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Intercettazioni, repressione dei reati e garanzie: una convivenza difficile

di Matilde Brancaccio - 31 gennaio 2017

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LE QUESTIONI SUL TAPPETO


Tra i mezzi di ricerca della prova, le intercettazioni rappresentano senza dubbio lo strumento nei confronti del quale maggiormente si indirizzano critiche e dubbi di costituzionalità, per la loro innata “vocazione” a violare la sfera privata degli individui e la frizione continua cui sottopongono diritti e garanzie individuali in nome della tutela di beni dotati pure di rilevanza costituzionale e coperti da protezione penale.


Ma vi è di più. Molto spesso, prassi scorrette di diffusione mediatica del loro contenuto o vere e proprie violazioni delle norme di segretezza degli atti procedimentali mettono in discussione modalità, tempi e ipotesi della loro autorizzazione, scatenando accesi dibattiti politici, che sfociano, oramai periodicamente, in proposte o progetti di riforma parlamentare dell’attuale regolamentazione, sulle cui difficoltà di obiettiva realizzazione − constatata la necessità dello strumento investigativo per la repressione dei reati e l’attuazione degli scopi di prevenzione generale e speciale dell’ordinamento penale − si infrangono le perplessità di coloro i quali vorrebbero maggiori limiti al loro ricorso da parte di magistratura e organi di polizia.


Eppure, nessuno può mettere in dubbio l’importanza delle intercettazioni nella lotta anzitutto alla criminalità organizzata e, in generale, nella repressione dei reati negli ultimi decenni di storia italiana. Esse sono state e rimangono tuttora, probabilmente, il più formidabile degli strumenti di ricerca della prova e di individuazione degli autori di delitti a disposizione degli organi inquirenti.


La rapidità di attuazione e le caratteristiche di affidabilità probatoria dei risultati di accertamento da esse derivanti, grazie anche ai sempre più innovativi strumenti tecnici disponibili, rendono le intercettazioni, oramai da tempo, uno dei principali pilastri su cui si fondano numerose inchieste, soprattutto per reati di mafia.


Il tutto, in un contesto sociale in cui, da un lato, le infiltrazioni delle associazioni criminali nella pubblica amministrazione e nel mondo economico rendono necessario uno strumento che sveli “patti” delinquenziali altrimenti di difficilissima emersione, dall’altro il deficit di consapevolezza collettiva riguardo alla necessità della denuncia dei reati e le elevate difficoltà a raccogliere prove dichiarative provenienti da persone offese o testimoni rendono il ricorso alle intercettazioni, sovente, il mezzo migliore e più utile a raggiungere soddisfacenti livelli di contrasto al crimine.


Ciò accade nonostante il sempre maggiore e più efficace ricorso a indagini di diversa natura – informatiche, economiche, bancarie – che, pure, rappresentano una valida modalità per arrivare a individuare autori di reati e stabilire i contorni delle responsabilità penali in determinati contesti criminali.


Le ragioni di tale “efficacia” probatoria dello strumento captativo si ritrovano, peraltro, anche, senza dubbio, nel riconoscimento, pacifico oramai, da parte della giurisprudenza di legittimità, della piena valenza di prova autonoma delle conversazioni oggetto delle intercettazioni.


E difatti, il contenuto di un’intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di una persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiari di aver partecipato, non è equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se anch’esso deve essere attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto, in tale valutazione, ai canoni di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p. (cfr. tra le molte pronunce in tal senso, Cass., sez. 5, n. 21878 del 26/3/2010, CED Cass. n. 247447; Cass., sez. 2, n. 47028 del 3/10/2013, CED Cass. n. 257519; Cass., sez. 2, n. 4976 del 12/1/2012, CED Cass. n. 251812; Cass. sez. 6, n. 25806 del 20/2/2014, CED Cass. n. 259673, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità proposta proprio in relazione alla mancata equiparazione tra conversante e chiamante in correità quanto alla necessità di altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità); resta esclusa, secondo un’opzione interpretativa, da tale valenza di prova piena solo l’ipotesi in cui il conversante-chiamante in correità sia consapevole di essere sottoposto a intercettazione, poiché, in tal caso, è necessario il ricorso ai criteri di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 192 c.p.p. per la loro utilizzabilità (Cass., sez. 6, n. 45065 del 2/7/2014, CED Cass. n. 260838).


Così, anche, le dichiarazioni captate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata, con le quali un soggetto si autoaccusa della commissione di reati, hanno integrale valenza probatoria, non trovando applicazione al riguardo gli artt. 62 e 63 c.p.p. (tra le molte, Cass., sez. 6, n. 16165 del 19/2/2013, CED Cass. n. 256008; Cass. sez. 4, n. 34807 del 2/7/2010, CED Cass. n. 248089).


Le affermazioni giurisprudenziali richiamate hanno recentemente ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, nella sentenza 1. CED Cass. n. 263714, hanno ribadito come le dichiarazioni auto ed etero accusatorie registrate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata hanno piena valenza probatoria e, pur dovendo essere attentamente interpretate e valutate, non necessitano degli elementi di corroborazione previsti dall’art. 192, comma terzo, c.p.p.


In questo contesto, appare evidente l’importanza riservata dall’interprete, così come da imputati e difensori, alle questioni relative alla legittima autorizzabilità delle intercettazioni e, quindi, alla loro utilizzabilità.


Altrettanto chiaro risulta l’interesse della magistratura a evitare che un così efficace strumento di acquisizione della prova di reati e di individuazione dei loro autori, capace di portare elementi di certezza nel processo, possa risentire negativamente di prassi distorte, spesso verificatesi più che nel momento della sua realizzazione, piuttosto nella fase in cui, acquisiti i risultati dichiarativi, questi vengono diffusi, a volta anche attraverso i media, in modo irrituale e inopportuno.


Con ciò non si vuole certo negare l’importanza che la cronaca giudiziaria riveste in un ordinamento democratico, quale stimolo al controllo dei cittadini sulle vicende di interesse collettivo e pubblico, contribuendo alla libertà di pensiero “diffusa”, attraverso un’informazione completa di fatti di rilievo sociale, politico o economico.


Piuttosto, si vuole richiamare l’attenzione su alcuni dei punti critici principali del difficile rapporto di coesistenza tra l’interesse a disporre e servirsi delle intercettazioni per la tutela di beni di rilievo costituzionale, lesi o messi in pericolo dal reato, e, da un lato, l’interesse individuale al rispetto della privacy di chi è coinvolto, magari casualmente, nell’intercettazione, dall’altro, l’interesse sociale a una corretta e completa informazione su vicende, emergenti dal contenuto delle conversazioni intercettate, di rilevanza pubblica.


Sul difficile crinale del contemperamento e del bilanciamento di tali, spesso contrapposti, interessi, si gioca la partita della tenuta dell’attuale sistema di regolamentazione procedimentale delle intercettazioni e, d’altra parte, quella delle prospettive di riforma frequentemente prospettate e altrettanto spesso accantonate.


IL PROBLEMA DELLA DIVULGAZIONE DEL CONTENUTO DELLE INTERCETTAZIONI


Le istanze di riforma della disciplina delle intercettazioni di comunicazioni attengono senza dubbio soprattutto, negli ultimi anni, al momento (eventuale) di diffusione del loro contenuto da parte dei media, momento successivo al procedimento di autorizzazione vero e proprio e all’acquisizione del dato probatorio.


Spesso, la diffusione interviene nella fase procedimentale delle indagini preliminari, dopo l’emissione di un provvedimento conoscibile dalle parti, ed in molti casi proprio in ragione di essa: tale circostanza determina ancor più perplessità per il rispetto dei diritti individuali dei soggetti coinvolti, in considerazione dell’instabilità fisiologica del dato di accertamento, tutto ancora da verificare nella fase processuale vera e propria.


La divulgazione del contenuto delle intercettazioni rappresenta senza dubbio il punto di crisi del sistema: alle indagini non è necessaria la divulgazione delle notizie in esse contenute, anzi, a volte, per la loro prosecuzione, essa può essere deleteria; per il soggetto coinvolto nelle conversazioni diffuse, senz’altro la loro divulgazione rappresenta un evento lesivo della sfera individuale privata; ma con riguardo all’interesse dell’opinione pubblica, la conoscibilità di dati e vicende personali può avere un interesse di ordine generale, per situazioni e soggetti coinvolti, nella consapevolezza che la cronaca giudiziaria riveste un ruolo fondamentale per la funzione di controllo democratico da parte dei cittadini di quanto accade nella res publica.


Pertanto, desta perplessità la prospettiva di alcuni progetti di riforma, susseguitisi negli anni sull’onda di spinte derivanti dal clamore mediatico suscitato dalla diffusione dei contenuti di intercettazioni del procedimento penale, riferita alla previsione di un totale o parziale “silenzio” giornalistico, imposto per legge, sugli esiti delle intercettazioni fino alla chiusura delle indagini stesse o addirittura, sotto certi aspetti, tout court.


Una simile soluzione potrebbe risultare in conflitto con i diritti e le libertà garantiti in uno Stato democratico e, al tempo stesso, non essere risolutiva nel senso di evitare che siano violati divieti di pubblicazione già in parte esistenti (G. Giostra, Limiti alla conoscibilità dei risultati delle intercettazioni: segreto investigativo, garanzie individuali, diritto di cronaca, in Le intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni. Un problema cruciale per la civiltà e l’efficienza del processo e per le garanzie dei diritti, p. 405).


Nel Disegno di legge C.2798, presentato il 23 dicembre 2014 alla Camera dei Deputati – Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena –, approvato dalla Camera dei deputati il 23 settembre 2015 e trasmesso al Senato, ove ha assunto il n. S2067, sono previsti (art. 30), in materia di intercettazione di comunicazioni o conversazioni, criteri di delega del seguente tenore:


«a) prevedere disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione, in conformità dell’articolo 15 della Costituzione, attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni e che diano una precisa scansione procedimentale all’udienza di selezione del materiale intercettativo, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, in particolare dei difensori nei colloqui con l’assistito, e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale;


b) prevedere che costituisca delitto, punibile con la reclusione non superiore a quattro anni, la diffusione, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente. La punibilità è esclusa quando le registrazioni o le riprese sono utilizzate nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca;


c) prevedere la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione».


Il disegno di legge, come si vede, in particolare, all’art. 30, prevede il conferimento di una delega al Governo per l’adozione di un decreto legislativo recante disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni in conformità all’art. 15 Cost.


Le nuove disposizioni non attengono a modifiche del procedimento autorizzativo e incidono soltanto sulle modalità di utilizzazione in fase cautelare dei risultati delle intercettazioni, stabilendo una scansione procedimentale per la selezione in contraddittorio in udienza del materiale registrato, segnalando un particolare riguardo alla tutela della riservatezza delle persone occasionalmente coinvolte, in particolare dei difensori nel delicato momento dei colloqui con il proprio assistito-indagato.


Il legislatore sembra partire dalla constatazione che i problemi connessi alla divulgazione dei risultati delle intercettazioni non possano essere risolti attraverso il ricorso a un’interpretazione della disciplina esistente secondo un più equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto, occorrendo nuove forme normative di contemperamento del diritto collettivo all’informazione con la sfera di riservatezza (e la presunzione di innocenza) degli indagati e dei terzi eventualmente coinvolti nelle intercettazioni.


Da tempo, peraltro, si assiste al monito anche dei giudici costituzionali, diretto allo stesso legislatore, affinché individui “diversi e migliori equilibri” tra i valori costituzionali coinvolti nel “sistema” intercettazioni, constatando “un dilagante e preoccupante fenomeno di violazione della riservatezza, che deriva dalla incontrollata diffusione mediatica di dati e informazioni personali, … provenienti da attività di raccolta e intercettazione legalmente autorizzate…” (Corte cost. n. 173 del 2009).


Il disegno di legge n. S2067, invece, non prevede modificazioni delle disposizioni sull’ammissibilità e sull’utilizzabilità delle intercettazioni, ad eccezione di una novità, prospettata in termini, per la verità, poco dettagliati, riferita a migliorare il regime di “impiego” dei risultati delle intercettazioni nei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione; tale constatazione costituisce riprova del fatto che, secondo quella che è l’opinione diffusa anche in dottrina, la disciplina vigente rappresenta, tutto sommato, un’equilibrata regolamentazione di un sistema normativo così delicato per i differenti e contrapposti interessi in gioco (mentre risulta essere un evidente segnale della elevata percezione del rischio di intrusione nella sfera privata dei mezzi di ascolto o di videoripresa di moderna diffusione la prospettata previsione di un nuovo delitto di intercettazione “fraudolenta”, realizzata al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui).


In verità, è stato pure sostenuto (così E.M. Catalano, Prassi devianti e prassi virtuose in materia di intercettazione, in Processo penale e Giustizia, n. 1 del 2016) che la questione della divulgazione indiscriminata dei risultati delle operazioni di captazione nel procedimento penale attraverso i media coinvolge una prospettiva di mutamento culturale non più eludibile, in cui dovrebbero svolgere un ruolo nuovo magistratura e giornalismo.


La prima, tentando di migliorare la tecnica di motivazione dei provvedimenti basati sulle intercettazioni telefoniche quali fondamentali elementi indiziari e probatori, tenendo fuori da essi informazioni e dati personali irrilevanti, poiché spesso il problema divulgativo si pone in relazione ad atti procedimentali suscettibili di pubblicazione in quanto non più coperti da segreto; il secondo, modificando la propria tecnica di diffusione della notizia in senso più coerente a quanto previsto dagli artt. 2, 136 e 137 del Codice sulla privacy (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e successive modifiche), che impongono al giornalista di rispettare i principi dell’essenzialità dell’informazione, dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato.


Proprio con riferimento al modo di “fare informazione”, lo stesso Garante per la protezione dei dati personali, in uno dei molti interventi dell’Autorità sul tema – il provvedimento “Pubblicazione di intercettazioni telefoniche e dignità della persona” del 21 giugno 2006 – rileva come «l’indiscriminata pubblicazione di trascrizioni di intercettazioni di numerose conversazioni telefoniche, specie quando finisca per suscitare la curiosità del pubblico su aspetti intimi e privati senza rispondere integralmente a un’esigenza di giustificata informazione su vicende di interesse pubblico, possa configurare anche una violazione delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».


Del resto, è stata acutamente messa in risalto in dottrina la «stretta interdipendenza tra la professionalità del cronista» e la conservazione di un rapporto equilibrato tra media e giustizia (così G. Giostra, Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007, p.57).


IL RUOLO DELLA GIURISPRUDENZA PER L’EQUILIBRIO DEL SISTEMA


In tale contesto e con l’attuale stato normativo, l’interpretazione giurisprudenziale, in particolare quella della Corte di Cassazione, gioca una funzione fondamentale di bilanciamento tra i diritti individuali, la sfera di riservatezza personale e le esigenze investigative, essendole sostanzialmente rimessa l’individuazione dei livelli di equilibrio tra i diversi interessi in gioco.


La giurisprudenza di legittimità, spesso in questa materia intervenendo attraverso le pronunce del massimo collegio di nomofilachia – le Sezioni Unite –, da anni svolge tale delicato compito, contribuendo a delineare principi e indirizzi al passo con i tempi e le evoluzioni della società e della tecnologia, che tanto influenzano le questioni in questo ambito. Attraverso i suoi arresti possiamo dire che è stato costruito un sistema coerente in cui, pur in presenza di spazi ancora aperti nella definizione di aspetti di regolamentazione per ipotesi peculiari, l’interprete può muoversi consapevole dei contorni autorizzativi e attuativi dell’istituto, oltre che dei caratteri e dei limiti all’utilizzabilità dei risultati.


Ovviamente sarebbe illusorio pensare di offrire in poche battute un quadro esaustivo, seppur di estrema sintesi, del lavoro svolto negli anni dalla giurisprudenza nelle molteplici questioni sorte dall’applicazione pratica della disciplina delle intercettazioni. Deve, quindi, necessariamente optarsi per mettere in luce il ruolo “sistematico” e di ricomposizione ordinata della legislazione vigente, per sua natura inidonea a coprire nel dettaglio una regolamentazione che si presenta fisiologicamente complessa per le implicazioni tecniche ad essa connesse e le ricadute processuali alle quali già si è, peraltro, fatto riferimento.


Deve, pertanto, in tale ottica, sottolinearsi come si debba alla giurisprudenza di legittimità (ma anche, molto, a quella costituzionale di cui la Cassazione costituisce l’interlocutore naturale) l’elaborazione stessa di una nozione condivisa di “intercettazione”, in mancanza di una definizione esplicita a livello normativo.


Essa viene individuata in quell’atto del procedimento, effettuato mediante strumenti tecnici di percezione, che tende a captare il contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone, da parte di chi nasconda la sua presenza e sia estraneo alla conversazione stessa (Cass. Sez. U, n. 36747 del 2003, Torcasio, CED Cass., n. 225465, coerentemente a Corte cost. n. 81 del 1993 ed alla giurisprudenza costituzionale successiva); si è esclusa dal genus intercettazione, invece, la registrazione effettuata da uno degli interlocutori della conversazione all’insaputa anche di uno solo di essi, che, in quanto atto formato al di fuori del procedimento e proveniente da soggetto partecipe della conversazione stessa o autorizzato ad assistervi, rientra nella categoria delle prove documentali ex a rt. 2 34 c .p.p. ( cfr. a ncora S ez. U Torcasio e, inoltre, Sez. U, n. 26795/2006, Prisco CED Cass., n. 234267, con riferimento alle videoriprese effettuate non dalla polizia giudiziaria, queste ultime essendo invece “prove atipiche”).


Si registra tuttora un contrasto nella giurisprudenza di legittimità circa il regime delle registrazioni effettuate d’intesa con la polizia giudiziaria e, ovviamente, la conseguente utilizzabilità dei risultati di esse; in tal caso, pur concordandosi sul fatto che non si tratta di intercettazioni in senso tecnico, tuttavia la giurisprudenza è divisa circa la necessità che per tale registrazione occorra un’autorizzazione dell’autorità giudiziaria (anche solo con decreto del pubblico Ministero) ovvero tale autorizzazione non sia necessaria (cfr. per la tesi che nega la necessità di autorizzazione Cass., sez. 6, n. 16986 del 2472/2009, CED Cass., n. 243256; Cass. sez., 2, n. 42486 del 5/11/2002, CED Cass., n. 233351; per la tesi che ne ritiene l’obbligo, 1. CED Cass., n. 263526; Cass. sez. 2, n. 7035 del 29/1/2014, CED Cass., n. 258551). Egualmente, non rientra tra le attività di intercettazione l’attività di indagine volta a seguire i movimenti di un soggetto e a localizzarlo, controllando a distanza la sua presenza in un dato luogo in un determinato momento attraverso il sistema di rilevamento satellitare (cosiddetto GPS), che, invece, costituisce una forma di pedinamento eseguita con strumenti tecnologici, non assimilabile in alcun modo all’attività di intercettazione prevista dagli artt. 266 e ss.; essa non necessita, quindi, di alcuna autorizzazione preventiva da parte del giudice per le indagini preliminari poiché, costituendo mezzo atipico di ricerca della prova, rientra nella competenza della polizia giudiziaria (così Cass., sez. 2, n. 21644/2013 e conformi in precedenza, tra le molte, Cass. sez. 6, n. 15396/2008; Cass., sez. 4, n. 3017/2008; Cass. sez. 4, n. 8871/2007); anche l’acquisizione di tabulati del traffico telefonico è stata costantemente ritenuta attività di ricerca della prova atipica, non assimilabile alla categoria delle intercettazioni: sul punto sono intervenute le Sezioni Unite nella sentenza n. 6 del 23/2/2000, D’Amuri, CED Cass., n. 215841, che hanno chiarito come, per la loro autorizzazione, sia sufficiente il decreto motivato dell’autorità giudiziaria, non essendo necessaria, per il diverso livello di intrusione nella sfera di riservatezza che ne deriva, l’osservanza delle disposizioni relative a l l ’ i n t e r c e t t a z i o n e di conversazioni o comunicazioni di cui agli articoli 266 e ss. (Cass. Sez. U, n. 16 del 21/6/2000, Tammaro, CED Cass., n. 216247 hanno confermato tale arresto).


Recentemente, poi, è emerso un ulteriore problema riferito all’autorizzabilità come intercettazione, intesa in senso classico, delle intercettazioni telematiche, tramite agente intrusore (virus informatico), di tutto il traffico dati degli apparecchi cellulari in uso ai soggetti sottoposti a intercettazione, nonché di tutte le conversazioni tra presenti, mediante attivazione attraverso il virus informatico, del microfono e della videocamera dei relativi smartphone.


La giurisprudenza di legittimità sta cominciando a interrogarsi sulle questioni riferibili a tale innovazione tecnologica: Cass., sez. 6, n. 27100 del 2015, si è trovata a doversi pronunciare in merito alla lamentata violazione, da parte delle intercettazioni effettuate con tale modalità tecnica, dell’art. 8 CEDU, ritenuta l’invasione della sfera privata degli utilizzatori degli apparecchi cellulari intercettati oltre le operazioni consentite dalle disposizioni in materia di intercettazioni, nonché la possibile indiscriminata apprensione “in ambientale” anche delle conversazioni che si svolgono nel domicilio privato, senza possibilità di verifica preventiva della sussistenza delle condizioni di legge per disporle.


La Cassazione ha ritenuto illegittima tale modalità per differenti aspetti e ha scisso il problema sotto due profili tecnici: l’attivazione, da remoto, mediante virus informatico, del microfono e quella della telecamera. Quanto alla prima, partendo dall’osservazione che l’attivazione del microfono dà luogo a un’intercettazione ambientale, si afferma che la norma di cui all’art. 15 Cost. impedisce di attribuire all’art. 266, comma 2, c.p.p. una latitudine operativa così ampia da ricomprendere intercettazioni ambientali effettuate “in qualunque luogo”, dovendo essa avvenire in luoghi ben circoscritti e individuati ab origine.


Con riferimento alla seconda questione, relativa all’attivazione da remoto e tramite virus informatico, della telecamera del telefono cellulare e quindi all’effettuazione di videoriprese, si cita Cass., sez. U, n. 26795/2006, Prisco, che ha stabilito che le videoregistrazioni in luoghi pubblici o aperti o esposti al pubblico, non effettuate nell’ambito del procedimento penale, vanno incluse nella categoria dei documenti, ex art. 234 c.p.p.; mentre le predette registrazioni, se vengono effettuate dalla polizia giudiziaria, anche d’iniziativa, vanno incluse nella categoria delle prove atipiche, soggette alla disciplina dettata dall’art. 189 c.p.p., sicché non si possono realizzare ovunque, e sicuramente non in ambito dei luoghi di privata dimora, ai fini del procedimento penale, pena la loro illiceità e inutilizzabilità.


Deve, tuttavia, rappresentarsi come a tale impostazione si sia ribattuto che l’attivazione tramite virus informatico (comunemente si tratta di c.d. “Trojan”) del microfono del telefono cellulare consente l’ambientale solo in presenza di specifico input “da remoto” e, dunque, non in modo continuativo e costante, ma solo quando la polizia giudiziaria, necessariamente impegnata parallelamente all’intercettazione in servizi “dinamici” di osservazione, ritenga utile procedere a tale attivazione: con ciò attenuandosi alquanto i dubbi di legittimità proposti dalla Corte di Cassazione e riferiti all’assenza di parametri di riferimento autorizzatori.


Quello dei luoghi di privata dimora è stato anche uno dei problemi più dibattuti nella giurisprudenza con riferimento alle intercettazioni ambientali effettuate con gli strumenti tradizionalmente utilizzati a tale scopo (microspie ed altro).


Dispone, infatti, l’art. 266 comma 2, c.p.p. che valgono i medesimi limiti di ammissibilità per intercettazioni ambientali e telefoniche, salvo che le prime avvengano nei luoghi indicati nell’art. 614 c.p., nel qual caso vi è necessità di un ulteriore requisito di ammissibilità: “il fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”. Pertanto, non vi può essere intercettazione tra presenti nel domicilio privato per accertare reati già commessi in passato.


Appare di immediata evidenza la maggiore problematicità delle ipotesi di intercettazione ambientale nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. per lo stretto collegamento che lega libertà di domicilio e libertà personale. Sul punto la citata pronuncia delle Sezioni Unite Prisco del 2006 ha chiarito ambiti e confini di applicabilità del concetto di privata dimora e domicilio, seguita dalla giurisprudenza successiva. Oggi il quadro che si presenta è idoneo a configurare una serie di criteri sufficientemente definiti per orientarsi nel decidere se in un determinato luogo possano individuarsi o meno un domicilio o una dimora privati.


La casistica, ovviamente, si presenta poco incline alla delimitazione definitiva, tuttavia alcune ipotesi maggiormente frequenti risultano oramai oggetto di orientamenti precisi, per quanto non tutti unanimi. Mentre sui bagni pubblici e sui privè dei locali intervennero, escludendoli dal novero dei luoghi di cui all’art. 614 c.p., le stesse Sezioni Unite Prisco (tuttavia nella giurisprudenza successiva, le differenti ipotesi concrete sono state spesso declinate con accenti specifici in relazione alla fattispecie trattata), tra i contrasti maggiormente sintomatici dei diversi orientamenti presenti nella giurisprudenza di legittimità sulla possibilità di individuare in luoghi fisici il concetto di “privata dimora”, deve segnalarsi quello sulla possibilità di riconoscere un domicilio anche nell’abitacolo di un’autovettura, contrasto che, recentemente, sembra avviato nel senso di negare tale qualità (cfr. da ultimo ex multis Cass. sez. 5, n. 45512 del 22/4/ 2014, CED Cass. n. 260760). Si sono, invece, costantemente esclusi la cella e gli ambienti penitenziari (cfr. ex multis Cass, sez. 1, n. 32851/2008; Cass. sez. 6, n. 36273/2004; Cass. sez. 6, n. 3541/1999; Cass., sez. 2, n. 2103/1996) dalla nozione di privata dimora, non essendo tali luoghi nel “possesso” dei detenuti, ai quali non compete alcuno “ius excludendi alios”; tali ambienti, infatti, si trovano nella piena e completa disponibilità dell’amministrazione penitenziaria, che ne può farne uso in ogni momento per qualsiasi esigenza d’istituto.


Tralasciando i più recenti eventi storico-politici, nei quali le intercettazioni hanno mostrato tutto il loro ruolo di disciplina a rischio di elevata conflittualità tra diritti contrapposti, addirittura andando a toccare i rapporti tra poteri dello Stato (il riferimento è alla nota vicenda della c.d. “trattativa Stato-mafia”), deve operarsi una riflessione conclusiva: la previsione di un mezzo di ricerca della prova così invasivo come l’intercettazione, capace di minare profondamente il diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni garantito a livello costituzionale dall’art. 15 Cost., trova la sua legittimazione normativa solo nella considerazione che, mediante le intercettazioni, vengono tutelati beni giuridici altrettanto rilevanti, quali quelli posti a fondamento del sistema ordinamentale di prevenzione e repressione dei reati.


Tale strumento, peraltro, si giustifica ed è consentito dall’ordinamento solo in presenza del rispetto dei limiti e criteri autorizzativi previsti dalla legge e dell’intervento motivato di un giudice che le disponga.


La magistratura, pertanto, è chiamata ad essere garante e artefice della inevitabile, sebbene non certo facile, convivenza tra gli interessi contrapposti coinvolti dalla disciplina delle intercettazioni.


Per assicurare l’effettività del controllo e prevenire abusi sono poi richieste ulteriori garanzie di natura tecnica, relative agli impianti di captazione e alla stessa materiale realizzazione delle operazioni; infine, è necessario garantire il controllo sulla legittimità del provvedimento autorizzativo e stabilire i limiti dell’utilizzabilità nel processo del materiale raccolto attraverso le intercettazioni.


Individuati dalla stessa Corte Costituzionale come destinatari di tale compito (assicurare il rispetto delle regole normative previste per garantire la legittimità delle intercettazione e attuare, in tal modo, il corretto bilanciamento tra valori in gioco: cfr. le sentenze nn. 34 del 1973, 135 del 2002, 149 del 2008 e 320 del 2009), i giudici e i pubblici ministeri hanno mostrato di avere consapevolezza della complessità del percorso, attenzione alle novità tecnologiche con le quali doversi confrontare e capacità di gestirle; la Corte di Cassazione e i giudici costituzionali hanno approfondito i rapporti tra i valori fondamentali che si fronteggiano nell’attuazione pratica della disciplina normativa.


L’auspicio è di trovare un punto di equilibrio “permanente”, idoneo a soddisfare nel tempo, allo stesso modo, le esigenze di difesa della collettività dai reati, di informazione dell’opinione pubblica e, non ultime, quelle di garanzia dei diritti individuali.

Autore
Matilde Brancaccio
Magistrato addetto al Massimario della Cassazione

La magistratura รจ chiamata ad essere garante e artefice della inevitabile, sebbene non certo facile, convivenza tra gli interessi contrapposti coinvolti dalla disciplina delle intercettazioni Matilde Brancaccio