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AREA GENERALE | Interviste
25 luglio 2021

"I magistrati difendono la giustizia. Legittimo criticare la prescrizione"

Il presidente dell'ANM Giuseppe Santalucia intervistato da "La Stampa"

I magistrati italiani sono davvero in allarme. La riforma Cartabia nella parte della prescrizione processuale, ora chiamata «improcedibilità», non li convince perché la trovano poco aderente alla realtà degli uffici giudiziari. Temono che porterà a una ecatombe di procedimenti se non faranno i necessari correttivi. E Giuseppe Santalucia, il presidente dell'associazione nazionale magistrati, pur con toni dialoganti, non fa sconti: «Se resta così come è, non è una previsione ragionevole né sostenibile». Perché il timore dei magistrati è che un gran numero di procedimenti finirà nel nulla. E in loro prevale il pessimismo di chi vede nella giustizia una macchina ancora in forte difficoltà, non l'ottimismo di chi immagina una ripartenza a razzo nonostante la coda della pandemia. 

Santalucia, partiamo dall'accusa politica che vi fanno: non volete le riforme per partito preso. Dice anzi Luciano Violante che l'ondata dei vostri no «rischia di aggravare la crisi di legittimazione della magistratura». Che cosa risponde?
«In questo caso più che mai, noi abbiamo detto che la magistratura auspica le riforme e che non siamo certo contro la velocizzazione dei processi. Ci mancherebbe. Però non possiamo non vedere che la riforma del governo, intendo la parte sulla improcedibilità, non è realistica. Non tiene conto della cruda realtà dei nostri uffici giudiziari. Non basta scrivere sulla carta che i processi di appello vanno celebrati entro due anni. Non ci si può riuscire se le principali corti d'appello d'Italia sono sommerse di arretratto e largamente in ritardo su questa tabella di marcia».

Tutto sbagliato allora?
«No, non tutto. Ma ci rammarichiamo che alcune buone idee della commissione Lattanzi siano rimaste nel cassetto. Sempre per restare al processo d'appello, aveva un senso l'idea di cambiarlo. Per dirla semplicemente, si pensava di passare da una critica libera (come è) a una critica vincolata, ovvero il ricorrente avrebbe potuto dolersi per un catalogo di vizi predeterminato dalla legge, e i giudizi dell'appello si sarebbero limitati a esaminare quelli. Invece il processo d'appello spesso è una repetizione tendenzialmente completa del primo grado. Ma così non se ne esce. Perché le corti di appello, come sono strutturate in Italia, rappresentano una inevitabile strozzatura. Si pensi che a fronte di 140 tribunali, le corti di appello sono 26. Immaginatele come corsi di un'autostrada: c'è molto traffico; ovviamente, al restringimento si forma la coda».

Lei conosce bene l'obiezione. Con quel tipo di processo d'appello, si ledono i diritti della difesa.
«Non era così per l'illustre commissione Lattanzi. Non lo è per me. Visto che il primo grado è totalmente libero, nessun diritto viene leso se l'appello non è la sua replica».

Dice il governo: le cose comunque cambieranno perché stiamo per investire i miliardi Ue. Arriveranno strutture, personale, computer. 
Ne siamo lieti, finalmente una riforma che non è a costo zero. Sono decenni che la giustizia è considerata una cenerentola. È per colpa dei tagli che ci sono vuoti paurosi nell'organico. Si pensi che per vent'anni, fino alla stagione dell'ex ministro Andrea Orlando, non si era più assunto un cancelliere. Ma c'è un ma. Tutti questi investimenti sono annunciati, non realizzati».

Infatti un'ipotesi a cui si lavora è una norma transitoria, per dare tempo alla macchina della giustizia di ripartire grazie a questi massicci investimenti; e solo dopo qualche anno far scattare le tagliole del processo a tempo. Vi convince?
«Una norma transitoria genere è assolutamente indispensabile. Il governo si prenda due, tre, anche quattro anni per fare tutto quello che si deve per velocizzare il sistema, sapendo che questa scommessa di accelerare i tempi non può essere vinta domani mattina. E a quel punto, dati statistici alla mano, con saggezza, si decida sul tempo da concedere alle fasi del processo. Al momento, il paradosso è che i rinforzi arriveranno più in là, però la tagliola sui tempi sarebbe immediatamente esecutiva. Va quantomeno rovesciata la scansione».

Altro tema di trattativa nella maggioranza, l'elenco dei reati da tutelare più di altri. I grillini puntano ai cosiddetti reati di mafia.
«Guardi, sono più che perplesso quando si procede per elenchi. Innanzitutto c'è il rischio di perdere di vista qualche reato grave. Non si riesce mai a fare una lista esaustiva, salvo metterceli tutti, ma non può essere il caso. E poi va considerato che nei reati di mafia, in genere l'imputato è anche detenuto. E quindi già è prevista una priorità di trattazione. Con la logica della lista, se permane la strozzatura di cui parlavamo, finirà che ci saranno reati di serie A che saranno portati a sentenza, e tantissimi reati di serie B che inevitabilmente finiranno in coda e saranno destinati a morire. Reati comunque seri, con parti civili che attendono giustizia, e che hanno richiesto soldi e fatica dello Stato, prima dagli organi investigativi, poi dai giudici. Basterà un giorno di ritardo, e quel processo si estinguerà. Non mi pare proprio una soluzione ragionevole».

In conclusione, lei non è contrario al principio che il processo abbia un tempo determinato.
«Il principio va benissimo, ma nella concreta attuazione deve essere sostenibile. Nessuno può pensare, credo, che la magistratura non voglia tempi certi e aggiungo veloci per il processo. Ma devono essere ragionevoli. E chiunque si rende conto che con questa proposta del governo, ciò non è e non sarà. La Cassazione stessa, che sulla carta è in linea con i tempi prefigurati dal governo, si trova ora in affanno per il Covid. È andata in sofferenza. E ora deve recuperare. Ma qualche ritardo ci sarà per forza. E allora, può succedere sempre qualcosa, una qualsiasi evenienza, e se in Cassazione si sfora di una settimana accadrà che si perderanno due gradi di giudizio».

La vostra proposta?
«Al termine di una congrua fase transitoria, concedere termini più ampi, oppure affidare al giudice la decisione».

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