Pietro Scaglione
(Palermo, 2 marzo 1906 - Palermo, 5 maggio1971)
Procuratore della Repubblica di Palermo, assassinato dalla
mafia.
Il dottor Pietro Scaglione viene
assassinato a Palermo il 5 maggio 1971. Il magistrato e l'autista
Antonio Lo Russo percorrono in auto via dei Cipressi quando vengono
affiancati da una Fiat 850 dalla quale alcuni killer esplodono due
raffiche di mitra. Scaglione e Lo Russo muoiono sul colpo. Il
magistrato come ogni mattina, anche quel tragico 5 maggio del 1971,
si era recato al cimitero dei Cappuccini per far visita alla tomba
della moglie Concetta scomparsa da qualche anno. Quelli erano gli
ultimi giorni di vita siciliana per Scaglione, che era già stato
destinato a ricoprire le funzioni di Procuratore Generale a
Lecce.
A oggi non sono noti i nomi dei
sicari né è stato pienamente acclarato il movente del vile
attentato. I collaboratori di giustizia hanno fornito elementi
utili alle indagini, ma essi si sono rivelati privi di sufficienti
riscontri.
Pietro Scaglione è il primo giudice
siciliano ucciso dalla mafia. Nell'editoriale del Corriere della
Sera pubblicato all'indomani dell'omicidio, Alberto Sensini scrive:
caso Scaglione segna un confine che non può essere oltrepassato, un
punto di non ritorno". La sorella del magistrato, Rosa, quando esce
dall'obitorio urla: "Hanno ucciso il Procuratore. In questo momento
ridono perché non li prenderanno mai".
Pietro Scaglione nasce a Palermo il
2 marzo del 1906; è figlio di un possidente agricolo. Si laurea
giovanissimo ed entra in magistratura nel 1928. Dopo essere stato
Vicepretore e Pretore, approda alla Procura di Palermo dove gli
vengono affidati i processi per la strage di Portella della
Ginestra del 1° maggio 1947. Nel febbraio del 1954, Gaspare
Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano, e condannato
all'ergastolo, chiede di parlare con un magistrato. È di turno
Scaglione. Pisciotta ricostruisce a lui i particolari e la dinamica
di quella strage. Il magistrato assicura che tornerà l'indomani con
un cancelliere. Ma l'indomani Pisciotta muore dopo aver bevuto un
caffè alla stricnina. Scaglione si occupa anche dell'assassinio del
sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso nel 1955, negli anni del
latifondismo e delle lotte contadine. Da Procuratore capo indaga
sulla strage di Ciaculli e con l'Ufficio Istruzione del Tribunale
di Palermo contribuisce a reprimere efficacemente la mafia, come
attesta anche la Relazione della Commissione parlamentare
antimafia. Scaglione si batte per la introduzione di nuove norme
antimafia di contrasto della criminalità organizzata e per il
soggiorno obbligato da infliggere ai mafiosi anche in mancanza di
diffida.
Le ricostruzioni operate in quegli
anni anche sui mezzi di informazione, sottolineano che, prima come
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di appello e poi
come Procuratore capo, Scaglione, fu un implacabile accusatore di
Luciano Liggio e di tutti gli affiliati alla cosca mafiosa di
Corleone dirigendo personalmente nel 1966, per la prima volta,
un'operazione di polizia, a livello internazionale, nei confronti
degli stessi. Fu poi convinto assertore che la mafia aveva origini
politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli
nelle pubbliche amministrazioni. È il tempo del cosiddetto braccio
di ferro tra il magistrato e i politici, il tempo in cui la "linea"
Scaglione portò ad una serie di procedimenti nei confronti di
amministratori comunali e di enti pubblici.
Vi furono tentativi di mafia
diretti a offuscare la figura del Procuratore. Come ricordò Paolo
Borsellino nel 1987, la mafia decise, a partire dall'omicidio di
Scaglione, "una campagna di eliminazione sistematica degli
investigatori che avevano intuito qualcosa. Le cosche sapevano che
erano isolate, che dietro di loro non c'era lo Stato e che la loro
morte avrebbe ritardato le scoperte. Isolati, uccisi, quegli uomini
furono persino calunniati. Accadde così per Scaglione...". Come è
stato scritto, a partire dall'omicidio del Procuratore Scaglione,
la "costante di ogni delitto eccellente" della mafia consisterà nel
fatto che "prima, oppure dopo il tritolo o il piombo, scatta sempre
un'opera di delegittimazione" volta a indebolire la figura della
personalità uccisa. L'uccisione del Procuratore Scaglione - come
scrisse a sua volta Giovanni Falcone - ebbe sicuramente "lo scopo
di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata
intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta
a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino".
Subito dopo l'uccisione di Pietro
Scaglione, i magistrati della Sicilia, riuniti in assemblea,
approvarono un documento che, anche sotto gli aspetti appena
indicati, è di grande importanza. Vi si legge: "I Magistrati del
Distretto di Palermo, con l'intervento dei magistrati degli altri
Distretti della Sicilia, riuniti in assemblea, profondamente
costernati per l'infame assassinio che ha turbato gravemente la
opinione nazionale;
dichiarano che la temeraria sfida
non attenuerà, né rallenterà l'opera di prevenzione e di
repressione della criminalità e del fenomeno mafioso; anzi
ribadiscono la decisa e ferma volontà di impegnare tutta la loro
abnegazione ed energia in questo difficile compito;
riaffermano che l'indipendenza
della Magistratura costituisce garanzia insostituibile per la
difesa dei fondamentali valori di libertà civile e di progresso
tutelati dalla Costituzione e che, quindi, ogni paternalistica
interferenza di altri Poteri non può che deprimere e svilire tali
valori;
chiedono ... che si rinunci al
metodo di risolvere i contrasti tra le varie componenti politiche
determinando, tra i Poteri dello Stato, il pericolo di assurdi
conflitti, dei quali l'unica beneficiaria è certamente la
criminalità organizzata;
esigono per la decisa
eliminazione del fenomeno mafioso ed anche nell'interesse della
libertà e dignità di ogni cittadino e di coloro, in particolare,
che sono preposti alla repressione della criminalità, che si
omettano giudizi superficiali, perché privi di ogni seria
documentazione, e che, insieme, cessi l'abitudine, da pane di
singoli componenti di Organi responsabili, di formulare opinioni
personali che sembrano impegnare quelle collegiali;
riaffermano con la massima
chiarezza che non intendono difendere alcun privilegio di casta e
che sono, quindi, pronti ad accettare, ove siano seri e fondati,
tutti i possibili rilievi su effettivi abusi o disfunzioni che gli
stessi Magistrati sapranno valutare con giusta severità".
(Testo tratto dalla pubblicazione del Csm "Nel loro
segno")