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ORGANI ANM | Documenti ufficiali
18 novembre 2017

Osservazioni allo schema di decreto legislativo recante disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione, in attuazione della delega contenuta nella legge n. 103 del 2017, recante modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario.

Premessa

Lo schema di decreto legislativo muove dalla consapevolezza della funzione delle impugnazioni quale snodo centrale del funzionamento e della durata del processo.
La bozza di decreto delegato non fornisce alcuna risposta alla più grave criticità dell’odierno sistema delle impugnazioni: il loro abnorme numero determina gravosissimi carichi di lavoro delle Corti d’Appello Penali e fa sì che la più parte dei processi si prescriva dopo la sentenza di primo grado.
Le cause di tale fenomeno sono:

In assenza dei predetti interventi (abolizione del divieto della reformatio in peius; inappellabilità di talune sentenze; cessazione del corso della prescrizione dopo la sentenza di condanna in primo grado) lo schema di decreto legislativo non solo non conseguirà il prefissato scopo di realizzare la deflazione delle impugnazioni ma determinerà anche un evidente squilibrio tra le parti processuali.
Tale squilibrio deriva anche dalla già avvenuta reintroduzione del concordato in appello, dalla abolizione dell’appello incidentale da parte del Pubblico Ministero, dal divieto di appello sulla sola pena da parte del Pubblico Ministero.

Tanto premesso, quanto allo specifico articolato si osserva che:
1. La durata dell’esposizione dei motivi di impugnazione.
Sotto il profilo del metodo, si assiste a interventi mirati soprattutto alla fase dell’introduzione dell’impugnazione, ma si trascura un aspetto che, apparentemente secondario, ha notevoli ripercussioni sui tempi di definizione processuale e riguarda la trattazione dell’impugnazione.
Ci si riferisce alle modalità di esposizione dei motivi di impugnazione, soprattutto in appello: la mancanza di una puntuale disciplina in materia può determinare discussioni prolisse e ripetitive la cui somma (soprattutto nei cd maxi processi e, segnatamente, in quelli in materia di criminalità organizzata) determina lungaggini nella trattazione, del tutto ingiustificate alla luce della cartolarità dell’impugnazione e della impossibilità di esporre motivi nuovi rispetto a quelli contenuti nell’atto scritto.
Tanto è ancor più grave in processi con detenuti e con l’incombente scadenza dei termini di durata della misura cautelare.
Diventa auspicabile, perciò, una norma che indichi i tempi di tale esposizione, prevedendosi espressamente che la stessa sia sintetica ovvero attribuendo al Presidente del Collegio o al giudice dell’appello specifici poteri di regolamentazione.

2. L’Impugnazione del procuratore generale.
I poteri di impugnazione del procuratore generale vengono disciplinati dagli artt. 428 (per l’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere), 570 (impugnazione del pubblico ministero) e 593 bis comma 2 (appello del pubblico ministero).
La formulazione dell’art. 428 comma 1, proposta nel decreto legislativo, dispone: “Contro la sentenza di non luogo a procedere possono proporre appello: a) il procuratore della Repubblica e il procuratore generale nei casi di cui all’art. 593 bis comma 2”.
L’art. 593 bis comma 2, a sua volta proposto nello schema di decreto legislativo in esame, dispone: “Il procuratore generale presso la corte d’appello può appellare soltanto nei casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento”.
La lettura complessiva del sistema che scaturisce dalla combinazione di tali norme comporta che il procuratore generale venga privato del potere autonomo di appellare le sentenze di primo grado, così come previsto nel sistema attualmente vigente.
Nell’articolato normativo proposto dallo schema in esame, infatti, il procuratore generale può proporre appello (art. 593 bis) e/o impugnare le sentenze di non luogo a procedere del giudice per le indagini preliminari (art. 428) soltanto in caso di avocazione o qualora vi sia stata acquiescenza del procuratore della Repubblica.
Il potere autonomo di impugnazione del procuratore generale, viene così degradato a una funzione sostitutiva e residuale, subordinata alla previa avocazione ovvero al compimento di atti incompatibili con la volontà di impugnare (acquiescenza) del procuratore della Repubblica.
Un sistema siffatto, oltre ad avere ripercussioni sui tempi dell’impugnazione e, inevitabilmente, sulla durata del processo, rende più problematica quella funzione di controllo successivo dell’attività giurisdizionale svolta nel distretto dalla Procura generale.
L’attenzione del procuratore generale, infatti, con tale trasformazione, viene principalmente indirizzata a controllare previamente l’attività del procuratore della Repubblica, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per l’avocazione o la sussistenza di atti di acquiescenza.
Ciò comporterebbe ricadute anche su un esercizio omogeneo della giurisdizione in ambito distrettuale.
Si ritiene, perciò, che la conservazione dell’attuale sistema, in cui il procuratore generale ha un potere autonomo di impugnazione, sia preferibile a quello proposto nello schema di decreto legislativo.

3. I Limiti all’appello.
Lo schema di decreto legislativo incide soprattutto con riguardo all’appello, limitandone il relativo esercizio con gli artt. 428 comma 3 quater (impugnazione delle sentenze di non luogo a procedere), 468 comma 4 bis (regole generali delle impugnazioni), 493 bis (appello del pubblico ministero), 593 (casi di appello), 593 bis (appello del pubblico ministero), 595 comma 3 (appello incidentale).
L’articolato ora richiamato intende restringere l’area dei provvedimenti assoggettabili a gravame attraverso la limitazione del potere di impugnazione da parte del Pubblico Ministero, meccanismo questo rispetto al quale si esprime giudizio negativo per i motivi espressi in premessa.
Non adeguato, perché insufficiente, il tentativo di limitare gli appelli portatori di interessi sostanziali, mancanti o di scarsa rilevanza.

3.1. limiti all’appello del pubblico ministero.
3.1.1. Limiti all’appello del procuratore generale.
Il tema è già stato trattato.

3.1.2. Le sentenze di condanna.
L’art. 593 comma 1 prevede l’impugnazione del pubblico ministero avverso le sentenze di condanna soltanto qualora modifichino il titolo di reato o escludano la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscano una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.
In virtù di tale non condivisibile modifica, la sentenza di condanna non potrà essere appellata dal PM all’esclusivo fine di incidere sull’entità della pena.
In tal modo la riforma non consentirà alla parte pubblica di richiedere – nell’interesse della collettività – l’applicazione di una pena che sia adeguata al disvalore del fatto.
Sul punto la riforma viola, inoltre, il principio di parità tra le parti.

3.1.3. Le sentenze di proscioglimento.
L’art. 593 comma 3 stabilisce l’inappellabilità, a opera del pubblico ministero, delle sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa.
La norma si riferisce, all’evidenza, a ipotesi di reato di scarso allarme sociale.
L’eliminazione di un grado di giudizio (giacché permane la loro ricorribilità per Cassazione) ha un’evidente funzione deflattiva e di accelerazione del processo, con scarsissimo sacrificio degli interessi sottesi.
La norma rende simmetrico il sistema dell’appello, atteso che già per l’imputato era prevista (e viene confermata) l’inappellabilità delle sentenze di condanna per le quali è stata applicata la pena dell’ammenda.
Si esprime, pertanto, un giudizio favorevole.
Tale previsione potrebbe essere utilmente estesa, per tutte le parti, alle sentenze di condanna alla pena della sola multa.

3.1.4. Limiti all’appello del pubblico ministero per conseguire effetti favorevoli all’imputato.
L’art. 568 comma 4 bis dispone che il pubblico ministero non può proporre appello per conseguire effetti favorevoli all’imputato. Gli è consentito, comunque, il ricorso per Cassazione.
La norma rimarca una posizione antagonista del pubblico ministero, rispetto all’imputato, che non è quella propria del nostro sistema costituzionale, ove il PM ha una funzione di garante della legalità penale, anche a favore dell’imputato.

3.2. Limiti all’appello dell’imputato.

3.2.1. Le sentenze di proscioglimento
È da valutare positivamente l’inappellabilità, a opera dell’imputato, delle sentenze di proscioglimento emesse al termine del dibattimento con la formula “perché il fatto non sussiste” e “per non aver commesso il fatto” (art. 593 comma 2).
Entrambe le formule terminative, invero, sono di portata amplissima e del tutto omologhe, escludendo ogni possibile responsabilità dell’imputato per il fatto.
E’ auspicabile che la norma possa avere anche portata più ampia: essa, infatti, limita detta inappellabilità soltanto alle sentenze emesse in dibattimento, con ciò escludendo quelle emesse a seguito di rito abbreviato.
Sarebbe opportuno l’ampliamento della limitazione in esame anche alle suddette sentenze di proscioglimento, all’esito non solo del dibattimento ma anche del processo celebrato con le forme del rito abbreviato.

4. L’appello incidentale
L’art. 595, nella formulazione in esame, riconosce solo all’imputato la possibilità di proporre appello incidentale.
La norma non può essere condivisa.
Invero, la disposizione che esclude la possibilità di appello incidentale a opera del pubblico ministero determinerà l’effetto oggettivo di far proliferare impugnazioni meramente strumentali a far maturare i termini di prescrizione.
Infatti, l’assenza dell’impugnazione incidentale proposta dal PM impedisce un controbilanciamento di eventuali tesi puramente dilatorie.

5. Il ricorso per Cassazione
5.1. L’art. 606 comma 2 bis dispone che avverso le sentenze di appello e contro le sentenze inappellabili per reati di competenza del giudice di pace, il ricorso può essere proposto soltanto nelle ipotesi di cui all’art. 606 comma 1, lettere a), b) e c).
La norma si inscrive tra quelle che limitano la possibilità di impugnare quando l’interesse sotteso sia di portata limitata, con la conseguenza che la piena sperimentabilità del mezzo si mostrerebbe sproporzionato rispetto al risultato.
La norma va, dunque, accolta con favore.

5.2. L’art. 165 bis delle norme di attuazione (adempimenti connessi alla trasmissione degli atti al giudice dell’impugnazione) prevede la predisposizione di alcuni allegati a cura del giudice o Presidente del collegio che ha emesso il provvedimento impugnato.
La norma ha l’evidente scopo di rendere più semplice il reperimento e la lettura di informazioni fondamentali per il regolare e rapido svolgimento del giudizio.
Si rappresenta, tuttavia, che i dati indicati alle lettere a) (i nominativi dei difensori di fiducia o d’ufficio, con indicazione della data della nomina) e b) (le dichiarazioni o elezioni o determinazioni di domicilio, con indicazione delle relative date), sono di arduo reperimento da parte dell’Ufficio, soprattutto con riguardo ai cd. maxi processi con centinaia di imputati e innumerevoli faldoni. Ciò rallenterebbe ulteriormente la trasmissione materiale dei fascicoli al grado successivo, così aggravando la stasi tra i gradi di giudizio.
Sarebbe perciò auspicabile porre a carico della parte che impugna la predisposizione di un allegato in cui siano indicati i dati suindicati e la relativa documentazione.
Tanto consentirebbe alla cancelleria del giudice dell’impugnazione di conoscere esattamente il nominativo del difensore e l’elezione di domicilio dell’imputato, aggiornato al momento dell’impugnazione, con conseguente eliminazione del fenomeno del difetto di notifica presso il difensore o il domicilio revocato.

Approvato all’unanimità dal Comitato Direttivo Centrale