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AREA GENERALE | In memoria
12 novembre 2013

In ricordo di Rosario Angelo Livatino

Giudice al Tribunale di Agrigento, assassinato dalla mafia.

Tratto dalla pubblicazione "Nel loro segno" del Consiglio Superiore della Magistratura

Rosario Angelo Livatino
(Canicattì, 3 ottobre 1952 - Agrigento, 21 settembre 1990)
Giudice del Tribunale di Agrigento,

Il «giudice ragazzino» Rosario Livatino viene ucciso dalla mafia a soli 37 anni, il 21 settembre 1990 alle porte della Città dei templi. Sono le 8.30 e Rosario Livatino, con la sua Ford Fiesta amaranto viaggia verso Agrigento per raggiungere il tribunale dove lavora. A quattro chilometri da Agrigento, nel territorio comunale di Favara, una macchina accelera e sperona la Fiesta di Livatino; giunge anche una moto. Da entrambi i mezzi vengono esplosi colpi di pistola. Il giudice tenta la fuga, esce dall'auto, corre verso la scarpata tra le contrade Gasena e San Benedetto. I killers lo inseguono e continuano a sparare. Rosario cade a terra, ma i sicari - per essere certi di aver portato a termine "il compito" - lo colpiscono ancora a distanza ravvicinata con quattro colpi alla nuca. Grazie a un testimone saranno individuati i componenti del commando omicida e i mandanti. Essi saranno poi condannati pur se resta ancora oscuro il contesto in cui è maturata la decisione di uccidere.

Rosario Livatino nasce a Canicattì il 3 ottobre del 1952. Figlio dell'avvocato Vincenzo e della signora Rosalia Corbo, dopo gli studi al liceo classico Ugo Foscolo, s'iscrive nel 1971 alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Qui consegue la laurea nel 1975 con il massimo dei voti. Giovanissimo, entra nel mondo del lavoro vincendo il concorso per vicedirettore presso la sede dell'ufficio del registro di Agrigento. Nel frattempo partecipa con successo al concorso in magistratura e, dopo averlo superato, lavora prima a Caltanissetta, poi al tribunale di Agrigento. Qui, dal 1979 e per quasi dieci anni si occupa, come sostituto procuratore della Repubblica, delle più delicate indagini antimafia e di criminalità comune. Dal 21 agosto del 1989 al 21 settembre del 1990 è componente della speciale sezione misure di prevenzione al Tribunale di Agrigento.

Rosario Livatino è instancabile e deciso. Tra le sue inchieste, quella sulle cooperative di Porto Empedocle dove scopre un giro di fatture false che procurano fondi neri ai grandi gruppi imprenditoriali catanesi in contatto con i clan mafiosi. Per un anno viene sottoposto a protezione. Indaga anche sulla cosca Ribisi di Palma di Montechiaro. Perviene alla conclusione che la cosca rappresenta un pericolo per la città e propone pertanto che ai suoi esponenti sia applicato il divieto di soggiorno in Sicilia, nelle regioni meridionali con criminalità organizzata, ma anche in Toscana dove vivono molti palmesi dediti ad attività illegali.

Su Rosario Livatino sono stati scritti libri e realizzati film; a lui sono intitolate scuole e, da tempo, la Curia di Agrigento sta lavorando all'apertura di un processo diocesano che potrebbe portare alla canonizzazione. Il 10 maggio 1993, papa Giovanni Paolo II giunge nella Sicilia occidentale. Di fronte a centomila fedeli lancia dal palco sia il celebre appello ai boss mafiosi "Pentitevi" sia l'invito ai siciliani a impegnarsi collettivamente nel rifiutare qualsiasi compromesso con la criminalità. Dopo la manifestazione, il pontefice incontra in forma privata gli anziani genitori del magistrato ucciso. Quel giorno nasce a Canicattì l'associazione "Amici del Giudice Rosario Livatino", promossa da una ex insegnante del magistrato che decide di far proprio l'impegno profuso dal vescovo di Agrigento nel raccogliere testimonianze per un possibile avvio di un processo di canonizzazione.

La religiosità contraddistingue il percorso di vita di Rosario, cattolico praticante e dotato di una fede robusta. A quindici anni scrive del suo trasporto verso Dio; tra le sue abitudini, quella di entrare ogni mattina in chiesa a pregare prima di andare in tribunale; nel cassetto della scrivania un rosario e, sopra, il vangelo che leggeva ogni sera a conclusione della giornata per rasserenarsi e trovare riposo.

Livatino viene ricordato come un magistrato atipico nei comportamenti segnati da un rigore misto, tra lo spartano e l'ascetico. Mai una parola fuori posto; inutile rintracciare uno sfogo a voce alta. Evita anche la pausa pranzo con i colleghi. Per lui basta un bicchiere di latte bianco consumato nel suo ufficio. Il collega Stefano Manduzio quando si accorge che Rosario aggiunge anche del caffè al suo latte, ironizza con gli altri magistrati: "Allora si può corrompere". Anche nella battuta si nasconde l'ammirazione compiaciuta verso un magistrato di cui i colleghi apprezzano anche la competenza professionale e la preparazione giuridica.

In una conferenza del 7 aprile 1984 sul "Il ruolo del giudice in una società che cambia", Livatino sostiene che il giudice: altro non è che un dipendente dello Stato" al quale è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi, che quella società si dà attraverso le proprie istituzioni, in un momento di squisita delicatezza del loro operare: il momento contenzioso. Per ciò stesso, il magistrato non dovrebbe essere una realtà sul cui mutamento ci si debba interrogare: egli è un semplice riflesso della legge che è chiamato ad applicare. Se questa cambia, anch'egli dovrebbe cambiare; se questa rimane immutata, anch'egli dovrebbe mantenersi uguale a se stesso, quali che siano le metamorfosi della società che lo avvolge...". E ancora: "... Sarebbe quindi sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l'ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall'ordine giudiziario". E infine: "... L'indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l'indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività...."