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LA MAGISTRATURA | Articolo Rivista
16 ottobre 2017

Magistratura e politica: il ruolo del giudice fra crisi della legge e nuovi diritti

Magistratura e politica. Tema quanto mai variegato e complesso e che induce una serie, altrettanto articolata, di considerazioni. Mi limiterò ad affrontarne solo alcune, quelle (a mio modo di vedere) più rilevanti.

Punto di partenza per una disamina di questo tipo è quello relativo al ruolo del Giudice nella società di oggi, una società in continua evoluzione, “liquida” direbbe Baumann. Un ruolo che, ovviamente, risulta scolpito nella Costituzione, secondo la quale la funzione giurisdizionale, rispetto alle altre funzioni statuali, si connota per la sua assoluta indipendenza ed autonomia, tanto che un illustre giurista, Luigi Montesano, ne ipotizzò addirittura la collocazione al di fuori dello Stato-Apparato, identificandola con lo stesso Ordinamento giuridico nella sua universalità; col rischio, peraltro, paventato da altra autorevole dottrina (Mortati), di dare spazio ad un pericoloso assolutismo giudiziario.

Le norme sulla Magistratura, scritte dal Piero Calamandrei, colpiscono per la secchezza e lapidarietà dei principi che contengono: “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti solo alla legge” (art. 101); “La Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104); “I magistrati sono inamovibili [e] si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”.

Ci si muove nell’ambito della classica teoria della separazione dei poteri, la quale, peraltro, nella formulazione risalente al barone di Montesquieu, assegnava al potere giurisdizionale una posizione in un certo senso subalterna rispetto agli altri due poteri (legislativo ed esecutivo), considerando il giudice come mera “bouche de la loi”, semplice esecutore del comando contenuto nella legge (ma si era nel ‘700).

Tuttavia, col passare degli anni e grazie all’elaborazione della dottrina giuspubblicistica più avveduta, questa impostazione e apparsa eccessivamente schematica e non del tutto adatta a rappresentare la complessità del modo in cui il diritto si rapporta alla concreta realtà delle società moderne, la cui dinamica risulta oggi particolarmente fluida per essere incasellata in una specifica disposizione di legge. Così, già dalla seconda metà del secolo scorso, in seguito all’attuazione, da parte del Legislatore, di alcuni principi costituzionali (legge sulla Consulta, istituzione del C.S.M.) e ad una nuova e più matura consapevolezza della magistratura (soprattutto quella pretorile), si è ricusata l’idea di una giurisdizione eminentemente formalistica, “indifferente al contenuto ed all’incidenza concreta nella vita del Paese”, e si è affermata, al contrario, una figura del Giudice ”consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione” (mozione finale del Congresso ANM di Gardone - 1965). La conseguenza è stata la possibilità, fino a quel momento denegata, per il Giudice di applicare direttamente le norme della Costituzione, interpretare le legge in conformità alla Costituzione (c.d. lettura costituzionalmente orientata) e rinviare all’esame della Corte Costituzionale quelle reputate non conformi al dettato costituzionale.

Questo fenomeno ha determinato – o, quanto meno, accentuato – una progressiva marginalizzazione della Legge1 e, contestualmente, una sempre maggiore rilevanza delle “Corti” (nazionali e sovranazionali), oltre che degli stessi giudici. Un settore nel quale questo fenomeno è particolarmente accentuato è quello della bioetica (rectius: biodiritto), in cui è più elevato il rischio di cortocircuito fra Legge e Giustizia, perché più intensa la corsa, da parte dei cittadini, al riconoscimento di quelli che sono stati definiti “nuovi diritti”2: si pensi alle pronunce nei casi Welby ed Englaro o a quelle, recentissime, in materia di adozione da parte di coppie omosessuali (c.d. “stepchild adoption”).

Tutto ciò ha indotto qualcuno a parlare di “totalitarismo giudiziario”. In particolare Pierluigi Battista, sulle colonne del Corriere della Sera, ha stigmatizzato la tendenza, a suo dire sempre più diffusa, che nelle democrazie occidentali spingerebbe le magistrature a debordare dai propri compiti di stretta applicazione del diritto e a statuire su ogni aspetto della vita, così ponendo in atto una sorta di “giuridicizzazione radicale e totale dei rapporti sociali, politici, economici, antropologici in cui si dibatte l’umanità” (il riferimento, per quanto riguarda l’Italia, è proprio alle sentenze in materia di stepchild adoption o di eutanasia e alle pronunce della Corte Costituzionale, ultima quella sulla legge elettorale).

Si tratta, in definitiva, del tema (trito e ritrito) della c.d. supplenza giudiziaria.

Ora, affermare che in uno Stato di diritto ciascuno dei Poteri debba attendere a quelli che sono i suoi compiti, senza ingiustificate invasioni di campo, mi pare una palese ovvietà, ma altrettanto ovvio è che un Potere che abdichi al proprio ruolo, produce necessariamente un vulnus nell’assetto istituzionale. Lecito chiedersi, allora: la causa del c.d. “totalitarismo giudiziario” consiste davvero nel fatto che siano i giudici ad esorbitare arbitrariamente dai propri compiti o non, invece, nel fatto che sia la Politica ad aver abdicato ai propri. Per stare all’esempio riportato da Battista: chi ha impedito alla Politica di darsi per tempo una legge elettorale conforme a Costituzione o di legiferare nella delicatissima materia della stepchild adoption, o, ancora, di approvare la legge sul c.d. “testamento biologico” di cui si discute da anni (lasciando, invece, la patata bollente nelle mani dei giudici, salvo dolersi, poi, delle relative decisioni)? Si può parlare (in termini evidentemente negativi) di “supplenza” dei giudici se è la Politica ad abdicare al proprio ruolo-guida, considerato che poi, alla fine di tutto, ai cittadini che chiedono giustizia, che rivendicano “nuovi diritti”, una risposta bisognerà pur darla e ci dovrà sempre essere qualcuno che si assuma il peso della decisione finale (“Ci sarà un giudice a Berlino?”, si chiedeva il mugnaio di Potsdam)? Piaccia o non piaccia, in uno Stato di diritto l’applicazione e l’interpretazione della legge competono al potere giudiziario. E si tratta di una funzione insostituibile (lo ricordava già sant’Agostino, che individuava proprio nella Giustizia l’elemento discretivo fra lo Stato e una banda di pirati). Recentemente (Corriere della Sera dell’11.8.17) il prof. Luca Enriques ha espresso una dura reprimenda - l’ennesima - contro i giudici italiani in riferimento al rapporto fra iniziativa economica e diritto, invocando, addirittura, una riforma della cultura giuridica italiana. Secondo Enriques “le ragioni dello sviluppo economico” non avrebbero “alcuna influenza sul sistema di valori che, implicitamente o esplicitamente, è alla base delle sentenze”. “La lettera della norma non conta: tanto è scritta male” – scrive l’articolista – “ma è un circolo vizioso: perché Parlamento e Governo dovrebbero sforzarsi di scrivere bene le norme, se poi i giudici hanno enormi margini per re-interpretarle a proprio piacimento”? Da qui la denuncia contro i magistrati italiani, che si riterrebbero detentori di un “potere assoluto”.

Ora, che esista la necessità che la decisione del Giudice risulti il più possibile “prevedibile” è qualcosa di cui i magistrati per primi sono pienamente consapevoli. Ma, ribadito che la risposta del giudice alla domanda di giustizia deve corrispondere ai parametri derivanti dalla legge e dalla Costituzione, è agevole rilevare come non esistano “formule magiche” (Edmondo Bruti Liberati sul Corriere della Sera) per risolvere il problema; un problema che non è solo italiano, ma investe l’amministrazione della Giustizia in tutti i Paesi del mondo occidentale, compresi quelli di “common law”.

Peraltro, non va dimenticato il contesto in cui il Giudice (italiano) è chiamato ad operare: non c’è solo il problema delle leggi scritte male (per restare ad Enriques), ma anche quello della lievitazione delle fonti normative, primarie e secondarie, cui vanno ad aggiungersi le norme sovranazionali e le pronunce della C.E.D.U., la cui incidenza sul sistema giustizia appare sempre più dirompente: un vero e proprio “labirinto giudiziario”3 , un tessuto normativo molto più disarmonico rispetto al passato che ha finito con l’avvicinare sempre più la funzione dell’interprete a quella del Legislatore (tanto che è invalsa l’espressione “diritto vivente”, a sottolineare come “la norma giuridica viva nella sua concreta applicazione e perciò si modelli sull’interpretazione che ne viene data”).

Allora la risposta non può essere quella – generica e, per vero, semplicistica - di un mutamento della cultura giuridica italiana (la quale, invece, deve restare saldamente ancorata ai valori e ai principi contenuti nella Costituzione, compreso quello che vuole che l’iniziativa economica non possa svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale”), ma, oltre alla (ovvia) professionalità dell’interprete, alla sua capacità di ascolto, alla collegialità delle decisioni più importanti, la risposta deve risiedere nella ricerca, da parte della giurisprudenza, di alcune “isole di stabilità” (così Giovanni Canzio in un intervento presso l’Università del Salento), quali quelle costituite dall’interpretazione nomofilattica della Cassazione (specie se a Sezioni Unite), che fanno sì che non resti un mito il principio della certezza del diritto, fermo restando che il nostro resta, comunque, un ordinamento di “civil law”.

Va da sé, poi, che il potere del giudice, “soggetto solo alla legge”, debba essere raccordato al principio di responsabilità. Una responsabilità che va ben al di là di quella penale o disciplinare, pur importante, perché afferisce all’habitus mentale di chi è chiamato a decidere, che deve essere ed apparire terzo rispetto alle parti, consapevole che proprio sulla sua terzietà si fonda, in definitiva, il suo compito di rendere giustizia. Lo affermava già Piero Calamandrei4 , per il quale non costituivano pericolo la “rara corruzione penale” o le “simpatie politiche”, solitamente assenti o ininfluenti. Esiziale, invece, era – ed è – un altro pericolo, che non viene da fuori e che, perciò, è ancora più subdolo.

Si tratta del “lento esaurirsi delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante, perché non turba il quieto vivere e perché l’intransigenza costa troppa fatica”. La peggiore sciagura che può capitare a un magistrato – concludeva Calamandrei – “è quella di ammalarsi del terribile morbo dei burocrati che si chiama conformismo. È … il terrore della propria indipendenza, una specie di ossessione, che non attende raccomandazioni esterne, ma le previene”.

Nulla di più vero. Peccato, però, che tanti magistrati che nella loro vita professionale hanno mostrato di non avere contratto il “morbo dei burocrati”, siano stati poi, forse proprio per questo, tacciati di “protagonismo”.

1 “La crisi della Legge ha attraversato tutto il Novecento e rappresenta un topos della letteratura scientifica giusfilosofica”: cosi Attilio Pisanò in “crisi della legge e litigation strategy” – 2017 Giuffrè
2 “Pisanò: “Crisi della legge e ltigation strategy” cit.
3 Vittorio Manes “Il giudice nel Labirinto” – ediz. Dike 2012
4 Piero Calamandrei: “Elogio dei giudici scritto da un avvocato” – Ediz.Ponte alle grazie