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7 agosto 2017

Tangentopoli non è finita. Sui fondi alla politica ora più trasparenza

Eugenio Albamonte, presidente dell'Anm, intervistato dal Corriere della Sera


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ROMA «Tangentopoli non è finita. Purtroppo è una constatazione», per Eugenio Albamonte, pm della Procura di Roma, da aprile presidente dell'Associazione nazionale magistrati. «La cronaca giudiziaria dice, reduce da un incontro pubblico a Taranto sulla corruzione è piena di riscontri al fatto che quel periodo e quel fenomeno non si sono chiusi, ma caso mai evoluti».

È vero, come ha detto più volte il suo predecessore Davigo, che i politici non hanno smesso di rubare, ma hanno smesso di vergognarsi?
«Le generalizzazioni hanno sempre un limite, ma è certo che non c'è stato un percorso da parte della politica italiana adeguato rispetto alla gravità del fenomeno e un recupero di spazi che rassicuri sul fatto che ci possano essere gli anticorpi. C'è un ritardo forte in termini culturali e di reazione. Di fronte a fatti eclatanti ci sono momenti di riscossa, con anche interventi normativi, salvo poi inabissarsi. Rispetto a Tangentopoli l'elemento nuovo è la partecipazione al sistema corruttivo delle strutture amministrative».

La corruzione dei colletti bianchi?
«Esattamente. Prima riguardava prevalentemente la realtà politica. Il peso delle centrali amministrative ha fatto sì che debuttassero soggetti non provenienti da una carriera politica, ma appartenenti all'amministrazione pubblica».

Il legislatore è intervenuto più volte, con la legge Severino, il codice degli appalti e ora con il ddl penale. Gli strumenti a vostra disposizione vi convincono?
«Ci sono stati interventi utili. Importanti sono state le norme che consentono riduzione di pena a chi, partecipe del meccanismo corruttivo, collabora all'indagine. Anzi, mi spingerei a forme di esaltazione maggiore dell'importanza della collaborazione. Occorre insinuare il dubbio che il patto omertoso possa saltare, puntando a scardinare il sistema di omertà attraverso la diffidenza reciproca. Ma su un tema siamo critici».

Quale?
«L'Anm ha molto criticato la riforma penale per la limitazione dei virus spia nelle intercettazioni. L'utilizzo è stato ristretto ai reati di mafia e terrorismo. Mi occupo da diversi anni di criminalità informatica e ho fatto esperienza di buon funzionamento di questi strumenti, che non consentono di aumentare la capacità investigativa, ma di mantenerla inalterata a fronte dell'evoluzione tecnologica, su cui anche i corrotti puntano. Un orientamento molto più restrittivo di quello della Cassazione a Sezione unite, che le aveva ammesse anche contro le organizzazioni criminali. Ma non è l'unico passaggio che manca».

Se potesse mettere mano a una riforma cosa suggerirebbe?
«Maggiore trasparenza della pubblica amministrazione e trasparenza nei finanziamenti alla politica. Stiamo passando da un sistema di finanziamento pubblico a uno privato, attraverso le fondazioni, che rischiano di creare ulteriore opacità. Il finanziamento è importante in campagna elettorale ed è in questa fase che si possono instaurare i primi contatti e tradursi, a elezioni vinte, in restituzione di favori. Deve essere la classe politica, non l'opinione pubblica e la magistratura a reagire, prima che il sistema possa degenerare. Serve anche una svolta culturale che riguarda la generalità dei cittadini. Ci indigniamo molto quando questi fatti escono sui giornali, ma siamo insensibili nei confronti alle piccole illegalità, alla violazione del codice etico che tutti dovremmo rispettare».

Come vedrebbe una Procura nazionale anticorruzione, sul modello della Procura antimafia?
«C'è già un coordinamento sui reati satellite della criminalità organizzata. Se poi prendiamo indagini come quella sul Mose o su Expo, che nascono in un luogo specifico, non ha senso un coordinamento nazionale».

di Melania Di Giacomo, Corriere della Sera



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