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Questione corruzione e dintorni

L’esperienza degli anni ’90 e l’inizio del millennio

di Paolo Ielo - 24 luglio 2015

Corruzione e dintorni

Il corso degli anni ‘90, sul piano dell’esperienza giudiziaria, è stato segnato dai grandi processi di mafia e da quelli relativi a fatti di corruzione. L’imporsi di un nuovo modello processuale e in esso la diversa fisionomia dell’organo dell’accusa, una diversa cultura investigativa attenta alla modernità, ai saperi laterali alla scienza strettamente giuridica, che scopre l’utilizzazione di norme sanzionatorie quasi silenti nell’ordinamento − quali l’illecito finanziamento ai partiti − che valorizza le connessioni tra fatti corruttivi e fattispecie confinate fino a quel momento in recinti da iniziati − quali il delitto di false comunicazioni sociali e la frode fiscale − l’eliminazione dell’istituto dell’autorizzazione a procedere sono alcune delle ragioni interne che consentono indagini e processi su fatti corruttivi in una misura fino a quel momento ignota nell’esperienza giudiziaria italiana.

Indagini e processi che evidenziano l’esistenza della questione corruzione, specialmente legata sul versante istituzionale al finanziamento della politica e sul versante imprenditoriale al tema della trasparenza contabile e finanziaria.

All’inizio di quel periodo che si è definito tangentopoli, con specifico riguardo all’esperienza giudiziaria che si andava delineando, due questioni sono al centro del dibattito: la necessità di processi dove verificare le ipotesi d’accusa; l’uso della custodia cautelare in carcere, ritenuto, negli accenti più critici, strumentale all’ottenimento di confessioni.

In una fase più avanzata, quando i processi si celebrano, e si concludono prevalentemente con condanne, al primo tema si sostituisce quello della riforma di alcuni aspetti del processo penale, e segnatamente della modalità di acquisizione della prova in dibattimento (modifica dell’art. 513 c.p.p., rogatorie), e si aggiunge l’ulteriore questione dello strabismo politico che, secondo alcuni osservatori critici, assume l’azione giudiziaria.

Non è certo questa la sede per trattare tali profili, sui quali davvero molto vi sarebbe da dire, ciò che occorre rimarcare è che di tutte le questioni poste nessuna si fa carico del problema criminale che le indagini e i processi evidenziano: l’esistenza di una corruzione diffusa e impunita, così come diffusi e impuniti sono i reati satellite che ad essa si accompagnano.

Nel corso degli anni ‘90 si registra la totale assenza di interventi istituzionali, normativi o organizzativi, che si pongano il problema della prevenzione della corruzione o quello dell’adeguatezza dei profili repressivi, anche con riguardo agli strumenti investigativi utilizzabili. Ma vi è di più.

Sul versante repressivo, verso la fine degli anni ‘90 viene modificato il reato d’abuso d’ufficio − depotenziato quanto a limiti edittali e reso molto più complesso quanto a elementi costitutivi − classico reato-satellite della corruzione; agli inizi del 2000 viene trasformata la frode fiscale, strumento privilegiato utilizzato per la creazione di disponibilità extracontabili, da reato di pericolo a reato di danno, con conseguente maggiore difficoltà di prova e sanzione; nel 2002 viene sterilizzato il reato di false comunicazioni sociali, ridotto a reato bagatellare. Unico segno normativo distonico rispetto al trend indicato è l’introduzione, obbligata da convenzioni internazionali, della responsabilità degli enti, strumento che sanziona, nel caso di commissione di reati nell’interesse di soggetti metaindividuali privati, l’assenza di un’adeguata prevenzione.


La questione corruzione: dal numero indicibile di inizio secolo al mantra dei nostri giorni
L’inizio del millennio è caratterizzato nel dibattito, istituzionale e non solo, dall’eclisse della questione corruzione, simile, in tale periodo, al numero indicibile dei pitagorici, quasi che non affrontarla fosse un modo per eliminarla. Miope illusione: il fenomeno criminale, fiume carsico sui generis, s’inabissa, per poi emergere prepotentemente con forme di manifestazione impensabili verso la fine del decennio.

Da qualche anno accade esattamente il contrario: il dibattito registra quotidiani interventi sul tema, vengono sciorinati numeri, elaborate statistiche, prodotti sondaggi, con l’inevitabile corollario di chi invoca sanzioni draconiane. 
Il rischio di tale messe di informazioni è quello classico connesso alla nebbia informativa: incapacità di cogliere il nocciolo delle questioni, con un effetto uguale e contrario a quello denunciato, ossia l’illusione, fallace pur’essa, che parlar continuamente della questione corruzione sia un modo per eliminarla.


La questione corruzione: il volto della prevenzione
È la l. 190/12 a segnare un’inversione di tendenza, intervenendo in modo significativo attraverso l’elaborazione di un sistema di prevenzione, trapiantando, non senza criticità, moduli previsti in materia di responsabilità degli enti. La previsione di piani di prevenzione della corruzione, con contenuti di risk assessment e risk management di reale efficacia, l’individuazione di un funzionario Responsabile Anticorruzione costituiscono alcuni dei tratti più significativi del volto attuale della prevenzione in materia.

Un’inversione di tendenza rafforzata dall’ampliamento dei poteri dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, da ultimo definiti con la l. 114/2014, dotata delle competenze in materia di vigilanza dei contratti pubblici, prima appartenenti all’AVCP.

Occorre tuttavia osservare che un’efficace prevenzione è possibile solo se si modificano alcune condizioni di sistema che fungono da incubatrice ai sistemi corruttivi: l’iperegolazione e l’implementazione del quadro normativo in forme alluvionali, che producono l’opacità del sistema delle regole, e il suo contrario, costituito dall’assenza di regole.

Un quadro normativo chiaro e stabile è una delle condizioni di sistema che creano anticorpi alla corruzione, poiché a tutti gli operatori è chiaro ciò che è consentito e ciò che è vietato e vi è poco spazio per la mediazione dei professionisti della complicazione o per quella dei professionisti dell’eccezione. Esattamente il contrario di ciò che è accaduto in alcune delle aree di regolazione di maggior significato per l’agere pubblico: secondo quanto riferiscono riviste specializzate di settore, il codice dei contratti (d.lgs. n. 163 del 2006) è stato modificato 45 volte in sette anni; la legge sul procedimento amministrativo (7 agosto 1990 n. 241) è stata modificata 29 volte in 23 anni; il TU edilizia (dpr 380 del 2001) è stato modificato 21 volte in 12 anni; il testo unico degli enti locali (d.lgs. n. 267 del 2000) è stato modificato 64 volte in 13 anni.

Per converso, vi sono alcune aree nelle quali si realizzano condizioni di totale assenza di regole, attraverso l’anomia di sistema ovvero attraverso meccanismi che consentono la fuga da sistemi regolati. L’assenza di regole organiche di sistema si ha nel settore del lobbying istituzionale.

Se, per citare Bobbio, la democrazia è un mercato di interessi in conflitto nel quale è necessaria la pratica del compromesso, nessun dubbio può essere avanzato circa la legittimità di quelle attività per mezzo delle quali i rappresentanti dei gruppi di interesse, agendo da intermediari, portano a conoscenza dei legislatori i desideri dei loro gruppi, così come del resto la stessa Corte Costituzionale ha ritenuto (sentenza 379/2004) evidenziando l’arricchimento che tale attività porta ai processi decisionali pubblici.

L’assenza di una disciplina organica del settore − dal 1983 ad oggi si registrano circa 30 tentativi di regolamentazione del lobbying − crea tuttavia un formidabile ambiente di coltura di germi corruttivi, dove il faccendiere, che svolge essenzialmente un servizio di mediazione corruttiva tra il privato e il decisore pubblico, si confonde con il lobbista e dove difetta totalmente il requisito della trasparenza, potente antidoto contro i veleni corruttivi.

Una condizione di anomia si determina anche in settori oggetto di specifica normazione, nei quali si ha una fuga dalle regole, non di rado in nome dell’emergenza, vera o presunta, come nel caso delle leggi che derogano a obblighi e procedure sui contratti pubblici e che l’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato essere terreno assai fertile per il germogliare di fatti corruttivi.


La questione corruzione: il volto della repressione
I caratteri del quadro sanzionatorio si sono sensibilmente modificati a seguito della legge 190/12, che, pur non prevedendo una riforma strutturale dei reati contro la Pubblica Amministrazione, interviene con incisività nel settore.

Viene, anzitutto, ridisegnata l’architettura dei reati di corruzione, rendendo l’art. 318 c.p. l’archetipo dei reati corruttivi, conferendo esplicito riconoscimento normativo alla figura della corruzione da asservimento, aumentando sensibilmente i limiti edittali previsti per tali reati.

Viene, altresì, delimitata l’ipotesi di concussione in senso stretto, escludendovi, tra i soggetti attivi, la figura dell’incaricato di pubblico servizio e resecando l’ipotesi di concussione per induzione, per la quale è prevista una nuova cornice giuridica, l’art. 319 quater c.p., l’induzione indebita a dare o promettere utilità, in relazione alla quale viene prevista la punibilità del privato.

Viene, infine, introdotta l’ipotesi del traffico d’influenze all’art. 346 bis c.p., prevedendo una copertura penalistica per condotte certamente lesive dei beni dell’imparzialità e della trasparenza dell’agire pubblico.

Un intervento riformatore, apprezzabile nei suoi intenti e in alcuni risultati conseguiti, che tuttavia su un versante lascia inalterate talune criticità, su un altro versante ne produce di nuove. Permangono il problema di un’eccessiva frammentazione delle figure di reato e quello di una concezione mercantilistica della corruzione, che richiede l’esistenza di un sinallagma corruttivo pure in presenza di solide prove di erogazione di utilità, così come rimane il problema di una più puntuale definizione delle qualifiche pubblicistiche.

Nuovi aspetti di criticità sono legati alla nuova figura dell’induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.), che crea più problemi di quanti non ne risolva, così come non sembra aderente alla realtà l’esclusione dell’incaricato di pubblico servizio dal novero dei soggetti attivi del reato di concussione (art. 317 c.p.).

Recentemente, a fronte del riproporsi della questione corruzione nell’esperienza giudiziaria, sono state indicate come possibili soluzioni l’inasprimento sanzionatorio e forti limitazioni alla possibilità di accesso al patteggiamento.

Un simile approccio, apprezzabile nei suoi intenti, non è condivisibile in tutti i suoi aspetti. L’ effettività del profilo repressivo si ottiene non tanto – non solo e non soprattutto, se si vuole – attraverso l’inasprimento dei profili sanzionatori, quanto piuttosto adeguando strumenti investigativi e possibilità di itinerari processuali alle specificità dei reati di corruzione. Reati fondati su un patto di solidarietà tra i loro autori, garantito da un convergente interesse al silenzio, che costituisce il più solido ostacolo all’accertamento degli illeciti e che deve essere inciso per ambire a una ragionevole effettività dell’approccio repressivo.

In questo senso, utilità certa deriverebbe dalla valorizzazione di quegli strumenti investigativi che consentano di aggirare il patto di illecita solidarietà tra corruttore e corrotto.

Anzitutto le intercettazioni telefoniche e ambientali, che potrebbero essere consentite negli stessi casi e con le stesse forme di quelle previste in materia di criminalità organizzata − che agevolerebbero l’accertamento dei fatti a prescindere dalla rottura della solidarietà tra gli autori del reato di corruzione − e delle quali occorrerebbe consentire l’utilizzazione probatoria in tutti i casi di procedimenti per corruzione, anche ove generate in procedimenti diversi, ciò che oggi non è consentito. Ancora utilità certa deriverebbe dalla previsione di speciali attenuanti per chi collabora nella ricostruzione dei fatti, strumento idoneo a trasformare la convergenza in conflitto di interessi, con la possibilità, in un quadro sanzionatorio inasprito, di un più facile accesso al rito del patteggiamento. Infine utilità certa deriverebbe dalla possibilità di effettuare operazioni sotto copertura: l’undercover, istituzionalmente estraneo al patto di solidarietà corruttiva, sarebbe un formidabile strumento per aggirarlo al fine dell’accertamento dei fatti.

Discorso a parte merita il tema della prescrizione, istituto che incide in questo settore nel senso dell’ineffettività del profilo repressivo più di quanto non incida in via generale per il sistema penale. I reati di corruzione sono ad elevatissima cifra nera, costituita dalla differenza tra i reati commessi e i reati denunciati, la cui caratteristica è costituita dal fatto che essi vengono scoperti, con conseguente inizio delle indagini, molto tempo dopo la loro commissione, quando una parte non esigua del tempo necessario per la prescrizione è già stata consumata. Sono reati molto complessi da accertare, che non di rado, soprattutto per la ricostruzione dei flussi finanziari illegali che implichino rogatorie all’estero, richiedono tempi lunghi e processi faticosi.


Por mano alla questione, magari utilizzando soluzioni già presenti nel sistema − come quella del processo di accertamento della responsabilità degli enti, dove la prescrizione è bloccata dall’atto di inizio del processo – sembra indifferibile.


Per concludere, sia consentito il racconto di un breve episodio consumato tra i banchi di un’aula d’udienza, in un sonnacchioso pomeriggio nelle more della decisione di una questione processuale, quando un imputato di reati di corruzione di quelli che si definirebbero eccellenti, non più giovane, mi si è avvicinato e con finta bonomia mista a compiacimento mi ha detto parole che ricordo, quasi testualmente: «Dottore, a prescindere dal fatto che io conosco un sacco di gente, se anche lei ottiene la condanna nel primo grado di giudizio vi è sempre il secondo grado; se anche il secondo grado conferma, c’è sempre la Cassazione; e se nel frattempo il reato non si prescrive, io avrò già abbondantemente superato i settanta anni e non andrò mai in prigione…».



*L’articolo è stato consegnato dall’autore prima dell’approvazione della legge 27 maggio 2015 n. 69

Autore
Paolo Ielo
Sostituto procuratore a Roma

Occorre valorizzare strumenti investigativi capaci di aggirare il patto tra corruttore e corrotto Paolo Ielo