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21 ottobre 2017

Relazione di Tommasina Cotroneo, Componente GEC dell'ANM

33º Congresso nazionale ANM


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XXXIII Congresso – Siena 20/22 ottobre 2017
LA GIUSTIZIA, I DIRITTI E LE NUOVE SFIDE


II Sessione
Ordinamento Giudiziario: dieci anni dopo



Sono trascorsi dieci anni da quando ha cominciato a prendere forma la riscrittura dell’ordinamento giudiziario, originata dalla legge delega 25 luglio 2005 n. 150, che ha trovato attuazione nei decreti legislativi del 2006 (c.d. riforma Castelli), ampiamente revisionati dalla L. 30 luglio 2007 n. 111 (c.d. riforma Mastella), con cui si eliminavano i più rilevanti dubbi d’illegittimità.
Al di là delle valutazioni di merito, si è trattato del più importante intervento normativo in materia dal r.d. 30 gennaio 1941 n. 12.
Che cosa ha funzionato e cosa no nel nuovo assetto ordinamentale?
Le successive modifiche legislative sono state realmente efficaci? Quali sono le innovazioni che potrebbero essere apportate per rendere più efficiente il sistema?


Questa sessione, riprendendo il dialogo avviato all’indomani dell’approvazione della legge delega, intende offrire degli spunti di riflessione anche alla luce degli interventi governativi nel settore della giustizia e delle risultanze dei lavori della commissione Vietti, che ha, tra l’altro, affrontato il sistema degli illeciti disciplinari e delle incompatibilità dei magistrati nonché  il sistema delle valutazioni di professionalità e di conferimento degli incarichi.


Valutazioni di Professionalità


Tra i punti più qualificanti che connotano il nuovo ordinamento giudiziario, anche alla luce dell’imponente normazione secondaria elaborata dal Csm, v’è certamente il nuovo sistema delle valutazioni di professionalità (art. 11 d.leg. 5 aprile 2006 n. 160), obbligatorie ogni quattro anni per tutti i magistrati fino al ventottesimo anno di servizio.

È un dato di fatto, quasi per conseguenza, quello di una latente riduzione del concetto stesso di ordinamento giudiziario alla sola carriera dei magistrati, trascurando la complessità di un fenomeno giuridico ben più ampio, sospeso com’è tra diritto processuale, diritto costituzionale, diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione. Ed è altresì un dato di fatto quello della tendenza a ravvisare una sorta di corrispondenza biunivoca tra efficienza dell’organizzazione giudiziaria e controllo di professionalità dei magistrati; il che è vero solo in parte, come empiricamente dimostra la semplice constatazione della persistenza odierna di larga parte delle difficoltà che da tempo affliggono la giustizia italiana, e che evidentemente affondano radici in problemi di ordine strutturale, a partire da quelli concernenti l’adeguatezza delle risorse (e non si vuol far riferimento a quelle economiche) rispetto alle esigenze dei modelli processuali e organizzativi concretamente operanti.


La nuova disciplina ha avuto il merito di superare il precedente sistema di promozioni sostanzialmente automatiche e ha introdotto nell’ordine giudiziario la cultura della valutazione, quale condizione necessaria non solo per riconoscere avanzamenti di carriera e benefici stipendiali, ma anche per migliorare l’efficienza del servizio giustizia, per assegnare un valore al magistrato e riconoscere o non riconoscere che quel magistrato in valutazione incarni il modello positivo di magistrato.

Un sistema di valutazione è tuttavia inutile e aridamente burocratico se non si basa su un efficace insieme di indicatori e di fonti di conoscenza che consentano di far emergere dei dati concreti. La valutazione effettiva, trasparente e oggettiva della professionalità del magistrato è precondizione della sua indipendenza e assolve alla duplice funzione di assicurare la correttezza delle decisioni prese, e, quindi, la adeguatezza del servizio giustizia. Le valutazioni di professionalità dovranno essere il prodotto di una seria ed effettiva, e non solo formale, constatazione anche e soprattutto della validazione dei prodotti ultimi dell’esercizio della giurisdizione, nei successivi gradi di giudizio e devono riflettere con limpidezza l’immagine etica e professionale del singolo.

Un modello virtuoso di valutazione deve insomma consentire di fare emergere il magistrato che attraverso il quotidiano lavoro costruisce la propria professionalità, privilegiandolo rispetto a colui che sapientemente costruisce la propria carriera.


Centrale risulta al riguardo l’implementazione delle fonti di conoscenza anche attraverso la migliore definizione dei compiti dei soggetti che intervengono nel processo di valutazione, chiamati ad assicurare una ragionata raccolta dei dati sui quali questa si fonda.

L'esperienza applicativa dimostra la centralità del rapporto dei capi degli uffici, nel senso non tanto della sua decisività di merito, non essendo oggettivamente dimostrabile la tesi di una scarsa autonomia dei consigli giudiziari e del Consiglio superiore, quanto di una sua posizione privilegiata, che lo porta nei fatti a essere il punto di riferimento, in positivo o in negativo, dell’intero esito procedimentale, come se quest’ultimo avesse a oggetto non più la valutazione del magistrato, ma la congruità del rapporto e, dunque, la sua affidabilità.

Il rischio per il singolo magistrato è quello di essere vittima di spinte gerarchizzanti e di moduli argomentativi ispirati alla soggettività e al conformismo, quando non ad umane miserie, esattamente come nel passato. Rischio che si annida già in un sistema che non ha potuto fare a meno di continuare a fondarsi su meccanismi di sintesi valutativa ove di misurabile c’è ben poco.

Le fonti di normazione secondaria contemplano, poi, alcuni indicatori poco "riscontrabili" e rispetto ai quali, in assenza di circostanze specifiche ben individuabili, si corre il rischio di attribuire un peso eccessivo alla "parola" del Capo Ufficio.

Penso ad indicatori che richiamano disponibilità, collaborazione, capacità decisionale, correttezza delle indagini, assiduità ed altre se ne potrebbero citare, — che rimandano a contenuti ben poco oggettivabili, ma necessariamente basati su considerazioni proprie del dirigente dell’ufficio, che in taluni casi non possono discendere, in negativo, se non dalla mancanza di rilievi e doglianze — (si pensi, ad esempio a un indicatore quale quello relativo alle modalità di conduzione dell’udienza: è verosimile che unico criterio a disposizione del capo dell’ufficio per poter dare una risposta affidabile sia quello dell’esistenza o meno di lamentele emerse formalmente e documentabili).

Il sistema attuale lascia poi sullo sfondo uno dei giudizi più pregnanti sia in tema di valutazioni di professionalità che di pareri attitudinali per dirigenti, cioè quello che riguarda le c.d. precondizioni imprescindibili dell'indipendenza, imparzialità ed equilibrio, che attengono, forse più di altri, alla levatura professionale e umana del magistrato. Per questo giudizio è prevista una reale motivazione solo nei casi in cui difetti una o più di dette condizioni, mentre nei casi di giudizio positivo ci si limita ad un lapidario "nulla da rilevare". Sarebbe auspicabile un apparato argomentativo più articolato, che ponga in rilievo quei dati che consentono di distinguere il magistrato capace di un rapporto sereno con gli altri protagonisti del processo da quello che dimostri un eccesso di vis polemica e scarsa capacità di dialogo e di ascolto. Tali aspetti influiscono in concreto sull'esercizio della giurisdizione e, soprattutto, sulla capacità di direzione degli uffici di cui infra.


Si esprime netta contrarietà, invece, al coinvolgimento formale e sistematico dei consigli dell’ordine degli avvocati in occasione del procedimento valutativo del magistrato. La professionalità dei magistrati è un valore del sistema che deve essere garantito ed attuato, in funzione della qualità ed efficienza della giurisdizione, ma con una disciplina idonea ad assicurare l’indipendenza della Magistratura. Il miglioramento dei controlli periodici di professionalità, che la Magistratura per prima auspica a tutela dei tantissimi colleghi che lavorano ogni giorno con dedizione e spirito di sacrificio, in condizioni spesso insostenibili, deve essere perseguito ed attuato esclusivamente all’interno dell’autogoverno. Elevatissimo sarebbe il pericolo di un effetto distorsivo delle corrette dinamiche processuali in un qualsiasi parere procedimentalizzato proveniente dagli organismi di rappresentanza territoriale dell’Avvocatura oltre che di un’evidente lesione al principio di autonomia e di indipendenza della Magistratura. Del resto ogni fatto rilevante ai fini della valutazione di professionalità di un magistrato che sia noto all’Avvocatura può essere tranquillamente portato a conoscenza degli organi del circuito dell’Autogoverno locale e nazionale attraverso il potere di segnalazione già previsto proprio in tema di valutazioni di professionalità e conferma dei dirigenti negli incarichi direttivi e semidirettivi dall’art. 11 comma 4 lett. f) d. lgs. n. 160 del 2006.

La suddetta previsione rappresenta un giusto punto di equilibrio raggiunto fra  opposte esigenze: da un lato ampliare le fonti di conoscenza per pervenire a valutazioni di professionalità effettive prevedendosi la partecipazione in forma appropriata, attraverso i relativi organismi di rappresentanza territoriale, di quei professionisti del mondo della giustizia che quotidianamente interloquiscono; e da un altro lato quella di tutelare,  in modo momento delicato della carriera, l’indipendenza interna del magistrato sottoposto a valutazione e l’indipendenza esterna della Magistratura nel suo complesso destinata a trovare attuazione attraverso il circuito del governo autonomo.
 
Ed anche sul cosiddetto diritto di tribuna, prassi attualmente praticata in diverse realtà giudiziaria, ritengo del tutto inappropriata una sua regolamentazione normativa, essendo preferibile lasciare liberi i Consigli Giudiziari di determinarsi autonomamente in ordine alla partecipazione a tutte le  sedute da parte degli avvocati. Una regolamentazione troppo rigida di tale facoltà potrebbe scontarsi con la variegata realtà dei nostri distretti giudiziari nell’ambito dei quali ancora molto diversificati sono i rapporti fra Magistratura ed Avvocatura.


Un’analoga contrarietà deve esprimersi con riguardo al tema ancora più insidioso perché interno alla Magistratura delle valutazioni incrociate e come si usa oggi dire dell’ufficio “dirimpettaio”. Al riguardo non posso omettere di rimarcare come la pessima idea sia nata all’interno di noi stessi (si tratta proprio del tipico esempio di situazione in cui da soli, per esigenze non sempre molto trasparenti, decidiamo di farci del male, arrecando un danno non solo alla categoria, ma anche ai destinatari del prodotto di giustizia che siamo chiamati ad amministrare) ed in particolare in seguito ad un quesito posto al C.S.M. da parte dell’allora Procuratore di Milano in ordine ad una prassi dallo stesso avviata di chiedere ai giudici per le indagini preliminari ed ai giudici del dibattimento notizie inerenti la professionalità di un magistrato del suo ufficio. È questo un tipico caso di inquinamento della normale dialettica processuale che deve intercorrere sulla base delle sole norme di legge fra il giudice ed il P.M., essendo del tutto fuori dal sistema la possibilità di rilasciare da parte del giudice pagelle sulle modalità di sostenere l’accusa da parte del magistrato del P.M., come anche la reciproca possibilità per il P.M. di esprimere valutazioni sulla professionalità del suo giudice. Gli spazi di interazione fra giudice e magistrato del P.M. sono quelli della motivazione dei provvedimenti giudiziari per il primo e della facoltà di impugnazione per il secondo; crearne di nuovi significherebbe attentare ai difficili equilibri del processo penale venendosi ad incidere anche sul rapporto di parità processuale che deve sussistere fra la parte pubblica e quelle private.


Al miglioramento delle fonti di cognizione deve affiancarsi una più puntuale normativizzazione dei poteri istruttori degli organi consultivi di decentramento, attraverso ad esempio la previsione di poteri istruttori del Consiglio Giudiziario anche mediante l’audizione dei colleghi di ufficio, del Procuratore o del Presidente del Tribunale o dei magistrati delle impugnazioni. Ciò dovrebbe andare di pari passo con l'introduzione di meccanismi che consentano di valorizzare i rapporti dei dirigenti come elementi di valutazione della professionalità di questi ultimi, indirizzando verso il rigore, l’obbiettività, il senso di responsabilità e la serenità l’esercizio da parte di costoro dei loro specifici compiti redazionali. Il dirigente deve essere insomma partecipe della cultura della valutazione, nella consapevolezza che valutare significa scegliere quali dati e quali informazioni trasmettere, scegliere come analizzarli, scegliere a quali dare ordine di priorità, sapere che non esiste alcun automatismo nella valutazione perché valutare significa assegnare "valore". Si tratta peraltro di una cultura che dovrà essere condivisa da tutti gli attori del procedimento, dal singolo magistrato ai membri del consiglio giudiziario fino ai membri del CSM.

Una valutazione efficace implica anche la necessità di una disamina estrinseca dei provvedimenti, con il limite dell’insindacabilità dell’attività d’interpretazione delle norme e di valutazione del fatto e delle prove, e anche a questo proposito riesce difficile ipotizzare, nella prassi, altro giudizio che quello di aderenza del provvedimento a uno standard puramente formale, ferma restando la possibilità di valutare la ricorrenza di anomalie nel rapporto tra pronunce del magistrato ed esiti dei successivi gradi, anomalie che hanno però un rilievo spesso meramente statistico.

Il problema della qualità giuridica del lavoro del magistrato sembra restare sullo sfondo, e ciò a rischio di approfondire il solco tra le risultanze formali dei procedimenti di valutazione e la percezione quotidiana e ambientale delle capacità professionali del magistrato. Sbocco quasi ovvio, si deve ritenere, di un sistema che dei dati quantitativi ha fatto il criterio ispiratore fondamentale, in una visione aziendalistica che tende sempre più a egemonizzare l’organizzazione giudiziaria e che, pur conducendo a peraltro non decisivi incrementi della produzione di provvedimenti, non risolve il problema della qualità della risposta giudiziaria, problema altrettanto se non più importante, perché un alto numero di provvedimenti inadeguati non significa una riduzione delle pendenze, ma induce ad un incremento del ricorso ai mezzi d’impugnazione.

Gli stessi metodi di acquisizione delle informazioni statistiche non appaiono, peraltro, adeguati, continuandosi a privilegiare il dato delle sentenze, laddove sempre più ampia è la presenza di ordinanze e decreti che spesso impegnano più delle sentenze.


Oggetto di riflessione è ancora la difficoltà relativa all’esame dell’attività svolta dai magistrati collocati fuori dal ruolo organico della magistratura e nei cui riguardi deve essere comunque espressa una valutazione di professionalità secondo quanto stabilito dalle fonti primarie e secondarie. Il rischio concreto è che un magistrato che non esercita attività giurisdizionale progredisca meccanicamente nella carriera, e nel diritto allo stipendio, sulla scorta di valutazioni del tutto eccentriche rispetto all’attività giudiziaria. Ciò pone anche un problema di disparità di trattamento rispetto a quella stragrande maggioranza di magistrati che vengono valutati, sulla scorta di un sindacato pregnante, per la propria attività giurisdizionale negli Uffici.
Al riguardo estremamente importante è anche l’obbligo di relazione annuale del magistrato fuori ruolo affinché si valuti la persistenza di un effettivo interesse per l'amministrazione della giustizia al collocamento del magistrato in quella specifica posizione.


Invito alla riflessione ancora sul rischio dell’assenza di ogni verifica sull’attività giudiziaria, dopo la VII valutazione di professionalità, se il magistrato non faccia richiesta di pareri attitudinali per concorrere all’assegnazione di incarichi direttivi e semidirettivi.

Un aspetto di assoluto rilievo è, poi, il rapporto tra valutazioni di professionalità e sistema disciplinare.
Diversi i punti di contatto e le interferenze tra il procedimento disciplinare e il procedimento di valutazione, con le criticità che  discendono dai procedimenti disciplinari, che sono considerati nel giudizio anche se non hanno determinato una condanna e del cui rilievo il CSM può tener conto anche al di fuori del quadriennio di riferimento, se non valutati nell’ambito del precedente periodo di valutazione o per verificare il perdurare della loro incidenza sulla professionalità del magistrato.

La tipizzazione degli illeciti introdotta con il d.leg. 109/06 porta a un evidente parallelismo con il sistema delle valutazioni, posto che le fattispecie previste sono fatte, in molti casi, della stessa materia degli indicatori utilizzati nelle progressioni di carriera. Ovvio che tra i due plessi si possano verificare interferenze nonostante l’indiscutibile autonomia dei procedimenti, uno dei quali, per giunta, di natura giurisdizionale (peraltro, l’utilizzabilità delle risultanze disciplinari, al fine di un accertamento obiettivo della professionalità, è affermata da Tar Lazio, sez. I, 23 febbraio 2012, n. 1893, Foro it., Rep. 2012, voce Ordinamento giudiziario, n. 121).

Il problema si pone particolarmente in tema di ritardi nel deposito dei provvedimenti, ove può dirsi consolidato un indirizzo di forte rigore delle pronunce disciplinari, che non lascia molto spazio alle possibilità difensive in caso di superamento dell’anno (nonostante qualche recente apertura verso un maggiore spazio delle esimenti: Cass., sez. un., 8 luglio 2015, n. 14268).

Di fatto, può verificarsi il fenomeno della doppia valutazione del ritardo, tanto in sede di progressione quanto in sede disciplinare, ma con esiti differenziati a seconda della natura e dell’incidenza del ritardo; posto che una condanna disciplinare non potrebbe riverberare automaticamente sulla valutazione di professionalità (almeno in astratto), è ben possibile che lo stesso fatto conduca a conseguenze diverse nell’uno e nell’altro ambito decisionale, nulla escludendo, ad esempio, che esso sia stemperato ai fini della ricostruzione del parametro della diligenza, in una valutazione necessariamente più ampia e, soprattutto, estesa a un intero periodo professionale ben più che a un episodio, ancorché rilevante disciplinarmente.

In altri termini, anche per questa strada sembra incombente il rischio di sbocchi dettati dal profilo puramente valutativo della complessiva personalità del magistrato, che se da un lato depone per l’insufficienza strutturale di una ricostruzione troppo legata al dato numerico, dall’altro indica come opportuna una revisione del sistema disciplinare, che appare segnato spesso da rigorismi eccessivi che mal s’incastrano con la realtà professionale del magistrato e delle condizioni concrete in cui opera. Da qui l’auspicio di una funzione disciplinare più attenta ai profili deontologici prima ancora che ad aspetti formali, come il rispetto dei termini nel deposito delle sentenze, con il conseguente rischio di comprensibili chiusure difensive da parte del singolo, di derive burocratiche e impiegatizie e ricadute negative sulla qualità della giurisdizione.

In conclusione, se lo scopo della riforma è quello di permettere controlli effettivi sulla professionalità dei magistrati, esso rischia di perdersi sia dal lato del rischio di un ritorno alla pura e semplice soggettività, esclusi ovviamente gli indicatori di per sé quantificabili, come le statistiche di produttività e i ritardi, sia dal lato delle incompletezze conoscitive. Vero è che il sistema, pur ispirato alla tipizzazione delle fonti, non si chiude a tutti gli apporti virtualmente possibili, ma è anche vero che una positiva disciplina verso altri sbocchi conoscitivi sarebbe auspicabile, assieme allo studio di format più precisi e al contempo semplificati.


La tensione deve essere quella, come è stato sottolineato anche nella relazione illustrativa della commissione Vietti, «della maggiore articolazione dei pareri, che più si attagliano alle diversità di capacità e attitudini dei magistrati e della incentivazione verso un modello positivo di magistrato».
Occorre, in definitiva , costruire una cultura della valutazione, evitando di dare valore a “titoli” astratti, per verificare le concrete ed effettive modalità con cui ogni incarico o funzione sono stati svolti, spostando il baricentro delle valutazioni da che cosa hanno fatto i candidati a come lo hanno fatto e con quali risultati.
Criticità e controindicazioni, da ultimo, presenta la previsione della proposta della Commissione Vietti di una sostanziale mancanza di motivazione dei pareri positivi dei consigli giudiziari e l’omessa previsione dell’inoltro al CSM per la valutazione complessiva di professionalità, finendosi col valorizzare eccessivamente il solo rapporto del capo ufficio – con il rischio di accentuare negativi fenomeni di gerarchizzazione –  e rinunciandosi all’acquisizione di dati di conoscenza utili per definire il profilo del magistrato anche ad altri fini, come nel caso di successiva valutazione per l’assegnazione di incarichi dirigenziali.


Dirigenza Giudiziaria


Il sistema delle valutazioni, arricchito da indicatori specifici, è tanto più importante in quanto è alla base dei criteri per il conferimento degli incarichi dirigenziali, altro aspetto qualificante della riforma, che ha consentito di abbandonare la previgente disciplina degli incarichi conferiti senza scadenza e attribuiti principalmente in base all’anzianità di servizio senza demerito.

Si tratta di una modifica epocale, che ha inteso dare rilievo alle attitudini direttive, al fine di migliorare l’efficienza del sistema.

La verifica del grado di effettività della disciplina, primaria e secondaria, sulla dirigenza degli uffici giudiziari, introdotta con le modifiche dell’ordinamento giudiziario del biennio 2005-2007, con l’ulteriore rilievo delle criticità che ancora permangono, deve prendere le mosse dall’individuazione del modello normativo di dirigente al quale le norme si ispirano e che rappresenta il punto di arrivo di un lungo e faticoso processo di maturazione innanzitutto culturale e, conseguentemente, normativo.

La dirigenza non è, infatti, esercizio di un potere gerarchico nell'ambito di un'organizzazione piramidale, né la tappa di un cursus honorum irresponsabile ed incontrollato, che dà luogo ad uno status intoccabile ed indefinito nel tempo. Quella del dirigente, nel sistema delineato dalla Costituzione, è invece una funzione con contenuti autonomi, per la quale sono richieste doti non superiori, ma diverse rispetto a quelle del magistrato giudicante o requirente.

Se non si comprende questa premessa, resta oscuro il motivo che ha indotto alla degradazione dell’anzianità a mero criterio di legittimazione alla partecipazione al concorso.

La magistratura non è una burocrazia e il principio che la regola non è quello gerarchico, ma quello della separazione delle funzioni. La finalità ultima è che gli incarichi semidirettivi e direttivi vengano ricoperti da magistrati che vantino al loro attivo un percorso costante, credibile ed effettivo di formazione della professionalità, abbiano preparazione culturale generale e culturale specifica, siano muniti di spiccate capacità organizzative, siano portatori di Etica dei comportamenti, di Etica delle funzioni, di Etica costituzionale, di Etica del decidere; siano insomma, tra i candidati, i più adatti a queste o quelle specificità distrettuali.

Il nuovo t.u. della dirigenza giudiziaria, con cui il Csm ha riordinato l’intera disciplina secondaria, manifesta la volontà di indirizzare la discrezionalità di cui il consiglio è titolare, in virtù della Costituzione, in termini di maggiore prevedibilità, trasparenza e comprensibilità delle scelte. La messa in opera del t.u. è insomma uno dei contesti maggiormente impegnativi, delicati e allo stesso tempo potenzialmente innovativi del governo della magistratura in Italia.

Se è vero che il mero raffronto tra il t.u. attuale e quello precedente consente di apprezzare, comunque, lo sforzo compiuto, è altrettanto vero che la strada da percorrere verso la piena prevedibilità delle scelte è ancora lunga.

Fermo restando che le scelte sugli incarichi dirigenziali hanno alimentato dibattiti anche sotto le precedenti discipline, non si può negare che l’attuazione della nuova disciplina da parte del Csm ha lasciato emergere talune criticità, come testimoniato dal contenzioso collegato alle nomine dei vertici degli uffici giudiziari. L’abbandono del criterio dell’anzianità, squisitamente burocratico ma facilmente misurabile, ha conferito all'autogoverno un'ampia discrezionalità amministrativa, in luogo della discrezionalità quasi solo tecnica che caratterizzava la scelta dei dirigenti prima della riforma.

Taluni vedono in ciò il rischio di una decisionalità politica, refrattaria a controlli di legittimità, ma è proprio qua che si gioca la partita del coerente perseguimento dell'obiettivo culturale sopra descritto.

Si è da più parti ritenuto di non poter cogliere nella valutazione e nel peso attribuito ai vari indicatori -almeno sinora- un indirizzo interpretativo coerente che renda intellegibili le ragioni delle singole scelte, ed una parte dei magistrati ha mostrato insofferenza nei confronti dell’esercizio concreto delle funzioni discrezionali di autogoverno, tanto da auspicare persino l’abbandono dello stesso modello di autogoverno con il ricorso al metodo del sorteggio per scegliere i componenti dell’organo, in contrasto con quanto prevede la Costituzione.

Sento dunque l’esigenza, al di là e prima ancora di ulteriori valutazioni nel merito del tema tecnico, di ribadire che centrale per i magistrati e per la giurisdizione è la questione della tutela del ruolo del CSM affinché nessuna contingenza possa essere leva per una riforma che ne ridimensioni il ruolo di garanzia dei valori dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, a cominciare dalla concretezza dei singoli procedimenti e nel pieno rispetto dell’alveo della giurisdizione. Il pluralismo di idee e di orientamenti è il cuore della democrazia. L’alternativa a questo sarebbe rimedio peggiore del male degenerativo che ha adulterato l’originaria purezza del pluralismo e bisogna sconfiggere la parte degenere del ruolo delle correnti senza limitare il dibattito democratico.

I magistrati tutti devono esser messi in condizione di guardare al nostro organo di autogoverno come baluardo insostituibile di garanzia e credere nella qualità e trasparenza della sua azione perché partecipata e diffusa, condotta sulle direttrici di un percorso teso alla integrale leggibilità ex post delle sue decisioni pur nella salvaguardia della sua irrinunciabile discrezionalità.

Spetterà all’ANM concentrare la propria azione su temi di carattere generale di natura ordinamentale, sui quali è necessaria una comune riflessione e condivisione di valori, concorrendo in sinergia a migliorare la qualità dell’azione del CSM. Ruolo dell’associazione non è certo quello di contrapposizione all’Organo di autogoverno favorendo spinte dal basso per delegittimare l’Istituzione: il danno che ne deriverebbe al prestigio dell’intera magistratura sarebbe incalcolabile.

Non si possono negare alcune anche significative ipotesi di patologie dell’associazionismo, ma i dati obiettivi non consentono però di enfatizzarle. È giustificata ed anzi necessaria una vigilanza critica e la partecipazione al dibattito pubblico per provocare un miglioramento, ma senza cedere a semplificazioni e generalizzazioni che mettano in dubbio la stessa permanenza in vita del modello di governo autonomo. Si deve piuttosto intraprendere la strada, più faticosa, ma unica corretta, di individuare i problemi e suggerire soluzioni.

I problemi più delicati nascono, da un lato, dai tempi di definizione dei concorsi, con la conseguenza delle lunghe scoperture nella titolarità di Uffici anche di grande importanza, e dall’altro dalla carenza delle informazioni utilizzabili per una piena applicazione degli indicatori delle attitudini direttive.
Riguardo al primo problema va segnalato l’intervento legislativo di cui all’art. 2, 1° comma, d.l. 90/14, convertito, con modificazioni, in l. 114/14, che ha dettato il termine massimo di sei mesi per la formulazione della proposta da parte della commissione referente.

Il secondo problema è di grande complessità. Senza adeguate informazioni sugli aspetti quantitativi e qualitativi rilevanti per effettuare la scelta del concorrente più idoneo per quel posto, sussiste il pericolo che sia frustrato lo scopo, perseguito con il nuovo t.u. sulla dirigenza, di rendere più precisi, specifici e concreti gli indicatori delle attitudini direttive, facendo venir meno il quadro di riferimento per un esercizio leggibile e corretto della ineliminabile discrezionalità.

Il percorso per il raggiungimento di questi obiettivi è ancora lungo e difficile e si lega all'individuazione, a monte, di quali siano i criteri rispetto a cui le diverse componenti della professionalità giudiziaria vanno commisurate e di come se ne debba tenere conto. Assolutamente decisivo è, tuttavia, che i magistrati possano interfacciarsi con un testo unico stabile nel tempo che crei un alto grado di prevedibilità e consenta una adeguata pianificazione non della carriera, ma della professionalità, che deve trasparire lealmente, fedelmente e rigorosamente, dai rapporti dei capi degli Uffici e dai pareri dei Consigli Giudiziari.

Attraverso la analisi delle candidature, l'istruzione dei dossier individuali, la comparazione e la decisione il CSM è poi chiamato a svolgere il compito più oneroso ma più significativo. In ragione della importanza ed onerosità di questo compito, si sottolinea la necessità che si individuino indicatori attitudinali generici e specifici, che si determini in che modo essi debbano interagire e che vengano poi opportunamente governati. In ambito di discrezionalità consiliare dovrà stabilirsi quali siano i nuclei essenziali degli indicatori e quali le attività paradigmatiche di quell'indicatore specifico. Starà al CSM, assumendosene la responsabilità istituzionale, ma avendo la possibilità di rendere a posteriori intelligibile la scelta, decidere i nuclei elaborativi degli indicatori ed il peso relativo di ciascuno rispetto agli altri e procedere a valutazioni comparate di avvicinamento o allontanamento del candidato rispetto all'essenza dei singoli indicatori.

Passaggio preliminare indispensabile al corretto e ottimale esercizio della valutazione è la piena, effettiva, completa e significativa raccolta di informazioni, secondo criteri funzionali alla decisione sulla nomina. La disamina della professionalità dei candidati andrà poi rapportata alle informazioni, altrettanto decisive, sullo stato funzionale degli uffici giudiziari, perché il t.u. apre un legame fra nomina e tipo di ufficio. Una leggibile e ragionata gestione della conoscenza segnerà il raccordo fra il momento della valutazione e quello della nomina.

Si deve pertanto ribadire la massima importanza della responsabilizzazione sia dei capi ufficio, sia dei magistrati ordinari, sia dei componenti del Consiglio giudiziario, sia dei consiglieri del CSM, riguardo la redazione e collazione delle fonti di conoscenza ai fini delle nomine.

L'utilizzo di indicatori in chiave dinamica rappresenta forse il terreno di maggiore significatività dell'azione dell'organo di autogoverno nella fase di nomina dei direttivi e dei semi direttivi. Gli indicatori - se presi uno ad uno - non dettano né legittimano infatti alcun automatismo. Ciascun indicatore indica un aspetto che si ritiene cruciale, ma è nella interdipendenza dei diversi aspetti attraverso i quali si determina la professionalità, cioè nella lettura dinamica, che si esercita la discrezionalità propria dell'organo di autogoverno. La capacità di gestire indicatori in cluster e in chiave comparata passa naturalmente dall'individuazione degli aspetti della professionalità che incidono sugli altri, degli effetti di interdipendenza, dei modelli e delle condizioni necessarie di ciascuno di essi.

Sono queste le precondizioni per rendere leggibile l'azione del CSM e assicurare l'accettazione delle sue decisioni, in modo che corrispondano alla realtà empirica del sistema giustizia e siano percepite dal cittadino e dagli stessi magistrati come frutto di un'obiettiva ricerca del più adatto per quel determinato incarico invece che come espressioni di logiche correntizie e di gruppi di potere.

In tal senso, anche il giudizio di conferma va declinato come analisi seria che, senza incidere sull’autonomia di ciascun dirigente, analizzi i risultati raggiunti alla fine del quadriennio alla luce del progetto organizzativo depositato al momento della partecipazione al concorso. Occorre al riguardo acquisire la cultura e la consapevolezza che proseguire ad ogni costo nell’esercizio delle funzioni direttive o semidirettive non è un atto dovuto o un diritto acquisito perché declassa e mortifica ritornare a fare il “semplice” magistrato, deve prevalere sempre e, comunque, lo spirito di servizio e non la ricerca e la fascinazione del prestigio. La conferma non può passare, dunque, dal mero "non demerito", ma dalla validazione del “ben fatto”, anche per incoraggiare il dirigente a un percorso di ulteriore crescita.

Ai singoli, quindi, il salto culturale e l’impegno esclusivo sul terreno dell’esercizio delle funzioni nel solo interesse dell’amministrazione della Giustizia e l’acquisizione della consapevolezza che gli sforzi ed il tempo impiegati nella ricerca di titoli extracurriculari di carriera sono sforzi e tempo sottratti alla formazione vera della piena professionalità.


In realtà, mentre per le valutazioni di professionalità è prevista l'attività istruttoria del Consiglio Giudiziario, anche attraverso fonti di prova orale, il t.u. sulla dirigenza è meno esplicito e taluno sostiene che il C.G. debba limitarsi a valutare l’autorelazione, il rapporto del capo dell'Ufficio e le statistiche, restando così impermeabile alle segnalazioni di fatti rilevanti nell’ottica della valutazione effettuate da soggetti istituzionali e da suoi componenti, salva l'attività istruttoria che potrà essere svolta dal CSM.

Tale interpretazione non va condivisa. I pareri attitudinali specifici devono essere dettagliati e approfonditi, proprio per consentire all’organo deliberante di decidere sulla base degli elementi forniti da organi operanti sul territorio, anche al fine di evitare che gli elementi siano acquisiti, come purtroppo spesso capita, attraverso canali informali e in modo poco trasparente.

La trasparenza è poi un valore da perseguire con la massima coerenza, ai sensi del par. 7 T.U. Le pratiche relative all’attribuzione di incarichi direttivi e semidirettivi, alle nomine in Cassazione, alla DNA e ad ogni altra nomina dovrebbero essere di regola accessibili a tutti, nella loro completezza, salva la tutela dei dati sensibili al fine di salvaguardare la riservatezza degli interessati.


Magistrati fuori ruolo e dirigenza


La sessione offre spunti di riflessione anche sull’esperienza fuori ruolo.


Sgombrato il campo della riflessione dai magistrati impegnati in politica attiva con partecipazione diretta alla attività dei partiti e l’impegno nelle competizioni politico- elettorali internazionali, nazionali o locali, ovvero, ancora, con la assunzione di cariche politiche all’interno delle istituzioni del governo, nazionale o locale per i quali l’auspicio è che il legislatore impedisca il rientro nella giurisdizione e imponga la cessazione dall’attività giudiziaria, la quale unica tra le funzioni pubbliche comporta l’onere di assumere, anche sotto il profilo dell’apparenza, la veste dell’imparzialità, quanto agli altri e diversi incarichi fuori ruolo si rileva che questa esperienza, pur senza essere demonizzata in quanto decisiva per l’indipendenza e l’autonomia della giurisdizione e di assoluto risalto per il buon funzionamento di organi costituzionali e di rilievo costituzionale, deve essere sub valente a parità di attitudini rispetto all’esercizio effettivo e continuo delle giurisdizione.

Ciò perché il magistrato che ha svolto, senza soluzione di continuità, funzioni giurisdizionali è portatore di conoscenze, esperienze che, comunque, lo mettono in condizione, sempre a parità di attitudini, di essere più capace di esercitare i poteri di direzione dell’ufficio giudiziario.


Un correttivo potrebbe essere quello di inserire nel t.u. della dirigenza, a livello di indicatore specifico (e non solo generico), un favor per il candidato proveniente dal ruolo: il cd. bagno di giurisdizione da tanto evocato, oppure, più semplicemente, la provenienza dal ruolo quale criterio di validazione dei requisiti delle attitudini e del merito. Nella consapevolezza che soltanto un elevato livello di professionalità dei magistrati consente all’intervento giudiziario di essere davvero indipendente ed autonomo.

La prevalenza, nella valutazione di idoneità direttiva, della proficua e variegata attività giudiziaria varrebbe, sotto altro aspetto, a porre un freno alla pericolosa deriva carrieristica che, purtroppo, si registra anche tra i più giovani con la corsa alla precostituzione di titoli spendibili in funzione della progressione della carriera, e, più specificatamente, ad arginare le carriere parallele che siano strumento mascherato per dare credibilità alla politica, così piegando l’immagine della magistratura a fini distorti.

Le suesposte riflessioni acquistano maggiore pregnanza ove si abbia riguardo al dato dell’aumento del numero delle richieste di utilizzazione di magistrati ordinari, non solo in incarichi per i quali è prevista obbligatoriamente la designazione di magistrati per la loro specifica competenza, ma anche presso amministrazioni la cui attività è meno strettamente connessa all’interesse dell’amministrazione giudiziaria. La ragione di ciò, tutta politica, nasce dalla previsione legislativa della l. 217/01 (art. 13), che ha ampliato la possibilità di chiamare magistrati presso amministrazioni diverse da quella della giustizia estendendola a tutti «gli incarichi di diretta collaborazione con il presidente del consiglio dei ministri o con i singoli ministri, anche senza portafoglio», così consentendo l’assegnazione anche di incarichi prima non ammessi.

Un altro concomitante fenomeno ha determinato l’ampliamento dei casi di collocamento fuori ruolo. Negli anni successivi alle citate disposizioni normative, si è determinato, infatti, il moltiplicarsi delle autorità indipendenti e degli incarichi internazionali e sopranazionali; questi ultimi comportanti lo svolgimento di funzioni giudiziarie presso organi di giustizia (Tribunale Ce, Corte di giustizia, Corte dei diritti umani, tribunali penali speciali, Corte internazionale Onu) ovvero presso organi amministrativi sovranazionali (commissioni della unione europea, rappresentanze presso gli stessi organi e altri organismi). Solo per alcune di queste tipologie di incarichi è prevista obbligatoriamente o specificamente la presenza di magistrati, mentre per altri la qualifica di magistrato non è contemplata nemmeno in alternativa ad altre professionalità, riscontrandosi di solito la generica formula «esperti della materia».

Questa circostanza deve indurre a valutare con maggior rigore il problema dei fuori ruolo con riguardo all’interesse per la giurisdizione che deve essere sempre connesso all’incarico conferito e l’attenzione alla collaborazione con le altre amministrazioni o istituzioni richiedenti deve essere conciliata con il tema della mobilità dei magistrati, della tutela della loro inamovibilità, del pericolo di carriere parallele. Se l’interesse per la giurisdizione manca o è dubbio non vi sono ragioni perché si perda un magistrato o lo si ceda gratis a funzioni amministrative.

Ma a monte, e sempre in una prospettiva culturale ancor prima che istituzionale, la magistratura deve sapere difendere la sua funzione statuale specifica piuttosto che assumere, in un momento di alta crisi della giustizia, funzioni «altre». Non rinuncia a diritti (di pochi), ma opzione, attuale e magari transitoria, nell’interesse prevalente del «potere» statuale della giurisdizione.


Le prospettive di riforma



Il 17 marzo scorso è stata licenziata la relazione finale, contenente anche la proposta di articolato, della commissione ministeriale di studio per la forma dell’ordinamento giudiziario, presieduta da Michele Vietti.

In realtà solo una parte, e neppure, a mio avviso, la più rilevante, delle criticità evidenziate risulta affrontata. Gli aspetti principali delle proposte della commissione sono costituiti infatti dalle seguenti proposte:
a) introduzione di una norma primaria avente ad oggetto la disciplina formale della motivazione dei provvedimenti di conferimento degli uffici direttivi e semidirettivi e la specificazione dei «prerequisiti» (dell’indipendenza e imparzialità) e dei requisiti del merito e delle attitudini, con una formulazione che sostanzialmente riproduce quanto già previsto sommariamente dall’art. 12, commi da 10 a 13, d.lgs. n. 160 del 2006 e analiticamente dal nuovo t.u. consiliare sulla dirigenza del 2015;
b) modificazione degli art. 45 e 46 d.lgs. 160/06, con la previsione dell’anticipazione dell’avvio della procedura di conferma rispetto alla scadenza del quadriennio «qualora l’ufficio di appartenenza evidenzi gravi disfunzioni organizzative addebitabili al dirigente».
È questa certamente la proposta più rilevante che si muove nell’alveo degli strumenti necessari a dare concreta applicazione alla temporaneità degli uffici direttivi e semidirettivi.

Si segnala la necessità di introdurre una procedura che consenta valutazioni del Direttivo e Semidirettivo anche dopo la conferma successiva al primo quadriennio. Altrimenti, superata la prima valutazione, il Dirigente a fine carriera, che non aspiri a ricoprire altri incarichi direttivi alla scadenza del secondo quadriennio, potrebbe tenere condotte che solo in casi estremi consentirebbero un intervento da parte del Consiglio Giudiziario o del CSM.
In tale ottica potrebbe introdursi la possibilità di segnalazioni (anche in forma anonima) al Consiglio Giudiziario con possibilità di una istruttoria e successiva trasmissione della pratica al CSM, prevedendo anche in questo caso tempi rapidi e interventi risolutivi immediati.


Proposte di modifica dell’art.2 D.lgs. 31 maggio 1946, n. 511



L’art. 2 relativo al trasferimento di ufficio per incompatibilità ambientale o funzionale era stato uno strumento di “pulizia” della magistratura, con poche garanzie per il magistrato interessato.

I magistrati potevano essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni anche senza il loro consenso quando per qualsiasi causa anche indipendente da loro colpa non avrebbero potuto nella sede occupata amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario.

Nel 2006 la situazione è stata superata in sede di controriforma e l’art.2 è stato limitato alle situazioni incolpevoli e collegato alla impossibilità di svolgere le funzioni nella sede occupata con piena indipendenza ed imparzialità.

L’idea che era stata seguita, anche a causa del passaggio all’obbligatorietà dell’azione disciplinare e alla tassatività delle fattispecie, era quella di un’art.2 per casi incolpevoli ed una forte estensione della sospensione cautelare disciplinare.

È indubbio che il sistema non abbia funzionato per la farraginosità e la lentezza del procedimento disciplinare, togliendo qualsiasi possibilità di intervento al Consiglio anche per casi eclatanti.

Parimenti è indubbio che siano stati e stiano fuori dal suo alveo molti casi assistiti dalla volontarietà della condotta e non sempre integranti illecito disciplinare lesivi del prestigio dell’ordine giudiziario e/o caratterizzati dall’amministrazione della Giustizia o dalla immagine dell’amministrazione della Giustizia non con indipendenza ed imparzialità.

Trattasi, tra le altre, di una vasta gamma di condotte contrarie a regole deontologiche e nella migliore delle ipotesi di condotte gravemente inopportune laddove l’opportunità in uno alla legge, alle regole deontologiche ed all’etica deve rappresentare per il magistrato imperativo categorico.
Ma l'esigenza di elevare il livello etico della magistratura, mai così intensamente avvertita, non sembra poter essere efficacemente perseguita con la proposta riforma.

La proposta emersa nella Commissione Vietti contiene alcune rilevanti innovazioni.
La principale, in un tema da anni oggetto di approfondite riflessioni e di dibattito articolato, è l’eliminazione della limitazione dell’intervento del C.S.M. ai casi in cui la causa che impedisca al magistrato di svolgere le sue funzioni con piena indipendenza ed imparzialità sia indipendente da colpa.
La proposta prevede la necessità dell’audizione dell’interessato, la possibilità del C.S.M. di utilizzare lo strumento dell’applicazione del magistrato ad altro ufficio per rimediare a situazioni solo transitorie di incompatibilità. Stabilisce il termine di tre mesi per la definizione della procedura, pena l’estinzione, e la sua sospensione nel caso in cui penda procedimento disciplinare cautelare per gli stessi fatti.
Il tema è di estremo rilievo, con riferimento all’ambito ed all’estensione dei poteri del Consiglio Superiore della Magistratura, interpellando da un lato l’effettività delle prerogative amministrative di governo autonomo della magistratura sancite dall’art. 105 della Costituzione a tutela della funzionalità degli uffici giudiziari – sotto il profilo dell’autonomia e dell’indipendenza della loro azione –, e, dall’altro, il principio di inamovibilità dei magistrati codificato nella Carta costituzionale all’art. 107.

Ora, non v’è dubbio che l’esclusione dal novero delle evenienze che giustificano l’intervento del Consiglio Superiore di tutte le situazioni riconducibili a comportamenti volontari dei magistrati realizza una forte limitazione dell’istituto, in quanto non consentirebbe di considerare gli effetti, sulla concreta funzionalità degli uffici giudiziari, anche solo con esclusivo riferimento al profilo obbiettivo della complessiva immagine di indipendenza ed imparzialità, di evenienze ricollegabili a condotte di magistrati che siano provviste del mero coefficiente della coscienza e volontà. (Risoluzione CSM del 13 settembre 2016 sulla relazione della Commissione ministeriale per il progetto di riforma dell’Ordinamento giudiziario).

Tuttavia, la norma proposta risulta generica ed arreca un grave vulnus all’indipendenza interna della magistratura, al principio di inamovibilità e crea ipertrofia alla discrezionalità dell’Organo di autogoverno, oltre che presentare evidenti profili di incompatibilità costituzionale con riguardo all’assenza di determinatezza e tassatività della fattispecie ed alla conseguente sottoposizione dell’incolpato a procedimento di trasferimento officioso per condotte non definite, probabilmente mai definibili, nonchè per condotte evidentemente meno gravi di quelle integranti illecito disciplinare e con una procedura meno garantita di quanto evidentemente non sia la procedura disciplinare.

E se una mancanza di tipizzazione ed una minore intensità delle garanzie di difesa previste nel procedimento di irrogazione del provvedimento di trasferimento  per incompatibilità ambientale e funzionale (ove quel che viene in rilievo non è un illecito compiuto dal magistrato, ma una situazione obiettiva che si determina nell’ufficio ove egli esercita le sue funzioni) si giustificava con la natura amministrativa di esso, rispetto al procedimento disciplinare, essendo posto quest’ultimo a tutela della funzione giurisdizionale “oggettivamente” intesa, tanto non è più con la nuova edizione del trasferimento d’ufficio ex art. 2 che assume una veste paradisciplinare e sostanzialmente sanzionatoria e giurisdizionale.

È peraltro certamente insostenibile, sul piano dei principi, una duplicazione delle ipotesi di trasferimento, amministrativo ed ambientale, non solo per i profili di sicura incompatibilità che deriverebbero per i componenti che hanno partecipato all’una o all’altra procedura ma anche per la possibile incoerenza con i principi affermati dalle Corti sovranazionali della contestuale sottoposizione del magistrato a due procedimenti, che, sostanzialmente, sono entrambi di carattere sanzionatorio. Lo si evince dalla previsione secondo cui "La pendenza di una procedura disciplinare cautelare per i medesimi fatti sospende il procedimento amministrativo”. Previsione che comunque evoca la possibilità di giustapposizioni tra strumenti affatto diversi e diversamente garantiti quali il procedimento ex art. 2 e quello disciplinare cautelare.

La prima perplessità nasce dal fatto che appare difficile ipotizzare casi di impossibilità di svolgere le funzioni nella sede occupata con piena indipendenza ed imparzialità in conseguenza di condotte censurabili del magistrato che non integrino altresì illecito disciplinare.
Quelle che vengono indicate nel corso del dibattito come esempi di "zone grigie", a ben vedere, forse, non lo sono, ma rientrano in pieno nel paradigma di un qualche illecito disciplinare. Il principio di tipicità che impronta tale categoria di illecito, invero, non esclude che molte fattispecie siano descritte facendo ricorso a "categorie" aperte e clausole piuttosto ampie.

Se poi si ritiene che alcune condotte censurabili e suscettibili di rendere impossibile lo svolgimento delle funzioni con indipendenza ed imparzialità non siano previste quali illeciti disciplinari, si potrebbe enuclearle ed aggiungerle alla categoria degli illeciti tipizzati.

In ultima analisi, la proposta novellazione della disposizione in esame, non solo non appare razionale secondo lo scopo, ma rischia di creare più problemi di quanti mira a risolvere. Tanto per iniziare, come detto, quello della possibile giustapposizione/interferenza con la procedura disciplinare cautelare. Inoltre, un rilevante problema di compatibilità costituzionale, nell'ottica del parametro di cui all'art. 3 Cost, in quanto, con riferimento a provvedimenti sicuramente afflittivi,  si finirebbe per utilizzare una procedura amministrativa, meno garantita, con riferimento a condotte meno gravi (c.d. zone grigie); mentre per le condotte più gravi,  integranti illeciti disciplinari, la procedura sarebbe più garantita.

Senza considerare che uno strumento così incisivo, quanto generico in ordine ai presupposti operativi, si presta ad abusi o ad applicazioni divergenti e/o arbitrarie ed è avvertito diffusamente come un pericolo per le  garanzie del singolo magistrato.

L'argomento -infine- secondo cui la procedura disciplinare è lenta e macchinosa non appare  spendibile a sostegno della riforma, in quanto sono noti i casi in cui colleghi sono stati allontanati dalla sede in poche ore con il “trasferimento cautelare” disciplinare (cfr. caso Salerno-Catanzaro).

In conclusione, va mantenuta l’attuale formulazione dell’art. 2 mentre, de iure condendo, l’unico fronte che potrebbe essere battuto ed esplorato attiene alla conferma nell’incarico direttivo e semi direttivo, attraverso la previsione di ipotesi tassative di “inadeguatezza” all’esercizio delle funzioni direttive  in cui attivare il procedimento della conferma prima della scadenza del quadriennio.


Tommasina Cotroneo
Componente GEC dell'ANM
Coordinatrice della sessione
Ordinamento Giudiziario: dieci anni dopo



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