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LA MAGISTRATURA | Articolo Rivista
10 giugno 2014

Il sovraffollamento carcerario e gli obblighi europei: la scadenza del termine della sentenza Torreggiani. L'abolizione degli OPG

Abbiamo deciso di dedicare, alla scadenza del termine concesso all’Italia dalla ben nota sentenza Torreggiani, la parte della Rivista riservata al settore penale alla questione carceraria. Ci è sembrato che il tema della detenzione negli istituti di pena, così come quella parallela dell’internamento negli ospedali psichiatrici giudiziari (oggetto di un’importante riforma proprio recentemente rinviata di un ulteriore anno), meritasse il primo posto nell’agenda giudiziaria dei magistrati italiani, come peraltro è già nell’agenda politica del Parlamento e del Governo, dopo l’importante messaggio del Capo dello Stato dell’ottobre 2013 e gli interventi "tampone" adottati con lo strumento del decreto legge dai tre governi che si sono succeduti dal 2010, anno in cui il sovraffollamento ha raggiunto il suo massimo storico.
Del resto il carcere di oggi ci restituisce quotidianamente l’immagine di un sistema in cui i diritti si negano di frequente: diritti che, pur essendo formalmente riconosciuti dalla legge, in tempi di emergenza non trovano risposte giurisdizionali adeguate. Le carceri attuali, ridotte a nuovi contenitori del disagio ad opera di politiche che non intervengono sui problemi da cui quel disagio è prodotto e che anzi li negano con la semplificazione della pena, divengono l’approdo inevitabile di una condizione di mera sopravvivenza ma la Giustizia è orgogliosa del suo figlio legittimo, il processo, cui dedica e concentra ogni doverosa attenzione, mentre si vergogna del suo figlio illegittimo, il carcere, tende a nasconderlo affinché lo si intravveda appena. Ciò è avvenuto finché la CEDU, con la sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013, ha messo in mora lo Stato italiano e la questione carceraria è da mesi ormai ogni giorno in primo piano sugli organi di stampa, telegiornali, TV e nelle aule di giustizia.
Esiste tuttavia uno spazio giuridico, culturale e anche politico per discutere del ruolo e del valore delle prigioni, come hanno fatto i governi politici francese e norvegese, allo scopo di trasformarle dal luogo dell’umiliazione al luogo della costruzione di responsabilità, ma per fare questo bisogna una volta per tutte abbandonare l’idea di una pena rigida, frutto in gran parte dell’emanazione negli ultimi tempi di leggi repressive in tema di immigrazione clandestina, tossicodipendenza e recidiva, norme alimentate da una cultura che vede nella detenzione la risoluzione di tutti i problemi sociali e l’unica risposta agli allarmi securitari. Abbattere la recidiva agendo sulla rieducazione ha costi infinitamente meno elevati che costruire nuove carceri, peraltro in tempi lunghissimi (il famoso "piano-carceri" attende di fatto il completamento da oltre quattro anni), quando invece si è constatato che la diminuzione anche di un solo punto percentuale della recidiva corrisponde a un risparmio di circa 51 milioni di euro l’anno, l’equivalente di una "piccola" manovra finanziaria, come dichiarato dal vicecapo dell’Amministrazione Penitenziaria Luigi Pagano in risposta a un’interrogazione parlamentare del 23 ottobre 2013, a fronte di un costo dell’amministrazione penitenziaria che attualmente si attesta a quasi 3 miliardi di euro l’anno (peraltro assorbiti in gran parte dal mantenimento di circa 48.000 dipendenti).
Ma una parte consistente dei detenuti italiani è rappresentata dagli imputati in attesa di giudizio su cui si è significativamente inciso dapprima con i vari decreti "salva-carceri", Severino e Cancellieri (riducendo il fenomeno c.d. "delle porte girevoli"), e in seguito con la riforma della custodia cautelare, oggi all’esame del Parlamento. Lo sviluppo del tema cautelare non può non avere riflessi anche sul profilo provvedimentale che più ci riguarda da vicino, giacché l’adozione della misura impone inevitabilmente uno sviluppo motivazionale che risponda alla domanda e dia conto delle ragioni di accoglimento o di quelle di rigetto. Infine, gli OPG. La legge n. 9 del 2012 ha determinato la chiusura degli OPG e delle case di cura e custodia (di fatto però rinviata al 31 marzo 2015) ma non ha comportato la rimozione dal nostro ordinamento delle misure di sicurezza psichiatriche. Peraltro l’abolizione delle misure di sicurezza avrebbe richiesto l’elaborazione di un nuovo codice penale e tali condizioni non sembrano essersi verificate né è prevedibile si possano realizzare a breve. Ecco allora che l’attenzione si è tutta e solo concentrata sugli OPG puntando, con verosimili maggiori possibilità di successo, sulla loro definitiva cancellazione.
La cura della malattia mentale, com’è ormai dal 1980, non deve attuarsi se non eccezionalmente in condizioni di degenza ospedaliera ma la materia penale impone la regola aurea del bilanciamento tra le esigenze di controllo della pericolosità sociale e le esigenze di cura dell’infermo. La Corte Costituzionale aveva già posto le basi per l’attuale superamento della struttura segregante ove confinare obbligatoriamente l’infermo, anche quando la difesa della collettività possa essere assicurata da una misura più flessibile e inclusiva quale la libertà vigilata, e oggi la legge ha dato una grossa spallata all’istituto dell’internamento giudiziario che tuttavia rimane.
Ma c’è un tempo per distruggere e un tempo per costruire: distruggere senza un progetto di ricostruire, sanando gli errori passati e recuperando i traguardi falliti, può diventare un salto avventuroso nel buio: tutta l’attenzione di Governo e Regioni è stata rivolta alle nuove strutture speciali destinate a sostituire gli attuali OPG a scapito dello sforzo, che dovrebbe essere primario, di dare forza ed esigibilità alle misure di sicurezza alternative ovvero ai progetti di reinserimento familiari.
Del resto il tema della salute mentale, dentro e fuori i luoghi di segregazione, con tutti i suoi risvolti etici e culturali, è una grande questione che coinvolge l’affermazione di diritti inalienabili di cui tutti dobbiamo farci promotori.