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LA MAGISTRATURA | Articolo Rivista
30 novembre 2016

Riforma costituzionale: un’occasione per correggere macroscopici anacronismi

Gli ambiti di disciplina toccati dalla legge di revisione costituzionale approvata nel corso dell’attuale legislatura sono molteplici. Tra questi l’assetto del bicameralismo, il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, gli istituti di democrazia diretta. Se si guarda alla riforma nel suo complesso non c’è però dubbio che essa sia ispirata a un disegno unitario, rispondente all’esigenza di aggiornare, razionalizzare e semplificare l’architettura istituzionale. Ciò senza mutare – è bene precisarlo – la forma di governo, che rimane parlamentare. 

La necessità di un adeguamento delle norme costituzionali relative all’organizzazione – che senza dubbio si è fatta negli ultimi anni più pressante in ragione dell’evidente mutamento del contesto sociale ed economico – era in realtà stata percepita già da moltissimo tempo. Anzi, se ci si riferisce alla conformazione del nostro Parlamento, si può ben dire che le ragioni alla base di un suo possibile superamento fossero persino presenti ad alcuni dei membri dell’Assemblea costituente. Proprio richiamando quella fase storica, Costantino Mortati ebbe infatti a ricordare (in un’intervista comparsa nel 1973 sulla Rivista Gli Stati), di aver segnalato la necessità di un Senato rappresentativo dei nuclei regionali, indispensabile “per dare una ragion d’essere a una seconda camera, che non sia, come avviene per l’attuale Senato, un inutile doppione della prima”.
È però a partire dagli anni Ottanta che l’obiettivo di trasformare in differenziato il nostro bicameralismo paritario entra nell’agenda politica. Inizia così un lungo percorso di elaborazione di riforme che seguono la direttrice indicata in un’intervista del 1984 da Nilde Iotti, per la quale occorreva procedere a una “una più rigida divisione dei compiti: ad una Camera prevalenti compiti legislativi, ad un’altra prevalenti compiti di controllo”. I lavori della commissione Bozzi, che erano stati avviati nel 1983, non riuscirono però a trovare uno sbocco condiviso e sulle riforme si tornò a lavorare solo nel decennio successivo con la Commissione De Mita-Iotti. Sulla revisione del Parlamento questa non riuscì a trovare un accordo, e in ogni caso anche quel progetto di riforma non vide la luce. Stessa sorte toccò al testo elaborato dal Comitato voluto dal primo Governo Berlusconi e presieduto dall’on. Speroni, che pure aveva suggerito la creazione di un modello di bicameralismo nel quale le due Camere si differenziassero per composizione e funzioni.
La commissione parlamentare per le riforme costituzionali presieduta dall’on. D’Alema concludeva i propri lavori elaborando, fra l’altro, una proposta di superamento del bicameralismo paritario. Ma come noto, nel giugno del 1998 i lavori della Commissione si arrestarono a causa del venir meno dell’accordo tra le forze politiche.
L’approvazione della l. cost. n. 1 del 1999 (che ha inciso sulla forma di governo regionale) e della l. cost. n. 3 del 2001 (che ha ampliato gli spazi di competenza legislativa regionale) ha reso ancora più chiara e urgente la trasformazione del Senato in una camera espressione delle autonomie regionali, come peraltro testimoniato anche da una norma transitoria che prevedeva l’istituzione di una Commissione parlamentare per le questioni regionali “sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione”. Nella XIV legislatura (2001-2006) fu così elaborato un ampio progetto di revisione costituzionale, che, fra l’altro, introduceva grandi differenze fra le due Camere: il Senato sarebbe stato il luogo rappresentativo dei territori, mentre la Camera dei deputati avrebbe mantenuto il rapporto di fiducia con il Governo e la maggior parte del potere legislativo. Tale progetto, come noto, fu però bocciato dai cittadini nel giugno 2006.
Nella successiva legislatura, durata soltanto 2 anni, vi su solo il tempo per elaborare una nuova bozza (la c.d. bozza Violante).
Come si può evincere da questo brevissimo excursus dei molteplici tentativi andati a vuoto di intervenire sul carattere “ripetitivo” del nostro bicameralismo, l’approvazione di questa riforma costituzionale da parte del Parlamento rappresenta un’importante occasione per realizzare un progetto al quale si lavora ormai da decenni, e dunque per correggere alcuni macroscopici anacronismi presenti nel testo costituzionale. Primo fra tutti, quello che vede le due Camere di cui si compone il Parlamento italiano svolgere le stesse funzioni, entrambe approvando le leggi, entrambe dando la fiducia al Governo. È questo uno dei fattori che hanno minato alla stabilità degli Esecutivi e che ha determinato l’estrema farraginosità e lentezza del procedimento legislativo. Una lentezza che ha indubbiamente concorso a spostare il baricentro della produzione normativa sul versante del Governo. Non a caso, e meritoriamente, la riforma interviene anche su questo aspetto, da una parte incrementando i limiti alla possibilità di adottare decreti legge, dall’altra introducendo lo strumento del disegno di legge governativa a data certa, che consentirà all’Esecutivo di richiedere che il Parlamento si pronunci in tempi brevi su progetti legislativi essenziali per il proprio programma politico.
Quanto all’assetto del bicameralismo, opportunamente la riforma differenzia ruolo, composizione e competenze di Camera e Senato. La prima, eletta a suffragio universale e diretto, rimarrà la sola Assemblea “politica” – da essa dipendendo le sorti dei governi – e la sola Assemblea “legislativa” – avendo in questo senso l’ultima parola. Fatta eccezione per alcune categorie di leggi elencate nell’art. 70, per le quali verrà ancora richiesto il procedimento bicamerale, normalmente spetterà infatti alla Camera dei deputati il compito di approvare in via definitiva gli atti legislativi, mentre il Senato potrà solo richiedere di esaminare le leggi e proporre modifiche che la Camera dei deputati sarà libera di accettare o di respingere.
Il Senato, che vedrà sensibilmente ridotto il numero dei propri componenti, si trasformerà invece in camera rappresentativa delle autonomie locali. Saranno i Consigli regionali ad eleggere – tra i consiglieri stessi e, per una parte minore, tra i sindaci – i nuovi senatori. Per effetto di una modifica intervenuta nel corso dei lavori parlamentari e che, lo si ricorderà, è stato il frutto di un difficile compromesso politico, non si tratterà però di un’elezione di secondo grado in senso stretto. Infatti, nel designare i componenti del Senato, i Consigli regionali saranno chiamati a basarsi sulle “scelte espresse dagli elettori”, secondo un meccanismo che non sarà semplice costruire e che è ancora da individuare.
Certamente positivo, comunque, che la seconda camera diventerà l’organo portatore degli interessi territoriali. Scelta tanto più giustificata dall'ulteriore circostanza che, al contempo, la legge costituzionale opera una riduzione delle competenze legislative spettanti alle Regioni. La riforma approvata nel 2001, infatti, aveva ecceduto in senso opposto demandando alle Regioni eccessivi spazi di intervento (anche su materie che evidentemente necessitano di una disciplina unitaria) e aveva aperto una stagione di alta “conflittualità” tra Stato e Regioni che ha chiamato inevitabilmente in causa la Corte costituzionale. La legge di riforma costituzionale opera una razionalizzazione della disciplina, sia riportando allo Stato la competenza a legiferare in alcuni importanti ambiti di intervento, sia tentando di ridurre i momenti di possibile sovrapposizione fra legge statale e legge regionale (allo scopo eliminando la categoria delle materie “concorrenti”).
Il ridimensionamento delle competenze legislative delle Regioni, però, non ne determinerà uno svilimento. E ciò proprio in ragione del fatto che esse troveranno finalmente rappresentanza in Parlamento. Il Senato sarà proprio chiamato a dare voce agli interessi e alle istanze degli enti territoriali, ancora una volta contribuendo in questo modo a ridurre i casi di potenziale contrasto tra Governo centrale e sedi decentrate.
Merita, infine, di essere sottolineato che la riforma costituzionale, a differenza di quanto da taluni sostenuto, non accentua affatto in modo eccessivo, o addirittura preoccupante per la tenuta del sistema democratico, i poteri del Governo. Come già detto, anzitutto, la forma di governo resta parlamentare. Con tutto quanto questo comporta sul versante dei rapporti tra Governo e Parlamento. In secondo luogo, gli organi di garanzia continueranno ad essere eletti con la necessaria partecipazione delle opposizioni, che anzi, per il Presidente della Repubblica, diventerà ancor più decisiva, stando alle nuove maggioranze richieste per eleggerlo. Ancora, il Parlamento, proprio perché finalmente articolato in due camere con competenze differenziate e che lavoreranno con maggior efficienza, non potrà che guadagnare in autorevolezza, e la Camera potrà finalmente riacquistare una posizione centrale nell’esercizio della funzione legislativa. Per parte sua il Senato si vedrà assegnati nuovi importanti poteri (si pensi a quelli concernenti l’attuazione legislativa e la valutazione delle attività della pubblica amministrazione) che ne faranno emergere anche il ruolo di controllo.
Infine, aspetto sul quale poco si insiste, a “controbilanciare” i poteri del Governo, che certamente la riforma mira a rendere più stabile, sono le norme che intervengono sugli istituti di democrazia diretta. La legge costituzionale introduce per la prima volta lo strumento del referendum propositivo, abbassa il quorum per la validità di quello abrogativo laddove i promotori riescano a raccogliere almeno 800.000 firme, obbliga il Parlamento a prendere in esame le proposte di legge popolari, fino ad oggi per lo più destinate invece a giacere nelle aule parlamentari. Si tratta di novità che, potenziando gli strumenti a disposizione dei cittadini per portare nelle sedi istituzionali la propria voce o addirittura per incidere direttamente sulla produzione legislativa, contribuiranno a dare equilibrio al nuovo sistema.