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LA MAGISTRATURA | Articolo Rivista
24 luglio 2015

L’insostenibile illusorietà dei carichi esigibili. Il dibattito: i carichi esigibili e i livelli di servizio

Il dibattito: i carichi esigibili e i livelli di disservizio

La magistratura associata discute il tema degli insostenibili carichi di lavoro dei magistrati e ricerca soluzioni.
Una parte dell’associazionismo giudiziario, in particolare le associazioni “Magistratura Indipendente” e “Autonomia e Indipendenza”, ritiene che i carichi esigibili siano la riposta necessaria al continuo incremento di produttività richiesto ai magistrati civili e penali dai capi degli uffici giudiziari. Si assume che la fissazione da parte del Consiglio Superiore della Magistratura di una misura nazionale uniforme di assegnazione di fascicoli o di produttività per giudice e pubblico ministero consentirebbe al magistrato di dedicare al fascicolo un tempo sufficiente a confezionare una decisione o un provvedimento di qualità senza essere sopraffatto dall’ansia di produrre un risultato quantitativo incompatibile con i tempi fisiologici di studio e di trattazione dei fascicoli e senza essere angustiato dalla preoccupazione di essere sottoposto a un procedimento disciplinare o, peggio, a una possibile azione di risarcimento del danno per responsabilità civile. Si afferma che la determinazione del carico esigibile andrebbe a vantaggio del cittadino perché questi otterrebbe una decisione di qualità (è stato addirittura coniato l’acronimo LEAG che significa livello essenziale di assistenza giurisdizionale per il cittadino) e a vantaggio del servizio perché il Ministero della Giustizia, prendendo atto che il numero di procedimenti pendenti è incompatibile con la capacità dei magistrati di trattarli, sarebbe costretto a iniettare nuove risorse umane per far sì che ogni giudice o pubblico ministero sia messo nella condizione di lavorare al meglio.

Un’altra parte dell’associazionismo, in particolare “Area”, ha contrapposto ai carichi esigibili il concetto di livelli di servizio che implica la determinazione di carichi sostenibili a livello di singolo ufficio giudiziario, nell’ambito di una programmazione partecipata che riceva l’apporto di tutti coloro che operano nell’ufficio e con l’ufficio (ivi compresa l’avvocatura) e che fissi degli obbiettivi sostenibili di “servizio”, operando delle scelte trasparenti di priorità nel caso in cui le risorse disponibili non consentano una trattazione omogenea di tutti i fascicoli. Tale concetto presuppone che i procedimenti giudiziari abbiano un “peso” diverso, secondo i diritti coinvolti e l’anzianità di pendenza con precedenza assegnata alla tutela dei diritti fondamentali e ai procedimenti più anziani, e che ogni ufficio debba realisticamente fare i conti non solo con le risorse disponibili ma anche con la sua capacità di utilizzare tali risorse in modo effettivo con l’adozione di buone pratiche e modelli organizzativi virtuosi, al fine di realizzare il migliore “servizio” possibile per il cittadino.

I CARICHI ESIGIBILI. UNA RISPOSTA SBAGLIATA A PROBLEMI REALI
Le ricerca di carichi esigibili muove dalla considerazione dell’esistenza di condizioni di carichi di lavoro molto differenziate da ufficio ad ufficio e, nella media, di carichi di lavoro non sostenibili pur a fronte di un’elevata produttività media dei magistrati italiani.
La “non sostenibilità” dei carichi deve essere intesa come incapacità, per assenza di risorse, dell’ufficio giudiziario e del singolo magistrato di assicurare la ragionevole durata del processo, così come prescritto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla cosiddetta Legge Pinto che prevede tutele risarcitorie per il caso di violazione del diritto delle parti a un processo giusto di ragionevole durata.

I magistrati si lamentano che alcuni capi di uffici giudiziari impartiscano direttive di maggiore produttività nel tentativo di ridurre la durata del processo e di migliorare l’apparente performance dell’ufficio giudiziario, senza tenere conto dell’effettiva capacità dei magistrati di farvi fronte, oltretutto in presenza di una oramai ventennale progressiva riduzione del personale amministrativo, e che ciò determini un impoverimento della qualità del processo e delle decisioni.
Si tratta di doglianze in buona parte fondate alla luce dei dati statistici medi rilevati dalla Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia del Consiglio d’Europa (CEPEJ) ma anche dalla più completa analisi delle pendenze e dei flussi elaborata e pubblicata dal Ministero della Giustizia – Dipartimento Organizzazione Giudiziaria nell’ottobre 2014 quanto agli affari civili e nel dicembre 2014 per gli affari penali.
La comparazione dei dati aggregati – e comunicati dalle autorità nazionali – effettuata dalla CEPEJ evidenzia che dal 2008 al 2012 (rapporti del 2010, 2012, 2014) la produttività media individuale dei giudici italiani è stata tra le più elevate tra i 47 Paesi del Consiglio d’Europa (l’Italia si colloca ai primi due posti per penale e civile) e ciò a fronte di risorse umane progressivamente decrescenti; essa dimostra inoltre che, nonostante un clearence rate (rapporto tra definizioni e sopravvenienze) positiva o molto positiva, la durata media del processo (disposition time) resta tra le più lunghe tra i Paesi del Consiglio d’Europa. L’alta produttività dei magistrati italiani è poi confermata dall’analisi ministeriale, senonché l’elaborazione del 26 marzo 2015 effettuata da Roger Abravanel, Stefano Proverbio e Fabio Bartolomeo dei dati ministeriali relativi ai processi civili contenziosi (circa due milioni totali) mette in luce che l’alta produttività, rimasta stabile dal 2011 al 2013 (con clearance rate positiva per la riduzione delle sopravvenienze), ha un’incidenza modesta sugli effetti della Legge Pinto, perché al 31.12.2013 i processi ultra triennali in primo grado erano 590.000 e quelli di durata superiore ad 8 anni addirittura 70.000, con un numero complessivo di circa 700.000 procedimenti “a rischio Pinto”. La situazione è poi drammatica negli uffici superiori, Corti d’Appello e Corte di Cassazione, nei quali la durata media dei processi civili contenziosi è rispettivamente di 2 anni e 11 mesi (appello) e 3 anni e 4 mesi (Cassazione) a fronte di una durata media di 2 anni e 4 mesi dei tribunali di primo grado, con la conseguenza che la pendenza della stragrande maggioranza dei procedimenti civili dei gradi superiori determina la sistematica violazione della legge Pinto e dei diritti fondamentali delle parti. Le rilevazioni ministeriali al marzo 2015 indicano che dall’introduzione della legge Pinto lo Stato ha pagato risarcimenti per € 316 milioni e ha debiti per € 406 milioni: somme ingentissime che lo Stato avrebbe potuto investire in risorse per il funzionamento della giustizia.
I dati statistici medi sopra indicati non rendono però un’immagine completa del caso italiano, che è caratterizzato da enormi – e inaccettabili – squilibri tra uffici giudiziari e, in gran parte, da squilibri territoriali (Nord-Sud). Basti considerare che la durata media del processo civile contezioso ad Aosta è di 320 giorni mentre a Lamezia Terme di 2.036 giorni, con tutta la possibile varietà intermedia, a fronte di una media europea di 631 giorni e di 395 giorni di Germania e Francia.

Secondo i sostenitori dei “carichi esigibili” nazionali uniformi, la creazione del numero nazionale farebbe giustizia degli squilibri perché costringerebbe il governo a intervenire con risorse aggiuntive per far fronte al carico “non esigibile” e quindi per sanare le inaccettabili diversità tra Aosta e Lamezia Terme a vantaggio del cittadino di Lamezia Terme.

La fallacia della tesi risulta dagli stessi dati ministeriali che inducono considerazioni del tutto diverse (che qui si riportano per punti, non essendovi spazio per giustificarle) e cioè che:
a) l’effettività, qui intesa come capacità di risposta giudiziaria in tempi ragionevoli, è indipendente dalla quantità dei carichi (intesi come sopravvenienze dell’ufficio e del giudice): a mero titolo esemplificativo (e nella consapevolezza quindi dell’estrema sommarietà dell’affermazione che non indaga le cause) secondo i dati del Ministero nel 2013 le sopravvenienze civili per magistrato togato ad Aosta furono 968 contro le 580 di Lamezia Terme, mentre le definizioni furono 1.004 ad Aosta e 802 a Lamezia Terme.
b) L’ effettività della risposta giudiziaria non è inoltre una variabile dipendente dalla dimensione dell’ufficio: dall’analisi emerge che diversi uffici di piccole dimensioni con sopravvenienze per giudice nella media assicurano tempi di definizione di gran lunga inferiori alla media.
c) L’effettività della risposta giudiziaria è mediamente migliore negli uffici dell’Italia settentrionale, e ciò come detto senza che possa stabilirsi un collegamento diretto con organici e sopravvenienze e con la dimensione dell’ufficio, ma con significative eccezioni di uffici meridionali (Marsala e Termini Imerese) che hanno adottato modelli organizzativi virtuosi.

In altri termini, la qualità della risposta giudiziaria (di cui la durata è un aspetto rilevante ma non esaustivo) per il cittadino, di cui intendono farsi carico i sostenitori dei carichi esigibili, non dipende da numeri astratti ma, quantomeno in misura rilevante, dalle capacità concrete di organizzazione dell’ufficio.

Né si comprende come la determinazione di un numero uniforme nazionale “esigibile” di assegnazioni o definizioni possa migliorare lo stato delle cose e produrre benefici per l’utenza, essendo invece prevedibile la produzione dell’effetto opposto, quantomeno in termini di durata del processo, nel caso in cui tale numero si collochi – come appare ovvio nella proposta associativa – a un livello inferiore a quello medio. Non solo, è poi prevedibile che le ricadute negative colpirebbero con più forza gli uffici più inefficienti, aumentando la forbice rispetto a quelli virtuosi, perché la soddisfazione del parametro minimo astratto determinerebbe, nella stessa intenzione dei proponenti, una deresponsabilizzazione del livello locale (“ho fatto quello che dovevo, ora tocca al Ministero intervenire”).
Nemmeno si comprende come un numero uniforme nazionale possa porre il magistrato al riparo dai procedimenti disciplinari che non sono ancorati a dati sostanziali ma, purtroppo, al dato formalistico del ritardo nel deposito delle sentenze. Se dunque sono stati puniti, anche di recente, magistrati che hanno realizzato risultati di produttività di gran lunga superiori a quelli medi (per “definizione” superiori a quelli esigibili) e hanno così guadagnato una sostanziale riduzione della durata media del processo con beneficio per l’utenza, perché il carico esigibile dovrebbe essere un salvacondotto? Anzi, per il magistrato che non si adegui all’esigibile – e le buone ragioni sostanziali potrebbero essere diverse – si porrebbe un rischio ulteriore di conseguenze disciplinari o quantomeno di valutazione professionale non positiva sotto il profilo della “laboriosità”.

Con tali affermazioni non s’intende, però, sottovalutare l’assunto di partenza, per il quale il sistema giudiziario, nonostante ottimi e diffusi modelli organizzativi, soffre gravemente per le risorse umane insufficienti e mal distribuite; tale carenza di risorse è certamente una concausa, in certi casi determinante, dell’inefficienza della risposta giudiziaria.

I LIVELLI DEL SERVIZIO E I COMPITI DELL'AUTOGOVERNO
L’idea che si possa governare il sistema giudiziario facendo affidamento su numeri nazionali uniformi e che tali numeri nazionali debbano essere utilizzati per distribuire le risorse e ottenerne di nuove è un’idea astratta che non fa i conti non solo con la “scarsità delle risorse” (che non significa impossibilità di attribuzione di nuove risorse ma necessità di utilizzo efficiente delle risorse esistenti) ma soprattutto con la stessa realtà giudiziaria, che è composta di uffici diversissimi per: dimensione, organici teorici e organici effettivi di magistrati e di personale amministrativo, modelli organizzativi, capacità di attuazione di buone pratiche, esperienza dei magistrati togati e onorari, rapporti di collaborazione con il Foro e con gli enti locali,
natura e complessità del contenzioso civile e penale. Si tratta di variabili in parte ineliminabili perché dipendenti dal “territorio”, che compongono un sistema complesso qual è un ufficio giudiziario e che dovrebbero essere riportate ad unità nel contesto della programmazione dell’ufficio. Questo è il senso dei “carichi esigibili” recepiti dal legislatore nell’art. 37 della legge 111 del 2011 che affida ai capi degli uffici giudiziari, previa consultazione dell’ordine degli avvocati, il compito di determinare gli obiettivi di rendimento dell’ufficio, tenuto conto dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati individuati dai competenti organi di autogoverno, e l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti. Il legislatore, consapevole che solo all’interno dell’ufficio giudiziario esiste una conoscenza reale di carichi e risorse, affida dunque al presidente il compito di proporre una progettazione per obbiettivi di rendimento che tenga conto dei “carichi esigibili”, vale a dire: della natura del contenzioso, degli organici effettivi (e non di quelli teorici), della capacità e dell’esperienza di chi lavora nell’ufficio, dei risultati ottenuti in passato (medie storiche), dell’organizzazione e delle buone prassi (ad esempio ufficio per il processo) adottate o realizzabili. A fronte di risorse insufficienti a garantire una risposta di ragionevole durata e di fronte al diffusissimo rischio di prescrizione dei reati, il legislatore chiede inoltre al tribunale di dichiarare le priorità negli obbiettivi. Ne consegue che l’ufficio dovrebbe anche indicare nella programmazione, con sufficiente precisione, le risorse mancanti per assicurare l’effettività della risposta giudiziaria e farne richiesta.

Si tratta di un’impostazione organizzativa ispirata a trasparenza ed efficienza. La legge non conferisce però arbitrio ai presidenti dei tribunali nella fissazione degli standard di rendimento dell’ufficio, perché “i carichi esigibili” e le priorità debbono essere giustificati nel contesto della cornice di principi e criteri stabiliti dall’Autogoverno.
Chi scrive è, infatti, convinto che uno dei compiti principali dell’Autogoverno sia appunto quello si stabilire le cosiddette policies o criteri di politica giudiziaria necessari a restituire effettività al sistema giudiziario e alla tutela dei diritti, quali (con elencazione necessariamente sommaria e non esaustiva):

Tutto ciò presuppone che il Consiglio Superiore della Magistratura decentri ai Consigli Giudiziari l’amministrazione di migliaia di pratiche burocratiche e mantenga invece una funzione di guida e controllo sull’effettività del sistema giudiziario che finora è mancata (e i dati ministeriali stanno purtroppo a dimostrarlo).

LO STANDARD DI PRODUTTIVITA' NAZIONALE E LA DISTRIBUZIONE DELLE RISORSE DA PARTE DEL MINISTERO. PERCHE' I CARICHI ESIGIBILI SONO IRREALISTICI
L’organizzazione locale non è però sufficiente.
Gli squilibri del sistema giudiziario italiano, la distribuzione irrazionale dell’arretrato civile e penale, la pendenza di circa 700.000 cause civili a “rischio Pinto” e l’ineluttabile prescrizione di centinaia di migliaia di reati già identificati richiedono interventi centrali urgenti ed efficaci.


Tra questi, come detto, l’adozione delle policies da parte del CSM ma anche e soprattutto le decisioni, attese inutilmente da decenni, del Ministero della Giustizia per un’equilibrata distribuzione delle risorse umane (l’indispensabile riforma delle piante organiche che tenga conto delle sopravvenienze) e per l’assegnazione di nuove risorse ove necessario (quantomeno per far fronte all’arretrato e per restituire funzionalità agli uffici superiori) presuppongono, oltre che la conoscenza, la capacità di comparare situazioni diverse.

A tal fine l’adozione di standard nazionali di rendimento individuali e per ufficio sarebbe uno strumento molto utile per verificare la “credibilità” dei progetti organizzativi, per stabilire la fondatezza della richiesta di risorse provenienti dagli uffici e per fondare le decisioni ministeriali (con conseguente assunzione di responsabilità politica) sulla distribuzione delle risorse.
E tuttavia questo standard difficilmente potrà essere il “numero nazionale uniforme” ossia il carico esigibile perché, come si è cercato di chiarire, “il numero nazionale uniforme”, a causa dell’enorme varietà delle situazioni locali, non esiste; potrebbero invece esistere innumerevoli “carichi esigibili” diversi da ufficio a ufficio e che tengano conto: della dimensione dell’ufficio (dagli uffici “promiscui” a quelli specializzati), della misura dell’arretrato (che incide sulla capacità di gestione complessiva del ruolo), della materia (per restare al civile non solo le singole materie del civile contenzioso, ma anche i fallimenti, le procedure esecutive, la volontaria giurisdizione etc.), della complessità dei processi (si pensi ai processi di criminalità organizzata), dell’esperienza del singolo magistrato (sarebbe iniquo stabilire uno stesso carico per un giudice esperto e uno appena entrato in servizio), del livello di assistenza al giudice (il rapporto tra singolo giudice e personale amministrativo varia da ufficio a ufficio da 2 a 6!) e così via.

Inoltre, secondo le indicazioni della CEPEJ il processo d’individuazione di tali standard dovrebbe implicare un’analisi assai complessa che, attraverso il campionamento di uffici di diversa dimensione, porti a determinare il tempo necessario a definire una controversia per tipologie di controversie e dimensione degli uffici. Si dovrebbe contare: il tempo impiegato dal giudice, quello del cancelliere, quello del giudice onorario, quello dell’assistente del giudice (laddove esso esista) per tipologie di controversie e uffici. Inutile dire che ciò implicherebbe anni di analisi oltre che incertezza di risultati; mentre i gravissimi squilibri del sistema richiedono interventi immediati.

Tali interventi dovrebbero invece basarsi sull’elaborazione dei dati sugli uffici resi pubblici per la prima volta nel 2014 dal Ministero della Giustizia che così ha finalmente adempiuto la direttiva del Consiglio d’Europa per la quale l’informazione statistica deve essere pubblica e condivisa. Questi dati possono essere interpretati alla luce d’indicatori moderni (i principali sono proposti dalla CEPEJ, tra i quali la produttività reale) grazie all’elaborazione consentita dalla c.d. data warehouse che il Ministero ha condiviso con il CSM (e dovrebbe condividere anche con i singoli uffici). Si tratta d’informazioni preziose che, se utilizzate dal CSM per le decisioni di politica giudiziaria e dal Ministero per serie decisioni sulle risorse, potrebbero condurre in pochi anni, nel contesto di una responsabile programmazione locale, al riequilibrio del sistema, con beneficio per i magistrati ma soprattutto per i cittadini che attendono giustizia.