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30 luglio 2010

La riforma del processo del lavoro nel Ddl n. 1167


1. Art. 23 (Clausole
generali e certificazione del contratto di lavoro)



L'art. 23, 1° comma, stabilisce
che: "in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle
materie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile e
all'articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di
instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri
datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo
giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi
generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di
legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle
valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al
datore di lavoro o al committente".



Emerge qui il rischio del
travisamento della funzione svolta nell'ordinamento dalle "clausole
generali", le quali sono volte a consentire al giudice
l'adeguamento del precetto alla mutevolezza della realtà sociale, e
quindi ad assicurare una funzione integrativa dei comportamenti
doverosi, alla stregua di criteri di adeguatezza sociale. Sotto
questo punto di vista, il significato concreto di una "clausola
generale", evidentemente, non può coincidere con la mera
rappresentazione che ne dia una delle parti del rapporto
negoziale.



In realtà, la norma sembra voler
codificare un principio già espresso dalla più recente
giurisprudenza della S.C., secondo cui il controllo giudiziale
sull'operato del datore di lavoro è solo di legittimità e non anche
di merito, nel senso che gli è precluso di sindacare il merito
delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive
imprenditoriali, e gli è consentito esclusivamente il sindacato
relativo ai presupposti di legittimità, e cioè, ad esempio, il
sindacato in ordine alla reale sussistenza del giustificato motivo
di licenziamento addotto dall'imprenditore.



Permane, in ogni caso, a mo' di
contrappeso, il potere-dovere del giudice di valutare la serietà,
la veridicità delle ragioni poste a fondamento della determinazione
datoriale, in conformità dei principi generali
dell'ordinamento.

Tale potere, cioè il controllo di conformità dell'esercizio del
potere datoriale in ordine alla sussistenza dei presupposti di
legge per l'adozione di determinate misure, non può essere abrogato
o ridotto dal legislatore, perché costituisce l'essenza della
giurisdizione.

Una norma in tal senso sarebbe incostituzionale e contrasterebbe
con la stessa libertà contrattuale, che non può sfociare
nell'arbitrio di una parte a proprio vantaggio, non consentita
neppure dall'art. 41 c.

La giurisprudenza, invero, si è sempre informata alla ligia
osservanza della rispondenza del potere datoriale alla legge, senza
mai interferire con la scelta  datoriale e in definitiva con
la libertà di iniziativa economica.

Esempi significativi dell'applicazione di tale principio emergono,
oltre che in tema di licenziamento, dall'atteggiamento della
giurisprudenza riguardo la disciplina del contratto a tempo
determinato e in quella del trasferimento, oltre che del
licenziamento.

In materia di contratto a tempo determinato, in particolare, il
contratto è validamente concluso ove sussistano le ragioni di
carattere tecnico, organizzativo o sostitutivo indicate dalla
norma.

In particolare, ai sensi dell'art. 1, d. lgs. n. 368/01,
"l'apposizione del termine è priva di effetto se non risulta,
direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono
specificate le ragioni di cui al comma 1".

Sul punto la giurisprudenza (tutta di merito, allo stato ) pare,
in linea generale, univocamente orientata a ritenere che le ragioni
di carattere tecnico, organizzativo o sostitutivo debbano essere
sufficientemente e analiticamente specificate, come richiede la
legge, al fine di consentire il controllo giurisdizionale ed
evitare l'abuso del ricorso alla stipula del contratto a termine ,
con il corollario che esigenze meramente ripetitive dell'astratto
dettato normativo renderebbero di per sé illegittimo il contratto
sotto il profilo della forma (in violazione dell'art. 1
citato).

Si deve trattare, specifica la giurisprudenza, di ragioni
oggettive (è evidente il riferimento alla direttiva comunitaria nei
termini citati), che in quanto tali devono essere dimostrabili e
verificabili . Qualora, infatti tale oggettiva e specifica
indicazione non sia ravvisata, e cioè sia insufficiente il
riferimento concreto alle esigenze specifiche del datore di lavoro,
i giudici ritengono a priori nullo il contratto a termine, senza
consentire neppure l'ingresso del materiale probatorio
eventualmente offerto dal datore di lavoro.

Come si vede, allora, il sindacato non si spinge mai all'interno
della scelta imprenditoriale, limitandosi sempre alla 
verifica della sussistenza delle condizioni normative in ossequio
al dettato dell'art. 101 cost.

Così si specifica, ad esempio che "La innovativa introduzione di
una formula legislativa ampia e generica di individuazione delle
clausole giustificative del termine non consente comunque che tale
ampiezza e genericità sopravviva nell'atto scritto, ove le ragioni
dell'apposizione del termine devono essere "specificate", pena la
inefficacia dell'apposizione del termine, proprio per consentire un
controllo sulla legittimità dell'assunzione ed evitare una
inammissibile ricerca ex post di una giustificazione valida del
contratto; peraltro anche le proroghe illegittime vanificano il
termine stesso (art. 5, 2°, 3° e 4° co. l. cit.)" .

In maniera praticamente analoga (con le differenze dovute alla
difforme disciplina) si regola la giurisprudenza in merito
all'istituto del trasferimento, del lavoratore (art. 2103 cod.
civ.), secondo il quale, ai fini dell'efficacia del provvedimento
di trasferimento del lavoratore, non è necessario che vengano
contestualmente enunciate le ragioni (tecniche, organizzative e
produttive) del trasferimento stesso purché tali ragioni, ove
contestate, risultino effettive e di esse il datore di lavoro
fornisca la prova .

In tal caso la giurisprudenza indaga sempre, sul piano processuale
(giacchè le ragioni possono legittimamente in tal caso non essere
indicate in prima battuta) la concreta sussistenza delle ragioni, e
non la scelta imprenditoriale





Il comma secondo dell'art. 23 stabilisce, poi, che: "Nella
qualificazione del contratto di lavoro e nell'interpretazione delle
relative clausole il giudice non può discostarsi dalle valutazioni
delle parti espresse in sede di certificazione dei contratti di
lavoro di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre
2003, n. 276, e successive modificazioni, salvo il caso di erronea
qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità
tra il programma negoziale certificato e la sua successiva
attuazione".



La fede privilegiata derivante
dalla certificazione sembrerebbe non limitarsi, dunque, alla
qualificazione del contratto come subordinato o autonomo, ma
estendersi alla "interpretazione" di tutte le sue clausole. Il che
sembrerebbe significare impossibilità di contestare giudizialmente
i contenuti normativi ed economici del rapporto.

In realtà, la disposizione, sebbene ispirata a finalità
deflattive, incontra un proprio limite nel permanere del potere
valutativo del giudice, chiamato a verificare l'effettiva
rispondenza tra la volontà delle parti come certificata ed il reale
atteggiarsi del rapporto di lavoro. L'ampiezza della sua
formulazione, poi, ove interpretata nel senso di consentire la
certificazione di tutte le clausole contrattuali, si porrebbe in
evidente contrasto con l'ordinamento costituzionale, giacchè la
qualificazione del tipo negoziale, con i diritti che ne conseguono,
costituisce il proprium della giurisdizione, ed è sottratta alla
disponibilità delle parti.



Altre clausole generali vengono in
rilievo nel 3° comma dell'art. 23, che riguarda le valutazioni del
giudice relative alla motivazione del licenziamento e alle
conseguenze da riconnettere al licenziamento illegittimo.

Il contratto di lavoro individuale "certificato" può contenere sue
specificità normative disciplinari in tema di recesso per giusta
causa e giustificato motivo, evidentemente anche derogatorie di
quelle contenute nei contratti collettivi.



La norma ha subito in Commissione
modifiche indubbiamente migliorative dell'originaria
formulazione.

Infatti, con riguardo alle motivazioni, il testo originario
utilizzava l'espressione "il giudice fa riferimento", in tal modo
vincolando la valutazione del giudice alle tipizzazioni di giusta
causa o giustificato motivo presenti nei contratti collettivi o
addirittura nei contratti individuali stipulati con l'assistenza e
la consulenza delle commissioni di certificazione.

In tal modo, la disposizione finiva con l'incidere sull'art. 7
dello Statuto dei lavoratori che, nel prevedere che le infrazioni e
le sanzioni disciplinari applicate dal datore debbano essere
conformi a quanto in materia stabilito da accordi e contratti
collettivi di lavoro, lascia fermo il potere del giudice di
disapplicare le clausole non coerenti con le norme di legge, e con
le norme costituzionali sul diritto al lavoro, sulla tutela del
lavoro (artt. 4 e 35 cost.) e sul principio di ragionevole
bilanciamento degli interessi, posto dall'art. 3 Cost. Ed incideva
anche sulla tradizionale primazia delle disposizioni collettive
rispetto alla regolamentazione dei contratti individuali.



Invece, la Commissione ha provveduto alla sostituzione
dell'espressione "fa riferimento" con l'altra "tiene conto", che
esclude ogni carattere vincolante per il giudice.

In sostanza, rimane escluso il carattere novativo della
disposizione, giacchè la tipizzazione delle ipotesi di giusta causa
e/o giustificato motivo è già prassi diffusa nell'ambito dei
contratti collettivi.



In relazione ai contratti
individuali, è ben possibile che le parti decidano di attribuire un
particolare rilievo sanzionatorio a specifici comportamenti in
ragione della peculiarità della prestazione e, tuttavia, anche in
questa ipotesi è riservata al controllo giudiziale la verifica
della ragionevolezza e della proporzionalità della sanzione.



Quanto, poi, alla parte della
disposizione che disciplina le conseguenze del licenziamento, essa
si riferisce alle ipotesi di tutela
obbligatoria.   

Anche tale disposizione è stata modificata in Commissione, ed è
stata limitata - appunto - alla tutela obbligatoria, con la
conseguenza che i parametri indicati servono solo a determinare il
risarcimento tra il minimo e il massimo previsto.

Tuttavia, la disposizione non sostituisce direttamente l'art. 8
della legge n. 604/66 e quindi deve ritenersi che la norma si
limiti ad integrare, o a chiarire, gli elementi di valutazione già
previsti nella prima parte dell'art. 8, restando ferma la
possibilità, prevista nella seconda parte, di aumentare il
risarcimento oltre le sei mensilità, sulla base di variabili
personali e ambientali, e ciò in conformità con gli sviluppi della
giurisprudenza civilistica in tema di danno risarcibile.





3. Art. 24 (Arbitrato e conciliazione)



Il primo comma dell'art. 24
modifica l'attuale art. 410 c.p.c., in quanto fa venir meno
l'obbligatorietà del preventivo tentativo di conciliazione, che
diventa ora facoltativo, salvo per l'impugnazione dei contratti
certificati.



In linea di massima, l'intervento
appare condivisibile, atteso che la disciplina vigente non aveva
conseguito gli obiettivi che si era prefisso, soprattutto nel
settore privato, e considerato, altresì, che l'auspicato effetto
deflattivo avrebbe effetti rilevanti oltre che per le imprese,
anche per i lavoratori, rendendo più spedito il processo del
lavoro. 



Le nuove norme stabiliscono che la Commissione possa essere
presieduta da un magistrato a riposo e definiscono una procedura,
analoga a quella di cui all'art. 66 del decreto legislativo n.
165/2001, relativa al pubblico impiego, che bene ha funzionato, con
la quale è previsto, in particolare, che le parti espongano per
iscritto le rispettive posizioni.



Tuttavia, la previsione
dell'esclusione di maggiori oneri per il bilancio dello Stato, e,
pertanto, l'impossibilità di utilizzare una struttura di supporto,
e la necessità di servirsi del personale già esistente, inducono
seri dubbi in ordine alla reale operatività della procedura.



Per quanto concerne, poi, l'arbitrato, deve rilevarsi che, ai
sensi dell'art. 412ter, la risoluzione arbitrale delle controversie
di lavoro è consentita solo se è prevista dalla contrattazione
collettiva, in considerazione della funzione di garanzia svolta
dalle associazioni sindacali a tutela degli interessi del
lavoratore, quale parte debole del rapporto.



Il terzo comma dell'art. 23
ripropone, invece, il generale ricorso agli arbitri, prevedendo la
possibilità che le parti, in sede di procedura di conciliazione,
possano accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla
stessa commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via
arbitrale la controversia.

La norma non è di chiara formulazione. Quel che si ricava è
l'estensione dell'arbitrato a tutte le controversie di
lavoro.

Non è chiaro, poi, il rapporto tra la nuova norma e l'art. 806
c.p.c., che prevede, al secondo comma, l'arbitrabilità delle
controversie di cui all'art. 409 solo se previsto dalla legge o da
contratti collettivi.

Tuttavia, la nuova disciplina prevede la possibilità che gli
arbitri decidano secondo equità, e quindi anche senza applicare le
norme inderogabili di legge e le norme dei contratti collettivi,
pur nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento.

Dubbi si pongono, pertanto, in relazione alla formulazione della
norma, rispetto ai diritti indisponibili delle parti.



Dubbi di costituzionalità si
pongono, poi, in relazione alla previsione secondo cui il lodo è
impugnabile ai sensi dell'art. 808ter anche in deroga all'art. 829,
commi 4 e 5, sicchè è possibile che le parti escludano
l'impugnabilità per violazione di norme di legge ("regole di
diritto"), anche inderogabili, o di contratto collettivo.

Occorre sottolineare che la disposizione di cui al comma 6°
dell'art. 24 appare fortemente criticabile nella parte in cui
consente l'inserimento della clausola compromissoria, o del
compromesso, nel contratto individuale con riguardo ad ogni
controversia, purchè il contratto sia certificato. E' infatti
palese il rischio che il lavoratore, parte debole del rapporto, pur
di essere assunto, sia indotto a sottoscrivere e ad accettare la
clausola compromissoria con devoluzione di qualsiasi futura lite
agli arbitri, la cui decisione secondo equità non garantisce il
rispetto delle norme di legge e del contratto collettivo.



4. Art. 25
(Decadenze)



L'art. 25 del disegno di legge
prevede un termine di decadenza di 120 giorni per l'esperibilità
dell'azione giudiziaria con riguardo ai licenziamenti, anche
qualora se ne faccia valere la nullità o l'inefficacia, e,
pertanto, anche nell'ipotesi di licenziamento verbale, nonchè nelle
fattispecie che presuppongono la risoluzione di questioni relative
alla qualificazione del rapporto o alla legittimità del termine
apposto al contratto. Lo stesso termine è previsto con riguardo al
recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa, compreso il rapporto a progetto, e al
trasferimento.



In via generale, la norma è
ispirata alla legittima esigenza di pervenire alla certezza delle
situazioni giuridiche in tempi ragionevoli con riguardo ad una
tipologia di controversie la cui tardiva risoluzione espone
l'impresa, e gli interessi ad essa collegati, a rilevanti
pregiudizi economici.

Conseguentemente, l'impugnazione che esclude la decadenza è solo
quella fatta con ricorso giudiziale; nessun rilievo è riconosciuto
all'atto stragiudiziale (salvo l'effetto dilatorio di un'eventuale
richiesta di conciliazione).



La previsione di un termine così
breve di decadenza sostanziale appare, tuttavia, fortemente
pregiudizievole per il lavoratore, per cui si ravvisa necessario
procedere ad una riformulazione della disposizione con la
previsione di un differente e più lungo termine.

Permangono, comunque, forti perplessità per il contrasto con il
regime dei termini prescrizionali, operanti per i rimanenti
rapporti giuridici.



Inoltre, l'innovazione è destinata
a sortire effetti pregiudizievoli sul volume del contenzioso e,
quindi, sulla durata del processo, posto che, pur di non incorrere
nella decadenza, l'impugnativa giudiziaria verrà comunque
intrapresa, sebbene a scopo cautelativo.



In particolare, occorre riflettere
sull'applicazione della norma con riguardo all'impugnativa del
contratto a termine. Al riguardo è stata inserita la lettera d),
che fa esplicito riferimento all'impugnazione del termine
legittimo.

L'applicazione del ristretto termine di decadenza per
l'impugnativa del contratto a termine appare probabilmente
configgente con il diritto comunitario dal quale si ricava il
principio per cui si intende sanzionare l'abusiva ripetizione di
contratti a termine.

Con la sentenza Vassallo, 7 settembre 2006, Vassallo, causa C -
180/04, la CGCE, con specifico riferimento alla normativa italiana
(e cioè, in particolare,  all'art. 36 d.lgs. 165/01, in
materia di lavoro pubblico), afferma che la sanzione risarcitoria,
dalla suddetta normativa prevista per l'illegittima stipulazione di
contratto a termine nel settore del lavoro pubblico, non possa
ritenersi, a priori, uno strumento inadeguato, al fine di
perseguire gli scopi della direttiva, tesa a sanzionare
l'utilizzazione abusiva di contratti a tempo determinato stipulati
in successione.

E' evidente che una norma che impedisca al lavoratore di impugnare
il contratto a termine, decorso il breve periodo di decadenza,
anche e soprattutto per l'ipotesi di abusiva ripetizione, confligge
apertamente con il suddetto principio comunitario, tendendo a
risultati praticamente opposti a quelli che il diritto comunitario
vuole garantire. In tal modo si finisce per agevolare il tanto
deprecabile fenomeno del precariato (d'altra parte, è agevole
considerare che il lavoratore precario, pur di esser assunto
nuovamente, difficilmente impugnerà il contratto nel temine di
decadenza.)



 



6. Art. 26 (Spese di
giustizia nel processo del lavoro)



L'art. 26, infine, si occupa delle
spese di giustizia nel processo del lavoro con due disposizioni che
sembrano contraddittorie e che appaiono meritevoli di
miglioramenti.

In ogni caso, al di là della dubbia tecnica legislativa, è
evidente la volontà di applicare il contributo unificato anche alle
controversie di lavoro e previdenziali, con l'intento di ridurre il
numero dei ricorsi, ma attuando, in effetti, una penalizzazione del
lavoratore.



7. L'astreinte nel processo
del lavoro.



Va poi segnalato che il disegno di
legge recante modifiche al codice di procedura civile, nel mentre
propone l'introduzione nell'ordinamento dell'astreinte, e cioè
della condanna di colui che non adempie agli obblighi imposti da
una sentenza di condanna a fare infungibile o a non fare ovvero non
osserva tali obblighi o ne ritarda l'adempimento, al pagamento di
una sanzione pecuniaria in favore dell'altra parte, esclude
espressamente che essa trovi applicazione  rispetto alle
sentenze relative ai rapporti di lavoro, e ai rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa di cui all'articolo 409
c.p.c. Essa non trova cioè applicazione proprio laddove il
rapporto, per sua natura, è caratterizzato dallo squilibrio
economico e contrattuale tra le parti, sicchè più forte si avverte
l'esigenza di effettività della tutela giurisdizionale.



 




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