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I carichi massimi esigibili, concetto scontato ma molto osteggiato

di Franca Amadori - 24 luglio 2015

Carichi massimi esigibili

Immaginate di recarvi al Pronto Soccorso con un taglio profondo sulla fronte. Siete impauriti e preoccupati perché il taglio vi fa male e perché temete che vi rimanga una brutta cicatrice sul viso.
Immaginate di trovare un medico che vi metta pochi punti di sutura alla bell’e meglio e vi dica: “Egregio signore, io potrei metterle dei punti di sutura molto più elaborati e potrei fare in modo che la cicatrice sia quasi invisibile. Ma il tempo che ho a disposizione è troppo poco, perché la direzione del Pronto Soccorso pretende che io curi circa cento pazienti al giorno e quindi, se dedicassi a lei il tempo necessario per fare una buona sutura, non potrei mantenere il livello di produttività che mi è stato richiesto. Per cui posso metterle solo questi pochi punti e non è colpa mia se le rimarrà una brutta cicatrice sul viso”.
È più o meno quello che accade in magistratura. Cercare di definire un procedimento in tempi brevi con le procedure attuali è come pretendere di partecipare alla gara dei 100 metri piani con una gamba ingessata.
Tuttavia, tale obiettivo può essere raggiunto ugualmente, a patto che il numero di magistrati chiamati a decidere sia di gran lunga superiore a quello in pianta organica nazionale.

«Nulla serve, eccetto la perfezione» diceva Winston Churchill.
Ed è esattamente quello che ogni cittadino ha diritto di attendersi dalla macchina giudiziaria: la perfezione, fermo restando che non può essere imputato al giudice il cattivo funzionamento di procedure che sembrano studiate apposta per funzionare poco e male.
Un buon funzionamento giudiziario, a sua volta, concorrerebbe ad aumentare le risorse del bilancio nazionale, attraverso il recupero dei crediti fiscali accumulati dai grandi evasori, nonché attraverso il miglioramento della “reputazione” complessiva del Paese di fronte agli investitori stranieri, ma per farlo occorre rovesciare il criterio organizzativo.
Per semplificare al massimo il concetto, posso fare un esempio. Se in un certo ufficio la domanda di giustizia è pari a 50.000 cause nuove all’anno, oggi si ragiona nel modo che segue: quanti giudici sono in servizio in quell’ufficio giudiziario? Poniamo che siano 10. Ergo, il carico di lavoro è presto detto: si fa 50.000 diviso 10. Risultato: 5.000 fascicoli a testa. Ebbene, tale criterio organizzativo poggia sulla delirante tesi che “chi è bravo sa organizzarsi bene e dunque può smaltire qualsiasi carico di lavoro anche senza risorse”. Che cosa esattamente significhi “sapersi bene organizzare” non è mai stato chiarito. In realtà è un fuori luogo, perché il giudice non è un professionista autonomo, anche se gli è riconosciuta un’ampia autonomia organizzativa.
Infatti, diversamente da quanto accade a un avvocato, le risorse di cui può disporre non dipendono da lui. Analogamente, anche la quantità di lavoro che deve svolgere non dipende da lui. Un avvocato può rifiutare di accettare nuovi incarichi se la sua agenda è già colma, mentre un giudice non ha questa possibilità.

Dunque l’idea che “tutto sta a sapersi bene organizzare” e già smentita in radice dal fatto che organizzarsi significa poter decidere di quali risorse si ha bisogno e quanto lavoro può essere svolto con tali risorse.
Nessuna di queste due decisioni spetta al singolo magistrato, il quale si trova a lavorare con le risorse che gli vengono fornite e nella quantità che gli viene imposta.

In realtà, in un’organizzazione del lavoro seria e non meramente velleitaria, il ragionamento s’inverte. Se la domanda di giustizia è pari a 50.000 nuove cause all’anno, occorreranno, al fine di fronteggiarla in modo professionalmente adeguato, tanti giudici quanti sono i fascicoli che un singolo magistrato può ragionevolmente trattare in modo professionalmente ineccepibile.
Quel numero costituisce il carico massimo esigibile, oltre il quale la qualità del servizio scade. Dunque, tornando all’esempio, supponendo che il carico massimo sia pari a 500 processi a magistrato, ergo se ne deduce che per fronteggiare una domanda di giustizia pari a 50.000 nuove cause occorreranno 100 magistrati.

Non parrebbe, in realtà, necessario spendere troppe parole per comprendere che il primo e più importante criterio organizzativo, in qualsiasi lavoro e non solo in quello del magistrato, deve necessariamente essere quello teso a individuare qual è esattamente il carico di lavoro che ciascun lavoratore può svolgere con un livello di qualità che deve essere, almeno, discreto.

L’unico settore in cui questo criterio è rifiutato con fermezza, da molti anni, è quello del lavoro giudiziario, per ragioni che attengono a logiche clientelar-correntizie ormai anche abbastanza scoperte.
Purtroppo, quando il ruolo diventa pericolosamente carico di cause, si innescano tre diversi tipi di scelte da parte del magistrato » che lo deve gestire: c’è chi, puntando al fatto che il suo operato verrà giudicato prevalentemente in base alla “produttività”, smette – di fatto – di scrivere sentenze, intese come provvedimenti ragionati, frutto di un serio lavoro di analisi. Si dedicheranno a ogni provvedimento poche righe, buone per ogni tipo di questione da trattare. Tali tipi di sentenze, in gergo, si chiamano “stamponi”.
Si tratta di una sorta di moduli da riempire con il nome delle parti, con poche formule stereotipe buone per ogni fattispecie (dalla cessione di uno spinello, alla violenza carnale), senza che il giudice chiarisca in che modo ha incrociato tra loro i dati emersi alla sua attenzione. Ho saputo di un collega che vantava la propria “produttività”, affermando di aver depositato ben 367 sentenze civili nell’ultimo anno di lavoro. Peccato che un anno abbia solo 365 giorni.

Peccato che in quei 365 giorni ci siano anche i giorni di udienza, durante i quali si è impegnati in aula a celebrare processi. Peccato che quelle udienze debbano essere precedentemente studiate e quindi tale tempo non può essere dedicato alla redazione di sentenze. Peccato che non tutte le sentenze possono essere scritte con poche righe, perché ce ne sono diverse che richiedono invece parecchi giorni: quando un procedimento coinvolge numerosi imputati, la sentenza, benché unica, equivale a tante sentenze quanti sono gli imputati, perché ciascuno di essi ha diritto a una valutazione mirata e specifica della sua posizione, non diversamente da quanto accade quando viene trattenuta in decisione una causa che riguarda un imputato solo.
Peccato che scrivere molte sentenze tutti i giorni dell’anno solare (compresi Pasqua e Natale) significhi fare ciò che fa il medico che mette alla bell’e meglio quattro punti di sutura al paziente, che lo sfigureranno per sempre, ma che potrà “vantare” di aver messo suture a ben 100 persone al giorno (non saprei dire se tale pensiero potrà consolare chi è rimasto sfigurato...). Peccato infine che un modo simile di lavorare è, a sua volta, produttivo di lavoro per altri uffici giudiziari: perché la Corte d’Appello non potrà che prendere atto delle lacune del provvedimento, e quindi ci sarà un’impugnazione anche davanti alla Corte di Cassazione, che a sua volta dovrà annullare con rinvio e così via, senza contare gli assai frequenti vizi procedurali, che comporteranno la dichiarazione di nullità degli atti con conseguente regresso del procedimento in danno di altri giudici di quello stesso ufficio giudiziario, in una sorta d’infinito gioco dell’oca.


C’è però chi non se la sente di effettuare la scelta “estrema“, appena descritta, ed allora adotta una via di mezzo: preferisce la scelta “intermedia” (che è quella, di fatto, più diffusa). È la scelta del giudice che in sostanza si affida alla sua buona sorte e quindi cerca di “indovinare”, a suo totale capriccio (da lui pretenziosamente chiamato “buon senso”), quali procedimenti devono essere trattati con professionalità e quali invece possono essere trattati in modo, per così dire, “sommario”. Tali colleghi spesso contano non solo sulla propria capacità d’“intuizione”, ma pensano – a torto o a ragione – di poter contare anche sulla rete di relazioni in cui sono inseriti, che, in qualche modo, li dovrebbe tutelare in caso di errata valutazione su quale procedimento va seguito con maggiore attenzione.


Infine c’è la scelta di chi cerca di andare sul “sicuro”, dedicando a ogni provvedimento il massimo dell’attenzione possibile. Anche questa scelta, che in realtà è la più seria, non è indolore. Il giudice scrupoloso si trova a sacrificare gran parte del proprio tempo al lavoro giudiziario, ma questo, paradossalmente, lo penalizzerà quando si tratterà di partecipare agli interpelli interni, perché non potrà vantare i cosiddetti “titoli”, cioè tutta quella serie di attività non giudiziarie che (per ragioni incomprensibili) valgono a “scavalcare” gli altri aspiranti, privi di tali titoli.
Delle tre scelte possibili, le prime due hanno un prezzo molto caro.

Infatti, chi bada solo a definire più procedimenti possibili, non importa come, fa una scelta che viene pagata in primo luogo dai singoli cittadini, che si trovano a sostenere spese legali nella speranza di ottenere una decisione ragionata e non un modulo a stampa.
Poi viene pagata da altri magistrati, perché una sentenza lacunosa e omissiva, adottata magari, come spesso accade, con nullità procedurali, conduce all’annullamento con rinvio ad altro giudice di primo grado, che, a sua volta, deciderà di nuovo, e via così, in un giro di danza infinito.
Inoltre, viene pagata dalla collettività nel suo insieme, perché in campo civile accade che gli investitori stranieri rinuncino a investire in Italia proprio perché non si fidano della possibilità di recupero in tempi rapidi dei propri crediti, mentre i creditori italiani, ormai sfiduciati, finiscono per rivolgersi (purtroppo sempre più spesso) ai cosiddetti “esattori per conto terzi”, cioè a veri e propri delinquenti che, attuando condotte estorsive di gravità via via crescente (si va dall’incendio dell’autovettura del debitore, al pestaggio e via elencando), ottengono finalmente il pagamento del credito.
Tale inefficienza della giustizia civile, comporta, pertanto, un ulteriore aumento della domanda di giustizia penale, così incrementando l’arretrato degli uffici penali, già in sofferenza, alimentando, di nuovo, un circolo vizioso.

Ma anche la terza scelta ha conseguenze molto pesanti. Infatti, la paga il magistrato in prima persona. Il poveretto si affanna, disintegra la sua vita privata, rimane chino per ore sulle carte, non è più disponibile per nessun familiare, non riesce più a seguire i figli (la donna-magistrato finisce per essere sconosciuta al pediatra . . .) ma, nonostante questo, il ruolo continua a crescere.
Mettiamoci che possono capitare quegli imprevisti che capitano nella vita privata di chiunque, per esempio la necessità di assistere un congiunto ed ecco che il poveretto resta travolto. Per cui tutto si gioca, a questo punto, sulla buona fortuna del magistrato: avere una famiglia collaborante su cui poter contare può fare la differenza.

Ma il paradosso più grande è che tanto sacrificio individuale non varrebbe a migliorare i tempi di definizione complessivi dei processi, nemmeno se tutti i magistrati in servizio adottassero questo più che lodevole criterio di gestione del proprio lavoro.

Dunque, l’unico vero rimedio a tali conseguenze così gravemente deleterie è quello di cominciare finalmente ad applicare un criterio organizzativo tra i più ovvi che si conoscano, costituito dall’individuazione del carico di lavoro che ogni singolo magistrato può svolgere in modo professionalmente ineccepibile.
Significa cioè perseguire il seguente obiettivo: la stessa quantità di lavoro deve essere smaltita dallo stesso numero di magistrati in qualunque ufficio del territorio nazionale.
O, se si preferisce, dal punto di vista del singolo magistrato: ogni magistrato deve smaltire la stessa quantità di lavoro (a parità di qualità) in qualunque ufficio del territorio nazionale.


I criteri
Il vero criterio di organizzazione è costituito dall’individuazione del numero di procedimenti che un giudice può trattare secondo standard professionalmente ineccepibili o comunque discreti, avendo non solo il tempo di studiare i documenti prodotti dalle parti, ma altresì di restare aggiornato.


Ed allora due sono i parametri imprescindibili, qualunque sia la funzione svolta dal singolo magistrato:


» quello cronologico: un mese è costituito da 30 giorni, di cui quattro sono festivi, quindi un mese lavorativo è costituito da 26 giorni, dai quali devono essere sottratti quelli di udienza, dedicati alla celebrazione dei processi, dai quali devono essere poi ulteriormente sottratti quelli per lo studio dell’udienza, poiché non si può celebrare un processo senza conoscere gli atti del processo stesso;


» quello qualitativo (cosiddetto “peso del procedimento”): non tutti i procedimenti sono di pari difficoltà, per cui il criterio cronologico deve essere abbinato al criterio del peso, che, ad esempio, nel Tribunale penale di Roma è stato stabilito già da alcuni anni da un’apposita commissione, che ha fissato una serie di parametri all’esito dei quali il peso del singolo procedimento è valutato con indici che vanno dal “peso 1” (che individua procedimenti di facile definizione, come ad esempio la ricettazione di un ciclomotore) al “peso 4” (che individua procedimenti di definizione molto difficoltosa).
Il risultato è che il carico di lavoro che si può esigere da ogni giudice ogni anno sarà determinato dalla combinazione di tali due fattori. In sintesi, il carico massimo coincide con il “peso” complessivo che può essere soddisfacentemente smaltito ogni anno da ogni singolo giudice, in qualunque ufficio giudiziario egli lavori.

L’idea secondo la quale la ricettazione di un ciclomotore sarebbe più complicata da decidere in Sicilia piuttosto che in Lombardia è smentita dai fatti: un procedimento per un medesimo reato comporta lo stesso dispendio di risorse. Per assicurare giustizia a tutti, a procedure immutate, occorre un carico di lavoro adeguato per ogni magistrato. In sintesi, il numero fisso mira ad “arruolare” un numero di magistrati sufficiente a permettere che tutti coloro che si rivolgono ai tribunali possano ottenere rapidamente una risposta giudiziaria completa, professionale e ineccepibile.

Lasciare al singolo dirigente, con ratifica assembleare o meno, stabilire quale carico debba essere lavorato in quel particolare anno, senza parametri fissi (art. 37 l. 111/’11), significa semplicemente affrontare in modo velleitario e improvvisato un problema che deve invece trovare una risposta fissa e strutturale.

Sapere quanto lavoro ogni singolo giudice può smaltire, significa, nell’ordine, poter programmare − anche in sede politica − quanti cancellieri occorrono, quante aule, quanti tribunali e via discorrendo. Ignorare tale dato, significa, di fatto, organizzare al buio il lavoro dell’intero corpo giudiziario.

Autore
Franca Amadori
Giudice del Tribunale di Roma

Con un buon funzionamento giudiziario aumenterebbero le risorse del bilancio nazionale Franca Amadori