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Nota a sentenza Cass. Pen. n. 48703/2016

di Arianna Gesmundi - 27 dicembre 2016

I comportamenti violenti posti in essere a danno dei minori integrano il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. e non il reato di abuso di mezzi di correzione ex art. 571 c.p., a nulla rilevando, ai fini della qualificazione giuridica delle condotte, la finalità educativa e correttiva perseguita dall’agente mediante le stesse.


Questo è il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 48703/2016 con la quale i giudici, conformemente a quanto statuito in diverse precedenti pronunce, hanno affermato che, al fine di una corretta qualificazione giuridica dei fatti oggetto di causa, è necessario procedere all’analisi delle condotte poste in essere dall’agente, a nulla rilevando il fine ultimo perseguito dallo stesso mediante le condotte suddette.
La decisione assunta dalla Cassazione fa riferimento al noto caso della maestra di una scuola dell’infanzia, alla quale il Tribunale di Rimini con ordinanza aveva applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di cui all’art. 572 c.p. Tale ordinanza era stata successivamente annullata dal Tribunale del riesame di Bologna che aveva rilevato la mancanza di gravità indiziaria in ordine ai due episodi contestati all’imputata, ritenendo, altresì, che le condotte della stessa potessero tuttalpiù integrare il reato di cui all’art. 571 c.p. per il quale, come è noto, non è consentita l’adozione di alcuna misura cautelare.


Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rimini ha, quindi, proposto ricorso contro quest’ultima ordinanza contestando la mancanza di gravi indizi di colpevolezza, e asserendo la errata qualificazione giuridica delle condotte integranti, a parere dello stesso e conformemente a quanto disposto dal Gip nella predetta ordinanza, il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p.


Orbene, la Corte di Cassazione ha accolto in toto il ricorso presentato dal Pm contestando la mancanza di gravità indiziaria in ordine al reato di maltrattamenti asserita dal Tribunale di Bologna. In particolare, con riguardo all’episodio descritto al capo A1 che vede l’imputata colpire ripetutamente con forti sculaccioni un bimbo di soli tre anni, la Cassazione afferma la sufficienza probatoria delle dichiarazioni rilasciate dal teste oculare, una operatrice scolastica, non trovando applicazione in tal caso quanto disposto dall’art. 192 comma 3 c.p.p.


Afferma, altresì, che la mancata conferma da parte di altri testi oculari di una o più circostanze non compromette la valenza probatoria delle dichiarazioni rilasciate dalla operatrice scolastica in quanto, a tal fine, è necessario provare che le testimoni abbiano assistito alla condotta nella sua interezza, cosa che, nel caso in esame, non risulta accertata.


A questo si aggiunge la necessità di procedere a una valutazione globale e non parcellizzata, così come effettuata dal giudice del riesame, dei vari dati probatori al fine di verificare il requisito dei gravi indizi di colpevolezza che giustifica l’adozione della misura cautelare ex art. 273 c.p.p.


Orbene, di tale principio − afferma la Cassazione − non ha tenuto conto il Tribunale del riesame, sia in relazione al primo episodio − di cui si è detto − in ordine al quale la suddetta autorità non ha considerato quanto dichiarato dai genitori del bambino circa gli schiaffi dietro la nuca subiti dal minore; sia in relazione ai fatti contestati al capo A2. In ordine a questi ultimi, ossia, ai diversi comportamenti posti in essere dall’imputata in un ampio lasso temporale a danno dei diversi bambini affidati alle sue cure, e risultanti da intercettazioni ambientali audio-video, la Cassazione ha affermato la necessità di procedere a una valutazione complessiva delle condotte al fine di individuare la fattispecie penale integrata dalle stesse, a nulla rilevando l’eventuale intento educativo e correttivo perseguito dall’agente.


In virtù di quanto poc’anzi asserito, la Cassazione ha reputato, in primo luogo, illogica la valutazione parcellizzata operata dal Tribunale con riguardo agli episodi descritti al capo A2, circa i quali, quest’ultima autorità ha evidenziato erroneamente la mancanza di gravità indiziaria in considerazione della breve durata complessiva dei sedici episodi contestati all’imputata (pari a poco più di un minuto), a fronte di videoriprese protrattesi per ore.


A ciò si aggiunge − ed è questo il dato ancor più rilevante − la errata qualificazione giuridica dei fatti operata dal Tribunale che, afferma la Cassazione, “in maniera oggettivamente travisante derubrica a “critiche puntute e aspre riguardo le pratiche educative della pervenuta” che non giungono “all’individuazione di elementi da cui poter inferire che i minori hanno subito effettivamente dei maltrattamenti” le valutazioni espresse dal consulente tecnico del p.m. dott.ssa C.C. la quale….. conclude che “in taluni momenti l’abuso di comportamenti volti alla correzione educativa sfocia in pratiche connotate da un certo tipo di aggressività violenta da parte dell’educatrice… particolarmente diseducativa e individuabile nella categoria dei maltrattamenti”.


Alla luce di tali considerazioni, i giudici hanno affermato la gravità indiziaria del reato di maltrattamenti, in conformità all’ordinanza del Gip, reputando violente le condotte poste in essere dall’imputata le quali, in quanto tali, non possono in alcun modo integrare il meno grave reato di abuso di mezzi di correzione, neppure se sostenute da un intento educativo.


Orbene, la sentenza in esame risulta, evidentemente, conforme a quel filone giurisprudenziale inaugurato con la sentenza n.4904/1996 della Cassazione che ha operato una ridefinizione del reato di abuso di mezzi di correzione ex art. 571 c.p., rendendo così agevole la distinzione con il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p.


Come è noto, infatti, ad oggi il reato di abuso dei mezzi di correzione viene interpretato in termini di abuso dei mezzi di educazione in virtù dell’interpretazione conforme ai principi costituzionali che ha ridefinito il rapporto intercorrente tra l’educatore (sia esso un genitore o un insegnante) e l’educando, in termini non più autoritativi così come previsto in passato e, in particolare, nella relazione al codice penale del 1930.


Una siffatta interpretazione ha trovato ulteriore sostegno nel dettato normativo della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino, ratificata dall’Italia nel 1991 con la legge n.176, che ha espressamente riconosciuto al minore il diritto “al pieno ed armonioso sviluppo della personalità”, nonché quello di essere allevato “nello spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà”.


Alla luce degli elementi di cui sopra la giurisprudenza, compresa la sentenza in esame, ha escluso che l’uso della violenza, sia essa fisica o psicologica, possa essere intesa quale strumento di disciplina essendo in quanto tale contraria allo scopo, oltre che gravemente lesiva della dignità della persona del minore inteso, ormai da tempo, quale soggetto titolare di diritti e non più come semplice oggetto di protezione (Cass.n.4904/1996, Cass. 14/06/2012 n.34492, Cass. 10.05.2012 n.45467/2010).


Le considerazioni di cui sopra hanno, quindi, condotto la giurisprudenza ad escludere che gli atti violenti e abituali commessi a danno dei minori possano integrare il reato di cui all’art. 571 c.p. che, in quanto tale, postula un abuso degli strumenti educativi tra i quali, per le ragioni su esposte, non può ricomprendersi l’uso della violenza. Discende da quanto asserito una più agevole ricostruzione del reato di cui all’art. 571 c.p. che, evidentemente, presuppone l’abuso del potere di correzione da parte di quei soggetti che ne sono titolari.


Detto altrimenti, il reato da ultimo richiamato si configura ogniqualvolta i soggetti titolari del potere di correzione utilizzano quest’ultimo oltrepassando i limiti previsti per il corretto esercizio. Ne consegue che il reato in esame risulterà integrato non solo quando l’agente abbia fatto uso di un mezzo sproporzionato rispetto al caso concreto, ma anche quando, pur essendo la condotta di per sé lecita, abbia utilizzato il potere correttivo per scopi diversi da quello per cui è stato conferito (Cass. 34492/2012).


Ciò posto, la giurisprudenza, con riguardo infine all’elemento soggettivo, ha da sempre escluso che il fine perseguito dall’agente possa essere un elemento che l’autorità giudicante deve considerare nell’operazione di qualificazione giuridica della condotta posta in essere dall’agente risultando a tal fine utile l’analisi oggettiva della condotta.


Orbene, anche quest’ultimo assunto è stato confermato dalla sentenza in esame la quale, richiamando quanto affermato dalle precedenti pronunce, ha affermato la necessità di analizzare oggettivamente la condotta, non ritenendo l’intenzione soggettiva “idonea a far entrare nell’ambito della fattispecie meno grave dell’art.571 c.p., ciò che ne è oggettivamente escluso” .


A tal proposito deve, infatti, rilevarsi come lo scopo che l’agente persegue mediante le condotte poste in essere dallo stesso non appare in alcuna maniera rilevante. Questo è chiaramente deducibile da una semplice interpretazione letterale delle fattispecie penali richiamate che non danno rilevanza alcuna al suddetto scopo perseguito dall’agente (dolo specifico) richiedendo soltanto il dolo generico.


Ebbene, nel caso in esame, risultando quanto mai evidente, in particolar modo dalle intercettazioni audio-video, la volontà dell’insegnante di porre in essere le condotte violente contestatele, la Cassazione ha accolto il ricorso del Pm affermando la gravità indiziaria del reato di maltrattamenti, e ha rinviato al Tribunale di Bologna, in diversa composizione, per un nuovo esame.

Autore
Arianna Gesmundi
Dottore in giurisprudenza Bari