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dei magistrati italiani. Tutela i valori costituzionali, l'indipendenza e l'autonomia della magistratura.




https://www.associazionemagistrati.it/1043/livatino_intervento1984.htm
AREA GENERALE | Notizie
20 settembre 2012

"Il ruolo del giudice nella società che cambia"

"L'argomento proposto vuole offriremateria di riflessione su due temi, che possono anche porsi inperfetta antitesi fra loro: la società che cambia e il magistrato.Da un lato viene considerata la società intesa come unione ordinatae regolamentata di persone che vivono in un ambito territoriale (e,quindi, per noi la società italiana), la quale è per sua stessanatura una entità in continua evoluzione: essa si trasforma, avolte sensibilmente e a volte insensibilmente, in modo quotidiano,dando luogo a ciò che, nel termine più comprensivo, viene definitocome l'evoluzione perenne del costume".


target="_blank">estratto_repubblica_smallConferenza tenuta dal giudice Rosario Livatino
il 7 aprile 1984.



L'argomento proposto vuole offrire materia di riflessione su due
temi, che possono anche porsi in perfetta antitesi fra loro: la
società che cambia e il magistrato.



Da un lato viene considerata la
società intesa come unione ordinata e regolamentata di persone che
vivono in un ambito territoriale (e, quindi, per noi la società
italiana), la quale è per sua stessa natura una entità in continua
evoluzione: essa si trasforma, a volte sensibilmente e a volte
insensibilmente, in modo quotidiano, dando luogo a ciò che, nel
termine più comprensivo, viene definito come l'evoluzione perenne
del costume.



Dall'altro abbiamo la figura del
magistrato: egli altro non è che un dipendente dello Stato, al
quale è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi,
che quella società si dà attraverso le proprie istituzioni, in un
momento di squisita delicatezza del loro operare: il momento
contenzioso. Per ciò stesso, il magistrato non dovrebbe essere una
realtà sul cui mutamento ci si debba interrogare: egli è un
semplice riflesso della legge che è chiamato ad applicare. Se
questa cambia, anch'egli dovrebbe cambiare; se questa rimane
immutata, anch'egli dovrebbe mantenersi uguale a se stesso, quali
che siano le metamorfosi della società che lo avvolge.



In questa accezione, il tema
proposto potrebbe anche apparire una contraddizione in termini.
Esso però trae le mosse da una diversa chiave di lettura del ruolo
del magistrato, che si è venuta sempre più affermando a partire
dalla metà degli anni '60 e che vuole, esaltando il potere di
interpretazione della legge, tracciare un nuovo rapporto tra tale
ruolo ed il divenire della società.



Partendo dalle premesse, cioè, che
non sempre la legge è in sintonia coll'evolversi del costume ma
spesso, troppo spesso, si attarda e si sclerotizza, si è sostenuto
che il magistrato può - pur rimanendo identica la lettera della
norma - utilizzare quello fra i suoi significati che meglio si
attaglia al momento contingente.



Una diversità di ruolo che non può
non rifrangersi nel suo stesso protagonista: il nuovo rapporto
cercato fra magistrato e norma legislativa comporta infatti di
necessità che anche il primo esca dalla propria torre eburnea di
immutabilità, di ibernazione sociale, divenendo attento, sensibile
a quanto accanto a lui si crea, si trasforma, si perde.



Ecco, dunque, che i termini del
tema propostoci non sono più in inconciliabile antitesi: le due
realtà, società e magistrato, sono su un identico piano evolutivo e
bene si comprende e si giustifica l'interrogativo sugli effetti che
tale parallelismo può avere prodotto, sulla positività o negatività
di questa esperienza che si è voluta vivere e, conseguentemente,
sulla persistente conducenza del mezzo che si è scelto rispetto al
fine che si voleva originariamente conseguire.



Il tema è di amplissimo respiro e
di difficile risolubilità, soprattutto perché il fenomeno al quale
implicitamente si riallaccia è tuttora in atto. Assolutamente
pretenzioso sarebbe quindi credere di poterne affrontare la
disamina da parte di chi parla; anche perché la disamina stessa
implica conoscenze, soprattutto sul piano della macro e
microsociologia, che esulano del tutto dalla sua esperienza
culturale.



Poiché, però, il dibattito sul
ridetto tema è ogni giorno riproposto dai mezzi di comunicazione di
massa ed innumerevoli sono gli episodi reali che lo impongono
all'attenzione della pubblica opinione, è facile presumere che
ciascuno di coloro che hanno la bontà di ascoltarlo rechi con sé
dei quesiti che gradirebbe poter rivolgere ad un addetto ai
lavori.



E' questo il taglio che sembra
ideale per questo incontro e quanto adesso brevemente sarà detto
avrà il solo scopo di richiamare alla memoria quelle tematiche che
più di altre hanno costituito motivo di pubbliche polemiche e di
fungere quindi da stimolo per le domande, le contestazioni che si
vorranno porre.



Le tematiche sulle quali ci
intratterrerno sono le seguenti:



•i rapporti tra il magistrato ed il
mondo dell'economia e del lavoro;

•i rapporti tra il magistrato e la sfera del "politico";

•l'aspetto della c.d. "immagine esterna" del magistrato;

•il problema della responsabilità del magistrato.



1. - I RAPPORTI TRA IL MAGISTRATO E
IL MONDO DELL'ECONOMIA E DEL LAVORO



La situazione economica italiana
dell'ultimo decennio ha risentito in maniera notevole delle due
crisi dei prodotti petroliferi (1973/1974 -1979/80) e della
persistenza dei fenomeni terroristici e di instabilità politica. Ad
essi si è aggiunta nello scorcio del 1980 una calamità naturale,
quale il disastroso terremoto che ha colpito le regioni meridionali
del paese ed in particolare la Campania, la quale ha creato
particolari problematiche socio-economiche, con gravi riflessi
anche sul piano della repressione penale e dell'ordine
pubblico.



Il mercato del lavoro e l'economia
monetaria sono stati settori nei quali le perturbazioni economiche
hanno prodotto i loro maggiori effetti. Il tasso di disoccupazione
è andato man mano crescendo, soprattutto a partire dal 1973-74,
giungendo a sfiorare nel 1981 il tetto dei due milioni di
disoccupati (8,4% delle forze di lavoro), con progressione continua
a partire soprattutto dal 1976 (tasso di disoccupazione 6% delle
forze di lavoro).



In questo quadro, indubbiamente
difficile, si è inserito prepotente il dilemma fra la figura del
giudice-garante degli interessi forti (per i quali vengono assunti
a base i valori industriali dominanti) ed il giudice-garante degli
interessi deboli (cioè degli interessi individuali contro
l'eccessiva concentrazione del potere economico).



Dilemma che nasce dalla convinzione
che la presenza giudiziaria possa esplicarsi in modo incisivo in
contrasto colla congiuntura economica e al fine di sanarne in tutto
o in parte gli effetti perversi.



Nell'ansimare dell'apparato
esecutivo alla ricerca di politiche economiche idonee a sciogliere
quel nodo congiunturale ormai sospetto di cronicità, v'è stato chi
ha ritenuto che il magistrato possa far buon uso del suo potere
interpretativo delle leggi, accogliendo di esse quell'accezione che
privilegiasse gli interessi delle classi economiche dominanti, così
consentendo alle stesse, svincolate da quei "lacci e lacciuoli",
come ebbe a definirli Guido Carli, di riprendere quella padronanza
nel campo dell'iniziativa privata e quella sicurezza nel settore
degli investimenti produttivi, che avevano consentito
all'imprenditoria italiana di creare il c.d. "miracolo economico"
degli anni '50. Una linea, quindi, rivendicativa per il magistrato
di un ruolo di protagonista occulto, indiretto della macroeconomia
nazionale. Una tesi che relegherebbe il Montesquieu ed il suo
principio sulla separazione dei poteri davvero in una polverosa
soffitta e che farebbe inorridire economisti classici come Ricardo
o Keynes.



Per contro, v'è stato chi,
rigettando il ruolo di "canalizzatore" dei processi economici, ha
caldeggiato quella presenza giudiziaria come elemento correttivo
delle conseguenze nefaste che la congiuntura ha sui piccoli
soggetti economici.

È la tesi di chi ha voluto il magistrato come difensore delle
categorie più povere e, come tali, più esposte ai capricci
dell'inflazione e della stagflazione, proponendo l'aula giudiziaria
come luogo di necessario, di dovuto riequilibrio fra parte sociale
forte e parte sociale debole ed individuando il processo del lavoro
come l'arena più allettante per tale tenzone.



Per esemplificare quanto si dice,
basterà citare il noto caso del pretore Paone, che, per ovviare ad
una crisi di alloggi, ricorse al sequestro di immobili. Sul punto
quello che si può osservare è:



1° - che entrambe le prospettazioni
sono senz'altro da rifiutare in quanto il ruolo che vogliono
prefigurare è tale che il magistrato, che dovrebbe assumerlo, non
sarebbe più tale in quanto imprimerebbe a se stesso ed ai propri
compiti dei caratteri e delle finalità totalmente estranei a quello
che ancora oggi è il prototipo dell'interprete giudiziario nel
comune sentire sociale come figura super partes e tali da far
seriamente pensare ad un vero e proprio tradimento nei riguardi di
quei valori la cui tutela la nostra Carta costituzionale affida al
giudice ben diverso che essa implicitamente teorizza;



2° - che è peraltro da fugare il
timore, purtroppo diffuso, che queste spinte innovatrici siano
largamente radicate nei giudici civili e, soprattutto, nella
magistratura del lavoro; timore al quale si accompagna
l'altrettanto diffusa sgradevole sensazione che l'esito di una
controversia individuale o collettiva di lavoro non trovi la
propria fonte nella legge ma nelle simpatie del magistrato per
questa o quella parte sociale. Vi sono stati e vi sono casi che,
col complice aiuto, a volte, di un distorto uso dei mezzi di
informazione, inducono a comprendere come possano essersi formati
quel timore e quella sensazione; ma va rigettata recisamente la
tendenza ad una generalizzazione indiscriminata e va soprattutto
con calore affermato che la maggioranza degli interpreti del
diritto nel nostro paese piega ancora le proprie convinzioni alla
legge e non questa a quelle.



Troppo si è esagerato sulla
giurisprudenza del lavoro, giudicata come decisamente di una sola
parte del rapporto. Una recente ricerca effettuata per conto del
Ministero di grazia e giustizia, a cura del Centro nazionale di
prevenzione e difesa sociale, alla quale hanno preso parte docenti
di diversa estrazione ideologica, ha clamorosamente smentito simili
affermazioni.



L'indice di vittoria su cause
decise con sentenza in primo grado nell'intero territorio italiano
è risultato pari al 64,5%. Tale indice nei giudizi di appello
scende al 29,7% quando appellante è il lavoratore ed al 43,1%
quando appellante è il datore di lavoro.



La ricerca dimostra, nel complesso,
un atteggiamento della magistratura del lavoro, anche in sede di
legittimità, tutt'altro che "squilibrato" o "destabilizzante". Del
resto, già una precedente ricerca, condotta nel 1976 dal prof.
Mengoni presso l'Istituto giuridico dell'Università Cattolica di
Milano, dimostrò l'infondatezza dell'immagine del giudice del
lavoro come giudice di assalto velleitariamente affetto da
protagonismo o comunque di giudice prevenuto nei confronti di una
sola delle parti del conflitto industriale.



D'altronde, va anche rammentato
che, a giustificazione di talune decisioni, di taluni indirizzi
"sorprendenti" o comunque tali da suscitare perplessità, stanno dei
motivi alla cui ricorrenza è del tutto estraneo il magistrato,
venendo essi in essere in un momento precedente a quello in cui
egli è chiamato a svolgere la sua funzione.



Ci si intende riferire:



a) in primo luogo a leggi che di
per sé sono chiaramente alteratrici di un equilibrio nella
posizione delle controparti rispetto all'organo giudiziario: favor
del lavoratore, tutela differenziata in sede processuale e spinte
assistenzialistiche non sono invenzioni della giurisprudenza, ma
precise scelte di politica legislativa. Che tali scelte siano
giuste od ingiuste è problema che in questa sede non rileva: ciò
che preme è il sottolineare che molto spesso si fa carico ai
magistrati di "scelte di campo" alle quali egli si trova vincolato
proprio per quell'ossequio alla legge che da lui si pretende;



b) in secondo luogo alle difficoltà
interpretative del linguaggio oscuro delle norme che il patrio
legislatore oggi emana nella materia con notevole fecondità e,
soprattutto, dello strumento principe, oggi, nella regolamentazione
dei rapporti di lavoro: il contratto collettivo.



La magistratura, per restare ancora
fedele al dovere costituzionale di fedeltà alla legge, altro non
cerca, anche per evitare ondeggiamenti, incertezze ed ulteriori
ingiusti rimproveri, che di poter disporre di dettati normativi
coerenti, chiari, sicuramente intelligibili, nonché di testi
negoziali nei quali la posizione di diritto e di obbligo delle
parti non sia offuscata da una trama tormentata di sottili e
complicate espressioni verbali, che nascondono premesse politiche
tutt'altro che chiare anziché una precisa volontà che sostenga il
precetto. Fin quando tutto questo non sarà assicurato dal nostro
legislatore e dalle parti sociali in sede di contrattazione, sarà
ineliminabile che il giudice di Pordenone ed il giudice di Ragusa,
con gli abissi di cultura e dei substrati territoriali, sociali ed
economici nei quali si trovano ad operare, cerchino di districarsi
nella perigliosa giungla di queste regolamentazioni adoperando dei
machete interpretativi tra loro dissimili o addirittura
contraddittori.



2. - I RAPPORTI TRA IL MAGISTRATO E
LA SFERA DEL "POLITICO"



È forse questo il settore più
dolente, nel quale più si impuntano le critiche e dal quale
provengono i maggiori allarmi.

Il tema della politicizzazione dei giudici si inserisce a pieno
titolo nel dibattito sui problemi della giustizia e nell'analisi
del rinnovato rapporto tra il magistrato ed il tessuto sociale
nella cui trama egli si colloca. Tanto con riferimento
all'atteggiamento che, talvolta, i giudici avrebbero assunto, o
potrebbero assumere, presentando all'opinione pubblica l'immagine
di una giustizia parziale, fiancheggiatrice del potere politico, di
un partito politico o di un gruppo di potere, pubblico o
privato.



L'ipotesi concretizza evidentemente
una violazione del criterio costituzionale che, proprio per evitare
ogni forma di strumentalizzazione della giustizia, garantisce
l'indipendenza personale dei singoli giudici, soggetti
esclusivamente alla legge (art. 101), nonché quella della
magistratura nel suo complesso, descrivendola come "ordine autonomo
ed indipendente da ogni altro potere" (art. 104).



Dal combinato disposto delle norme
citate, si desume quindi che il costituente ha voluto escludere
ogni pericolo o sospetto di faziosità e di settarismo dei giudici,
sia nell'aspettativa di vantaggi personali o per il timore di
pregiudizio, sia in forza dell'interferenza di altri poteri dello
Stato nella funzione giudiziaria.



È alla luce di questi principi che
deve essere valutata la compatibilità tra la funzione del giudicare
e l'adesione a partiti politici, gruppi, associazioni.



La trasformazione del partito
politico da centro di diffusione ideologica a struttura associativa
caratterizzata da sempre più rigidi vincoli burocratici e
gerarchici, sovente finalizzata alla gestione del potere, rende
oggi assai più difficile di quanto non fosse all'epoca della
Costituente ammettere la possibilità che un giudice possa
conservarsi libero iscrivendosi ad un partito politico.



Si dovrebbe ammettere che il
giudice, nel momento in cui si iscrive, fosse non solo affatto
risoluto a non concedere assolutamente nulla al partito come tale,
nei casi in cui il partito ha un interesse, ma che anche i suoi
compagni di fede non si aspettassero assolutamente nulla da lui nel
momento in cui egli dovesse occuparsi di quei casi.



Parrebbe che, sul piano umano, ciò
sarebbe troppo pretendere. Che dire poi della possibilità per il
giudice di entrare a far parte di sette od associazioni che, se non
sono segrete, mantengono tuttavia il più stretto riserbo sui nomi
degli aderenti ed avvolgono nelle nebbie di una indistinta
filantropia. le proprie finalità e i propri obiettivi?



Se sono già serie le ragioni di
perplessità sulla adesione del giudice ad un partito politico,
queste ragioni appaiono centuplicate nella partecipazione ad
organizzazioni di fatto più o meno riservate o, comunque, non
facilmente accessibili al controllo dell'opinione pubblica, i cui
aderenti risultano fra loro legati da vincoli della cui intensità e
natura nessuno è in grado di giudicare e valutare.



Qui bisognerà proclamare, con
assoluta chiarezza, che la norma dell'art. 212 T.U.L.P.S., che
sancisce l'immediata destituzione per tutti gli impiegati pubblici
che appartengano ad associazioni i cui soci sono vincolati dal
segreto, si applica anche ai magistrati, che ne sono anzi,
logicamente, insieme ai militari, i destinatari più diretti.



Ciò non significa certo sopprimere
nell'uomo-giudice la possibilità di formarsi una propria coscienza
politica, di avere un proprio convincimento su quelli che sono i
temi fondamentali della nostra convivenza sociale: nessuno può
difatti contestare al giudice il diritto di ispirarsi, nella
valutazione dei fatti e nell'interpretazione di norme giuridiche, a
determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente
coincidere con quelli professati da gruppi od associazioni
politiche.

Essenziale è però che la decisione nasca da un processo
motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria
personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso
concreto; non come il portato della autocollocazione nell'area di
questo o di quel gruppo politico o sindacale, così da apparire come
in tutto od in parte dipendente da quella collocazione.



Piace qui riportare il VII canone
del codice di condotta adottato negli Stati Uniti per la disciplina
professionale dell'ordine giudiziario e forense e che testualmente
sancisce il dovere del giudice di "sottrarsi all'attività politica,
inadatta al suo ruolo", astenendosi in particolare dall' "assumere
mansioni di leader o dal rivestire qualunque altra carica in una
organizzazione politica", nonché dal "tenere pubblicamente discorsi
per un'organizzazione politica o per un suo esponente o
dall'appoggiare un candidato ad una carica pubblica".



Una previsione deontologica fatta
propria da una società storicamente, economicamente,
tecnologicamente più progredita della nostra, che costituisce, per
ciò, un conforto alla validità di quanto prima si è detto e che dà
l'ispirazione per trattare subito di un altro delicato aspetto:
quello del magistrato che, ad un certo punto della propria
carriera, si candida ad una elezione politica ed ottiene la
carica.



Si potrebbe osservare che su questo
non v'è nulla da eccepire: egli è un cittadino come tutti gli altri
ed in questo non farebbe che esercitare un suo diritto
costituzionalmente garantito. L'ordinamento, peraltro, prevede che
durante il periodo del mandato egli non svolga le sue funzioni
giudiziarie. Ma gravissimo è il problema che si pone allorquando
tale mandato, per una causa od un'altra, viene a cessare: infatti,
un parlamentare, anche quando si tenga rigorosamente nei limiti
della legalità, assume inevitabilmente un complesso di vincoli e di
obblighi verso gli organi del partito, contrae legami ed amicizie
che raramente prescindono (non per cattiva volontà o desiderio di
collusione, ma per necessità delle cose) dallo scambio di
reciproche e sia pur consentite cortesie, dall'assunzione di
impegni e obblighi che, appunto perché galantuomini, si è tenuti ad
onorare, si assoggetta infine ad un'abitudine di disciplina (nei
confronti delle varie gerarchie del partito e del gruppo
parlamentare) in contrasto con la libertà di giudizio e
l'indipendenza di decisione proprie del giudice, abitudine
difficile da lasciare, anche perché, tranne casi eccezionali,
l'abbandono del seggio parlamentare non rompe i vincoli di
gratitudine e non distrugge il legame fiduciario fra il singolo e
la struttura.



D'altronde, anche ammesso che il
magistrato-parlamentare sappia riacquisire per intero la propria
indipendenza dal partito, che ha rappresentato al più alto livello,
e spogliarsi di ogni animosità contro avversari politici che
possono averlo attaccato anche duramente, è inevitabile che
l'opinione pubblica, incline al sospetto e tutt'altro che propensa
a credere alla rescissione di simili vincoli, continui a
considerarlo adepto di quel partito, consorte o nemico di quegli
uomini politici e di quanto rappresentano.



Per inevitabile conseguenza,
l'utente della giustizia di uguale militanza politica riterrà, poco
importa se erroneamente, di avere valide aspettative ad una
decisione favorevole e ad un trattamento di riguardo, mentre chi lo
contrasta si crederà battuto in partenza ed addebiterà l'eventuale
sentenza sfavorevole non a propria responsabilità, ma agli obblighi
politici ed alla conseguente preordinata malafede del giudice,
costretto a dare comunque partita vinta al suo commilitone e
partitante.



Sarebbe quindi sommamente opportuno
che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni
elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio
in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza
l'ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta,
bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni
definitive dall'ordine giudiziario.



Nel trattare quanto appena detto,
si è fatto un rapido accenno a quella che è l'importanza del modo
col quale l'utente della giustizia guarda colui che gestisce tale
servizio; ciò ci dà il destro per trattare...



3. - L'ASPETTO DELLA C.D. "IMMAGINE
ESTERNA" DEL MAGISTRATO



Si è bene detto che il giudice,
oltre che essere deve anche apparire indipendente, per significare
che accanto ad un problema di sostanza, certo preminente, ve n'è un
altro, ineliminabile, di forma.



L'indipendenza del giudice,
infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante
libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di
sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza,
nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua
moralità, nella trasparenza della stia condotta anche fuori delle
mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle
sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue
amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari,
tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio
di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o
per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della
contaminazione ed il pericolo della interferenza; l'indipendenza
del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a
conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento
della sua attività.



Inevitabilmente, pertanto, è da
rigettare l'affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con
coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non
ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello
Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita
privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che
vuole.



Una tesi del genere è, nella sua
assolutezza, insostenibile.



Bisogna riconoscere che, quando
l'art. 18 della legge sulle guarentigie dice "che il magistrato non
deve tenere in ufficio e fuori una condotta che lo renda
immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve
godere", esprime un'esigenza reale.



La credibilità esterna della
magistratura nel suo insieme ed in ciascuno dei suoi componenti è
un valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di ieri.
"Un giudice", dice il canone II del già richiamato codice
professionale degli U.S.A. "deve in ogni circostanza comportarsi in
modo tale da promuovere la fiducia del pubblico nell'integrità e
nell'imparzialità dell'ordine giudiziario".



Occorre allora fare un'altra
distinzione tra ciò che attiene alla vita strettamente personale e
privata e ciò che riguarda la sua vita di relazione, i rapporti
coll'ambiente sociale nel quale egli vive.



Qui è importante che egli offra di
se stesso l'immagine non di una persona austera o severa o compresa
del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore
morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di
persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona
comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di
capire.

Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la
società può accettare che gli abbia sugli altri un potere così
grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere
che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che
il giudice potrà ricevere ed assumere come se fossero sue e
difendere davanti a chiunque. Solo se offre questo tipo di
disponibilità personale il cittadino potrà vincere la naturale
avversione a dover raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto;
potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato,
accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole.



Un giudice siffatto è quello voluto
dalla umanità di sempre, configurato in ogni ordinamento dello
Stato di diritto, esaltato nella Carta costituzionale. Sotto questo
aspetto, pertanto, può ben concludersi che non vi può essere
relazione alcuna fra l'immagine del magistrato e la società che
cambia, nel senso che la prima non dovrà subire modificazione
alcuna, quali che siano i capricci di costume della seconda: il
giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed
indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo
voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non
tradire il suo mandato.



4. - IL PROBLEMA DELLA
RESPONSABILITÀ DEL MAGISTRATO



Quanto si è fin qui detto conduce a
porre come argomento di chiusura l'interrogativo se il mutato
sentire sociale, se le trasformazioni intervenute nel costume del
nostro paese siano tali da imporre una nuova struttura della
responsabilità del magistrato, delle conseguenze cioè alle quali
quest'ultimo è suscettibile di andare incontro ove bene non
eserciti la sua funzione.



Il ventaglio dei problemi è
vastissimo, ma pare cosa più opportuna limitare il suggerimento,
quale argomento di discussione per chi ascolta, alla proposta di
introdurre la responsabilità civile per danni arrecati a terzi
nell'esercizio di attività giudiziaria per colpa grave.



Sul punto si può osservare come
contributo a tale discussione, che l'introduzione del principio
della responsabilità civile pare assolutamente inaccettabile per
molte ragioni, tutte difficilmente superabili.



Ogni atto giurisdizionale, anzi
ogni manifestazione di potestà giudiziaria, incide necessariamente
su diritti soggettivi; è per sua stessa natura idonea a produrre
danno. E ciò vale non solo per le manifestazioni tipiche di potestà
decisionale, ma anche per tutti quei provvedimenti che hanno
funzione preparatoria ed ordinatoria rispetto alla decisione finale
(concedere o non concedere un sequestro; ammettere o non ammettere
una prova; concedere o no la provvisoria esecuzione).



Non esiste, si può dire, atto del
giudice e più ancora del pubblico ministero che possa dirsi
indolore. Ogni giudice, quindi, nell'atto stesso in cui si
accingesse alla stipula di un qualsiasi provvedimento, non potrebbe
non domandarsi se per caso dal suo contenuto non gliene possa
derivare una causa per danni.



E sarebbe quindi inevitabile
ch'egli si studiasse, più che di fare un provvedimento giusto, di
fare un provvedimento innocuo.



Come possa dirsi ancora
indipendente un giudice che lavora soprattutto per uscire indenne
dalla propria attività, non è facile intendere. Né si dica che le
parti raramente ricorrerebbero a questa possibilità. La facilità
con cui, specialmente in certe regioni, si ricorre all'esposto
contro il giudice, anche per i più ingiustificati motivi, autorizza
la previsione che una riforma del genere aprirebbe subito un ampio
contenzioso.



Se qualcuno volesse obiettare che,
in fondo, la responsabilità è prevista solo per le ipotesi di colpa
grave, sarebbe facile rispondere che questa limitazione introduce
un elemento di aleatorietà in più, davvero insufficiente ad offrire
un criterio d'orientamento obiettivo. t difficile trovare dei casi
di colpa giudiziaria che non possano considerarsi gravi: la
motivazione stereotipa; l'omessa convalida della perquisizione in
flagranza; l'omesso esame di prove risultanti dagli atti; la
mancata motivazione su specifici capi delle domande ecc., sono
tutte mancanze gravi. La colpa del giudice, se c'è, è sempre grave
per definizione, data dall'importanza degli interessi sui quali
egli dispone.



L'altro effetto perverso, che
potrebbe essere indotto dalla riforma, sarebbe quello di indurre il
giudice al più rigido conformismo interpretativo: per cautelarsi
contro il pericolo di seccature, è semplice prevedere che il
giudice si guarderebbe bene dal tentare vie interpretative
inesplorate e percorrerebbe sempre la strada maestra fornita dalla
giurisprudenza maggioritaria della Cassazione; l'autorità del
precedente, che è vincolo professionale per il magistrato
anglosassone, diventerebbe per quello italiano fatto d'interesse
personale e l'art. 101 della Costituzione potrebbe essere riscritto
nel senso che i giudici sono soggetti soltanto alla Corte di
Cassazione.



Quando poi la controversia toccasse
affari od interessi di dimensioni eccezionali, ogni scelta
diverrebbe veramente paralizzante: si pensi alla decisione di un
tribunale fallimentare se far fallire o no un grosso complesso
industriale od una catena di società legata magari a centri di
potere politico.



Il giudice veramente verrebbe
consegnato nelle mani delle forze che si scontrano fra loro e
sarebbe difficile ch'egli non fosse tentato, se non è riuscito a
fuggire prima di dover scegliere, di secondare il più forte.



Ma gli effetti più devastanti di
una proposta del genere si avrebbero in materia penale,
specialmente nel momento dell'inizio dell'azione penale.



Se l'organo dell'accusa sa che le
sue iniziative investigative possono costargli, quando non ne
seguisse una condanna, una causa per danni, ci si può chiedere se
sarà mai più possibile trovare un pretore od un pubblico ministero
che di sua iniziativa intraprenda la persecuzione di quei reati che
per tradizione o per costume o per altro nel passato erano
raramente perseguiti. Dai reati societari all'urbanistica,
all'inquinamento ed in genere a tutti i reati che offendono
interessi diffusi.



Ci si può chiedere ancora se si
troverà un giudice che, in presenza di un reato che consente ma non
impone la cattura, avrà l'ardire di imprigionare, ad esempio, un
bancarottiere per qualche miliardo, quando rifletta alle
conseguenze che gliene potrebbero derivare se, per caso, costui
venisse assolto.



Questo è l'effetto perverso
fondamentale che può annidarsi nella proposta di responsabilizzare
civilmente il giudice: essa punisce l'azione e premia l'inazione,
l'inerzia, l'indifferenza professionale. Chi ne trarrebbe beneficio
sono proprio quelle categorie sociali che, avendo fino a pochi anni
or sono goduto dell'omertà di un sistema di ricerca e di denuncia
del reato che assicurava loro posizioni di netto privilegio,
recupererebbero attraverso questa indiretta ma ancor più pesante
forma di intimidazione del giudice la sostanziale garanzia della
propria impunità.



Tutto ciò che si è riusciti a
conquistare sul terreno di una più effettiva valenza del principio
dell'uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, verrebbe
vanificato di colpo e le condizioni della nostra giustizia penale
sarebbero retrocesse in un istante all'epoca dello Statuto
Albertino.



* * * *



Nel concludere, desidererei
formulare solo un'ultima considerazione. È certo che, tranne alcuni
aspetti immutabili, il ruolo del giudice non può sfuggire al
cammino della storia: tanto egli che il servizio da lui reso devono
essere partecipi di un processo di adeguamento. Ma di ciò non può
farsi carico solo ai giudici: non si può cioè chiedere che essi
traggano soltanto da se stessi la forza per questo adeguamento.



Tutto è più complesso in una
società moderna in materia di definizione e difesa dei bisogni,
degli interessi, dei diritti.

Nelle società primitive e, comunque, semplici, tutto era
relativamente chiaro in termini di "cosa era giusto e cosa era
ingiusto" e tutto era facile, relativamente, in termini di accesso
a chi amministrava giustizia (il capo tribù, il capo villaggio, il
capo religioso); oggi, nelle società a crescente complessità e
soggettività, come sono tutte le società occidentali mature, è
sempre più difficile sapere e far accettare i concetti di giusto ed
ingiusto ed è sempre più difficile individuare e rendere più
accessibili gli strumenti per ottenere giusta protezione.



In questa prospettiva, riformare la
giustizia, in senso soggettivo ed oggettivo, è compito non di pochi
magistrati, ma di tanti: dello Stato, dei soggetti collettivi,
della stessa opinione pubblica.



Recuperare infatti il diritto come
riferimento unitario della convivenza collettiva non può essere, in
una democrazia moderna, compito di una minoranza.



Rosario Livatino