarsi in un luogo dedicato alla tutela delle persone, in tutti i sensi, e che non devono mai essere o anche solo sentirsi esposti a pericoli relativi alla propria incolumità.


Le figure colpite


Il 9 aprile sono state colpite a morte tre persone, ciascuna delle quali rappresenta simbolicamente un attore della Giustizia.
Giorgio Erba era imputato nel medesimo processo dell’assassino. Un cittadino, che, sebbene chiamato a rispondere delle proprie condotte in sede penale, è pur sempre un cittadino nel cui nome si amministra la giustizia. Erba rappresenta simbolicamente tutti i cittadini che entrano in tribunale ogni giorno, per i più svariati motivi, e contribuiscono con la loro presenza a celebrare e vivificare quotidianamente i valori fondanti la nostra società civile. Si va in tribunale per chiedere, per difendersi, talvolta per accusare, ma nella consapevolezza e convinzione che quello, e solo quello, è il luogo deputato alla ricomposizione dei conflitti. 
Lorenzo Claris Appiani era un giovane e apprezzato avvocato, in passato già legale dell’assassino. Quel giorno doveva svolgere la delicata funzione di testimone in quel processo; ma prima di assumere le vesti di testimone, aveva indossato quelle del legale e ne aveva svolto le funzioni con correttezza e precisione, al punto da perdere un cliente, il suo assassino, ma non la dignità e il rispetto della propria professione. Lorenzo, che forse non ha avuto nemmeno il tempo di comprendere il gesto dell’assassino, cumula in sé due figure essenziali per la celebrazione del Processo.
Fernando Ciampi, infine, era un giudice, «un giudice rigoroso, integerrimo, grande lavoratore. Era diretto nei modi, non certo cerimonioso», come lo ha ricordato la sua presidente di sezione Marina Tavassi (http://www.associazionemagistrati.it/doc/1942/ fernando-ciampi-uno-di-noi.htm). In magistratura dal 1967, ormai prossimo alla pensione, aveva attraversato molte stagioni all’interno del Tribunale di Milano, affrontando ogni causa, ogni vicenda, con la medesima professionalità, precisione, rigore. Era stato per anni presidente di sezione e, terminato tale incarico, era tornato a fare il “giudice semplice”, dimostrando un’umiltà e disponibilità di rara fattura. Quella mattina, conclusa la camera di consiglio, stava “litigando” con una stampante, e qui andrebbe aperto un altro capitolo a parte, quello dei mezzi a disposizione del giudice, costretto suo malgrado a svolgere sovente anche le mansioni di tecnico-informatico o a supplire alle carenze della macchina organizzativa.
Fernando, dunque, era nella sua stanza, come tutti i giorni, e neanche lui si sarà accorto della furia omicida che gli è improvvisamente piombata addosso pochi minuti prima delle undici, neanche avrà avuto il tempo di guardare in faccia l’assassino, né tanto meno di riconoscere in lui la persona che anni prima era passata dalla sua stanza, una parte in uno delle migliaia di procedimenti che aveva trattato. Sicuramente non ha compreso Fernando perché stava morendo, come ancora oggi risulta incomprensibile a noi tutti. Come non concordare con le parole di Marina Tavassi: «Il compito del giudicare è un compito difficile. Con le nostre scelte noi giudici − del settore civile, del settore penale, requirenti o inquirenti − decidiamo, al di là del tecnicismo delle nostre motivazioni, della vita delle persone. Anche alle Sezioni Fallimentari o dell’Impresa, decidendo della sorte delle aziende, decidiamo della vita delle persone, dei posti di lavoro, del benessere o del malessere delle famiglie. Pensare di pagare un prezzo − e che prezzo? − per le nostre scelte è impensabile».
Molti giudici sono stati uccisi, anche in anni recenti, a causa del loro lavoro, perché avevano in qualche modo portato avanti indagini scomode, perché avevano colpito poteri delinquenziali e mafiosi, esponendosi pertanto alla vendetta criminale. Mai era prima d’ora successo che un giudice civile venisse colpito e assassinato in tribunale, solo per aver compiuto il proprio lavoro, aver esercitato la funzione giurisdizionale. E al posto di Ciampi, vittima casuale, quel giorno poteva trovarsi un qualsiasi altro magistrato.
Possiamo allora sicuramente affermare che Fernando Ciampi e Lorenzo Claris Appiani sono stati «testimoni giusti, perché quotidiani e discreti servitori del bene comune» (per usare le parole del cardinale Angelo Scola pronunciate durante l’omelia del funerale), in questo sono stati, loro malgrado e senza saperlo, degli eroi, perché hanno solamente e semplicemente fatto il loro dovere, con precisione, consapevolezza e rigore. Certo, un’amara riflessione fa comunque capolino. A Milano il 9 aprile un assassino in preda a una
lucida follia ha seminato morte in tribunale, ma così facendo ha colpito non solo degli uomini, trasformandoli in simboli, ma la stessa Giustizia. Quella Giustizia che appare oggi in affanno, che viene additata come inadeguata, rallentata, vista con insofferenza e fastidio, su cui si riversano sempre più spesso frustrazioni mal tollerate. L’assassino del 9 aprile ha premeditato la sua strage per vendicarsi di presunte ingiustizie subite; ma è bastato scorrere alcuni commenti alle notizie di quei giorni sui siti di varie testate giornalistiche per trovare parole inqualificabili dello stesso tenore lanciate da varie persone. Ed anche la stentata solidarietà di alcuni ambiti istituzionali parrebbe indurre a perplesse considerazioni. Si è parlato anche di solitudine della Giustizia. È un tema che ci porta lontano ormai dai fatti del 9 aprile, ma che non per questo può essere accantonato o relegato ad altri dibattiti, ad altre sedi. C’è un malessere diffuso, ma vi sono anche troppi nodi mai sciolti nel meccanismo di funzionamento della macchina giudiziaria, che vanno affrontati da chi ha la responsabilità organizzativa e non nascosti sotto il tappeto. 
Ma oltre tali improcrastinabili interventi, va recuperata la funzione ineliminabile della Giustizia, il suo ruolo centrale nella tutela dei diritti, di tutti i diritti, e non soltanto di quelli comodi e scontati. Milano si è ritrovata nei giorni successivi al 9 aprile con questa rafforzata consapevolezza, convinta che «da queste morti − per usare ancora le parole del cardinale Scola − deve nascere una maggiore responsabilità di educazione civica, morale, religiosa, instancabilmente perseguita da tutte le agenzie educative, dalla famiglia, alla scuola fino alle istituzioni». Gli operatori della giustizia milanesi, avvocati e magistrati, hanno provato in quei giorni a reagire uniti. Solo continuando su questa strada, costruendo una sostanziale unità di intenti accompagnata da un dialogo continuo e franco, potrà recuperarsi il senso della Giustizia, circondandola e proteggendola con l’unico anticorpo di cui necessita: la fiducia dei cittadini. In questa direzione, la data del 9 aprile deve porsi come uno spartiacque tra un prima e un dopo, non una semplice commemorazione di tre persone uccise in un tribunale, ma momento di rilancio di una Giustizia malata.


Autore
Ciro Cascone
Segretario della Giunta dell’ANM di Milano

Va rivisto il sistema sicurezza dei Palazzi di Giustizia Ciro Cascone