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Ce lo chiedeva davvero l’Europa?

di Massimo Vaccari - 24 luglio 2015

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1. Premessa


La discussione in parlamento sul ddl 1070, contenente modifiche alla disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati, così come l’entrata in vigore della legge 27 febbraio 2015 n. 18, sono state accompagnate dallo slogan martellante di “Ce lo chiede l’Europa”, utilizzato da diversi politici per accreditare nell’opinione pubblica l’idea che la riforma si fosse resa necessaria per adeguare la disciplina previgente (l. 117/1988) al diritto dell’Unione Europea.
Tale genesi è stata esplicitata anche nell’art. 1 della legge, dedicato alla definizione del suo oggetto e delle sue finalità, che afferma come la novella introduca «disposizioni volte a modificare le norme di cui alla legge 13 aprile 1988 n. 117, al fine di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea». Detto così sembrerebbe che anche la parte della legge Vassalli, relativa alla responsabilità del magistrato funzionario, non fosse compatibile con il diritto dell’Unione Europea e fosse stata oggetto di censura da parte della Corte di Giustizia.


2. L’ambito di intervento della Corte di Giustizia


Se però si leggono le pronunce della Corte di Giustizia che hanno ispirato la riforma, ci si avvede che esse non hanno riguardato affatto, né del resto avrebbero potuto farlo, il profilo della responsabilità del magistrato ma quello della responsabilità dello Stato e, per di più, lo hanno circoscritto alla violazione da parte degli organi giurisdizionali di ultimo grado del diritto dell’Unione.
Infatti, con la prima di esse in ordine di tempo (sentenza Kobler 30 settembre 2003, causa C-224/01) la Corte dichiarò che «il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale». 
Nella sentenza Traghetti del Mediterraneo (13 giugno 2006, emessa nella causa C-173/03), la Corte di Giustizia affermò che «il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale». Nella stessa pronuncia la Corte ha anche osservato che «il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler». 
La medesima Corte di Giustizia, nel decidere la procedura di infrazione (causa C-379/10) promossa dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia per non essersi adeguata ai suddetti principi, ha rilevato che la disciplina italiana sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, laddove esclude qualsiasi responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado, qualora tale violazione derivi dall’interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e laddove limita tale responsabilità ai casi di dolo o di colpa grave, è in contrasto con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto dell’Unione.
L’intervento della Corte ha quindi riguardato essenzialmente la compatibilità con il diritto dell’Unione Europea della cosiddetta «clausola di salvaguardia» (art. 2, comma 2, della l. 117/1988), la quale escludeva che per certe attività del giudice (interpretazione delle norme e valutazione dei fatti e delle prove) fosse configurabile una responsabilità così dello Stato come del magistrato. La Corte ha ritenuto che, allorché nell’esercizio di tali attività venga a realizzarsi una violazione manifesta del diritto vigente dell’Unione Europea, l’esclusione della responsabilità dello Stato sia in contrasto con i principi della stessa Unione. 
La Corte ha specificato altresì che, allo scopo di valutare il carattere manifesto della violazione, deve farsi riferimento ai criteri di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione e alla non scusabilità dell’errore di diritto, alla mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, Ce (così le pronunzie Traghetti del Mediterraneo e Commissione Europea-Italia)


 3. La responsabilità per violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione Europea


Traendo spunto dai succitati pronunciamenti, la legge 18/2015 ha inteso rimodulare lo spettro della responsabilità dello Stato sulla violazione del diritto ovvero sul travisamento del fatto e delle prove quali ipotesi paradigmatiche di colpa grave che qualificano l’illecito riferibile a tutte le magistrature, anche quella onoraria.
Di conseguenza è stata adeguata la clausola di salvaguardia per l’attività di interpretazione delle norme di diritto e per quella di valutazione del fatto e delle prove, nel senso di non prevederne l’operatività in caso di dolo del magistrato e laddove l’interpretazione si risolva in una violazione manifesta della legge e la valutazione dei fatti e delle prove in un travisamento degli uni e delle altre, ipotesi queste che sono considerate di per sé indicative di colpa grave (art. 2, comma 1, lett. b). Nello stesso articolo, alla lett. c), si stabilisce che, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione Europea, «si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme nonché dell’inescusabilità dell’errore e della gravità dell’inosservanza» e, solo per i casi di violazione manifesta del diritto dell’Unione Europea, «anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea».
A ben vedere la norma non pare avere una reale portata innovativa. Essa infatti non fa che riproporre quegli stessi indici del carattere manifesto della violazione di diritto che la Corte di Giustizia aveva indicato nelle pronunce citate nel precedente paragrafo.
La formula utilizzata rimane però ambigua poiché pare richiedere ai fini dell’affermazione della responsabilità dello Stato che la violazione del diritto interno o comunitario sia non solo manifesta ma anche frutto di “errore inescusabile”. Se così è vi è allora piena corrispondenza tra i presupposti della responsabilità dello Stato e quelli della responsabilità del magistrato funzionario per la violazione di diritto atteso che l’azione di rivalsa nei confronti di quest’ultimo va esercitata nei casi di violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione Europea solo se gli stessi siano stati determinati da negligenza inescusabile (art. 7, comma 1, l. 117/1988 come modificato dall’art. 4 l. 18/2015)


4. La responsabilità per travisamento del fatto o delle prove


Nell’assetto della l. 117/1988 la valutazione dei fatti e delle prove non poteva mai dar luogo a responsabilità del magistrato e, conseguentemente, nemmeno dello Stato (art. 2 comma 2, c.d. clausola di salvaguardia). Era invece fonte di responsabilità, perché costituiva una delle ipotesi di colpa grave individuate dall’art. 2, comma 3, l’affermazione determinata da negligenza inescusabile di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente L’attività di valutazione del fatto e delle prove e l’interpretazione delle norme sono l’essenza della funzione giurisdizionale esclusa dagli atti del procedimento o la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento.
La sottrazione, nella l. 117/1988, dall’ambito di responsabilità del magistrato dell’attività valutativa del fatto e delle prove, che, insieme con l’interpretazione delle norme, costituisce l’essenza stessa della funzione giurisdizionale, era strettamente funzionale all’assicurazione dell’indipendenza del giudice che, a sua volta, costituisce garanzia di una valutazione imparziale dei fatti e delle risultanze istruttorie. 
La Corte Costituzionale aveva evidenziato questa stretta interrelazione tra indipendenza del giudice e autonomia nella valutazione dei fatti e delle prove nel seguente passaggio della già citata sentenza n.18/1989: «La garanzia costituzionale della sua (sott. del giudice, n.d.r.) indipendenza è diretta infatti a tutelare, in primis, l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale interpretazione delle norme di diritto. Tale attività non può dar luogo a responsabilità del giudice (art. 2, n. 2 l. n. 117 cit.) e il legislatore ha ampliato la sfera d’irresponsabilità, fino al punto in cui l’esercizio della giurisdizione, in difformità da doveri fondamentali, non si traduca in violazione inescusabile della legge o in ignoranza inescusabile dei fatti di causa, la cui esistenza non è controversa.
Né può sostenersi – come fa il giudice a quo – che la legge impugnata spingerebbe il giudice a scelte interpretative accomodanti e a decisioni meno rischiose in relazione agli interessi in causa, così influendo negativamente sulla sua imparzialità. Come si è ora rilevato, l’art. 2, comma secondo, della l. n. 117 esclude espressamente che possa dar luogo a responsabilità “l’attività d’interpretazione di norme di diritto” e quella di valutazione del fatto e delle prove».
La Corte di Cassazione si era ripetutamente pronunciata negli stessi termini, avendo affermato che la clausola di salvaguardia della legge 117/1988, che escludeva che potesse dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto ovvero quella di valutazione del fatto e della prova, non tollerava letture riduttive «perché giustificata dal carattere fortemente valutativo dell’attività giudiziaria e, come precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 1 del 19 gennaio 1989, attuativa della garanzia costituzionale dell’indipendenza del giudice e, con essa, del giudizio» (Cass. 27.11.2006, n.25123; Cass. sez. VI, 27.12.2012, n.23979).
Risultava, allora, coerente con una simile impostazione la scelta, compiuta con la l. 117/1988, di prevedere che solo l’ignoranza, purché inescusabile, da parte del giudice di fatti che, incontrastabilmente, fossero o non fossero «risultati dagli atti di causa» (questa è l’espressione utilizzata dall’art. 2, comma 3) o la cui esistenza non fosse stata controversa (così Corte Cost. sent. 18/1989) poteva legittimare la pretesa risarcitoria. Grazie a tale rigorosa delimitazione l’ambito di valutazione rimesso al giudice del giudizio di responsabilità era molto limitato, per non dire inesistente. 
La modifica dell’art. 111 Cost., con l’introduzione del c.d. principio del giusto processo, aveva ulteriormente rafforzato le garanzie che sovrintendono all’esercizio della funzione giurisdizionale soprattutto nella prospettiva di assicurare la parità tra le parti processuali. 
La novella si è discostata da tale impostazione. Essa infatti, pur riproponendo la clausola di salvaguardia (art. 2, comma 1, lett. b), ne ha ridotto l’ambito di operatività perché, nel punto successivo, ha ampliato i casi di colpa grave, sia numericamente, con l’introduzione delle ipotesi del travisamento del fatto o delle prove, sia nella loro configurazione oggettiva, avendo eliminato il riferimento alla negligenza inescusabile quale presupposto per l’integrazione di tutti gli illeciti che danno luogo a risarcimento.
Ai sensi dell’art. 7, comma 1, l. 117/1988, come modificato dall’art. 4 l. 15/2018, la negligenza inescusabile costituisce invece il presupposto soggettivo dei comportamenti, elencati dalla stessa norma, che giustificano l‘esercizio dell’azione di rivalsa nei confronti del magistrato. A ben vedere quindi, nella nuova disciplina, non vi è corrispondenza sotto il profilo soggettivo tra i casi di responsabilità dello Stato e quelli di responsabilità del magistrato, mentre vi è una solo parziale corrispondenza sotto il profilo oggettivo tra gli uni e gli altri.
Orbene, appare dubbia la compatibilità dell’art. 2, comma 1, lett. b), e dell’art. 4, nella parte in cui fanno riferimento alle ipotesi del travisamento del fatto o delle prove, con i parametri degli artt. 101, comma 2, e 111, comma 2 Cost., data l’equivocità e indefinibilità di tali nozioni.
Nelle intenzioni del legislatore esse non coincidono con le fattispecie dell’affermazione o negazione di un fatto (processuale) reale, dal momento che sono state aggiunte a queste ultime.
A riprova del fatto che nella novella le due serie di ipotesi sono state considerate come distinte va evidenziato che l’esercizio (obbligatorio) dell’azione di rivalsa è ora previsto in caso di travisamento del fatto o delle prove e non anche per la negazione di un fatto risultante dagli atti processuali o per l’affermazione di un fatto escluso dagli atti processuali (art. 7, comma 1, l. 117/1988 come modificato dall’art. 4 l. 18/2015).
Non pare però che il legislatore, nel ricorrere alla nozione di travisamento del fatto, si sia posto il problema della sua possibile coincidenza con la fattispecie integrante l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, primo comma, lett. h), d. lgs. 109/2006.
Eppure quest’ultima è stata identificata dalla dottrina, in difetto di pronunce delle Sezioni Unite della Suprema Corte, con l’errore revocatorio di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c., che, a sua volta, corrisponde alla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa o con quella dell’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita dagli atti processuali.
Orbene, da tale raccordo si evince come il travisamento del fatto rilevante sul piano disciplinare coincida con l’ipotesi di illecito civile dell’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del processo che, a sua volta, dovrebbe corrispondere alla nuova ipotesi del travisamento del fatto quale fatto illecito civile.
Ad identico risultato dovrebbe giungersi con riguardo all’ipotesi del travisamento delle prove se solo si considera che, da un lato, essa, nella novella, è parificata al travisamento del fatto e, dall’altro, che l’errore sul fatto è difficilmente distinguibile da quello sulle prove poiché il fatto assume rilievo nel processo, sia esso civile o penale, se provato.
Il travisamento delle prove quindi non pare identificabile con quello che assume rilievo nel diritto processuale penale, traducendosi in un vizio di motivazione della sentenza (cfr. ex plurimis Cass. pen., sez., VI, 22.1.2014, n. 10289), e del resto, dai lavori parlamentari, non risulta nemmeno che il legislatore abbia inteso far riferimento a quell’istituto.
Dall’esame dei lavori parlamentari emerge, peraltro, l’estrema difficoltà incontrata da chi vi partecipò a definire gli esatti confini della “nuova” fattispecie di illecito (dopo quanto detto sopra va infatti considerata).
A ben vedere nemmeno la relazione della commissione giustizia della Camera alla proposta di legge n. 2738, poi tradotta nella legge 15/2014, offre elementi utili a meglio definire la nozione in esame. Nel documento infatti, dopo l’affermato che «il travisamento del fatto e delle prove coinvolge aspetti tipici dell’attività valutativa, che è connessa ai principi costituzionali di indipendenza e imparzialità della giurisdizione», si propone un’interpretazione, definita come costituzionalmente orientata, di tali fattispecie, in base alla quale di travisamento potrebbe parlarsi solo in caso di macroscopico ed evidente stravolgimento del dato fattuale.
Orbene, il termine “stravolgimento” non è che un sinonimo di travisamento, e come tale non è sufficientemente distintivo delle nuove ipotesi rispetto a quelle dell’affermazione di un fatto escluso o della negazione di un fatto risultanti dagli atti. Né valgono a meglio connotarlo gli attributi di “evidente” e “macroscopico” che, a ben vedere, non costituiscono altro che gli indici sintomatici, sotto il profilo oggettivo, della negligenza inescusabile, presupposto indefettibile della responsabilità del magistrato. 
La nuova nozione risulta equivoca anche sotto un ulteriore e distinto profilo.
Non è chiaro infatti se essa alluda a una radicale alterazione della realtà processuale e quindi a una “svista” idonea a determinare un esito processuale opposto a quello cui giunge un provvedimento giudiziario, con la conseguenza che, se questo fosse il suo significato, dovrebbe escludersi l’illecito qualora l’errore investisse uno dei tanti elementi che abbiano sorretto la decisione.
Si rammenti che erano state la “limitatezza” e “tassatività” delle fattispecie in cui, secondo il tenore originario della l. 117/1988, era ipotizzabile una colpa grave del giudice a indurre la Corte Costituzionale a escludere che la loro previsione potesse compromettere la serenità e l’imparzialità di giudizio dello stesso (Corte Cost. sent. 18/1989). Una volta che la nuova fattispecie difetti di sufficiente tipizzazione è evidente come essa offra ampia possibilità di condizionare l’esercizio della funzione giurisdizionale ed anche di favorire il contenzioso.
Il nuovo testo normativo consente infatti di censurare qualsiasi valutazione dei fatti o del materiale probatorio compiuta dal giudice nel giudizio a quo, che risulti non gradita o sfavorevole, semplicemente qualificandola come travisamento.
Né potrebbe sostenersi che le modifiche fin qui esaminate fossero imposte dalla necessità di adeguarsi all’ordinamento comunitario, dal momento che i valori costituzionali richiamati non interferiscono con esso.




 

Autore
Massimo Vaccari
Giudice del Tribunale di Verona

Le pronunce che hanno ispirato la riforma non riguardavano la responsabilità del magistrato Massimo Vaccari