Bruno Caccia
(Cuneo, 16 novembre 1917 - Torino, 26 giugno 1983)
Procuratore della Repubblica di Torino, vittima della 'ndrangheta
A Torino, in via Sommacampagna, fra il Po e la collina torinese, resta una targa sotto la fronda di un glicine: «Il 26 giugno 1983 qui è caduto, stroncato da mano assassina, nel pieno della sua lotta contro il crimine, Bruno Caccia. Procuratore della Repubblica, medaglia d'oro al valor civile, strenuo difensore del diritto, luminoso esempio di coraggio e fedeltà al dovere».
Quel 26 giugno, Bruno Caccia aveva trascorso la domenica fuori città ed era rientrato in serata a Torino. Verso le 23,30, mentre passeggia con il cane, viene affiancato da una Fiat 128 blu con a bordo due sicari che, senza scendere dall'auto, prima sparano quattordici colpi e poi, per essere certi della morte del magistrato, lo finiscono con tre colpi alla nuca. La notizia viene data dalla televisione nell'ultimo TG. Si racconta che nelle Carceri Nuove di Torino molti detenuti abbiano festeggiato.
Inizialmente, le indagini imboccano le piste del brigatismo e del terrorismo nero. La svolta si ha con la scelta di collaborare di un boss della cosca catanese insediata a Torino. Si accerta così che ad uccidere Bruno Caccia è stata la `ndrangheta perché con lui "non ci si poteva parlare". Nel 1993 il mandante dell'omicidio sarà condannato all'ergastolo; i sicari non saranno mai identificati. Nella sentenza c'è il racconto di un omicidio deciso a freddo, studiato nei minimi particolari, eseguito con brutale ferocia, per "eliminare un ostacolo all' attività della banda". Il clan dei calabresi era infatti nel mirino della Procura della Repubblica da quando Bruno Caccia era arrivato al vertice dell'ufficio: la sua sola presenza costituiva una grave minaccia.
Bruno Caccia nasce a Cuneo il 16 novembre del 1917. La sua carriera in magistratura inizia nel 1941 a Torino, ove svolge funzioni di Sostituto Procuratore. Nel 1964, si trasferisce ad Aosta. Nel 1967 fa ritorno nella Procura del capoluogo piemontese. Si occupa di eversione, piccola e grande criminalità e reati contro la pubblica amministrazione. Con Gian Carlo Caselli istruisce il primo Processo al nucleo storico delle Brigate Rosse. Nel 1980 diviene Procuratore della Repubblica. A Palazzo di Giustizia è un lavoratore infaticabile. Entra in ufficio alle otto di mattina e esce alle otto di sera concedendosi una pausa all'ora di pranzo quando torna a rasa. È un uomo semplice. Si concede qualche cena con i colleghi, il teatro e la passione per l'orto. Quando può va a Ceresole d'Alba, dove si trova la casa di famiglia. In quel luogo pensa di ritirarsi dopo la pensione.
Con determinazione avvia indagini su un fenomeno allora poco noto, quello che investe la 'ndrangheta e i suoi affari illeciti. A Torino vivono appartenenti a famiglie malavitose che cercano dì "espandere" i loro «codici e rituali antichi. Caccia non concede spazio e con fermezza mette sotto controllo i pusher siciliani che controllano le piazze, incarica la polizia di effettuare controlli nelle bische ed esattorie dei calabresi e, fatto ancor più pericoloso per la sua incolumità, comincia a effettuare controlli bancari. Per i clan calabresi, Caccia diventa una presenza sempre più ingombrante, un forte ostacolo alla realizzazione delle attività criminose. Il Procuratore vive sotto scorta e ha a disposizione un'auto blindata. Ma in casa evita di parlare di lavoro e dispensa tranquillità alla famiglia. Non lascia trapelare preoccupazioni. Vive la casa come ambiente protetto, un porto di quiete.
I suoi avversari lo pedinano da tempo e hanno compreso come e dove intervenire. Individuano tra le abitudini del Magistrato un punto debole. Sebbene abbia la scorta, Caccia non rinuncia a una piccola libertà che si concede ogni sera quando scende di casa con il suo cane per portarlo ai giardinetti. E così fa anche la sera del suo omicidio.
Marcello Maddalena, attuale Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Torino e già collega di Bruno Caccia - con il quale condivise l'impegno nel pool antiterrorismo - cosi ricorda l'amico in un articolo apparso su La Stampa del 27 giugno 1993, dieci anni dopo dall'omicidio. "Bruno Caccia ha lasciato "eredità di affetti": non solo nei familiari e negli amici, ma anche in chi, nelle aule e negli uffici giudiziari, lo ha avuto al fianco o lo ha fronteggiato, criticato o contrastato. Perché era libero, indipendente, imparziale; in una parola, "giusto".. Quel che aveva da dire, lo ha sempre detto in vita, faccia a faccia: non ha avuto bisogno di lasciare diari. Non conosceva né viltà né paura: I suoi unici "padroni" erano la legge e la verità: il resto non esisteva. Pubblico Ministero da sempre, aveva del suo ruolo la più semplice delle concezioni: per lui il Pubblico Ministero era colui, che imparzialmente promuoveva la repressione dei reati e ristabiliva l'ordine violato .... Una società civile non è tale se ci sono settori, apparati, istituzioni che non funzionano o funzionano male; ed il progresso è ordinata convivenza, in cui ciascuno deve avere il suo posto e il suo ruolo. Ma quel posto deve essere occupato per davvero e quel ruolo deve essere esercitato sul serio. Posti e ruoli non sono attribuiti per soddisfare ambizioni personali ma perché servano alla società. Questa, e non altra, era la "filosofia" applicata, di Bruno Caccia".
Il 26 giugno del 2001, in occasione del diciottesimo anniversario dell'uccisione del magistrato, Maddalena integra le sue considerazioni di allora: "... Bruno Caccia è stato e continua ad essere un simbolo. E come tale vive e continuerà a vivere in questo Palazzo, nella mente e nell'animo di tutti coloro che hanno la giustizia nel cuore..., di calore, di intelligenza e di rispetto umani era permeato il famoso senso dello Stato di Bruno Caccia che traeva origine in lui da un sentimento e da una convinzione più profondi: che la vita degli esseri umani è, per sua essenza, vita sociale; che ... solo nella civile e pacifica convivenza possono trovar sviluppo altri valori quali libertà, solidarietà, eguaglianza, fratellanza, giustizia. E però la pacifica convivenza necessita di regole; di regole che debbono essere osservate... E quindi il "rigore", il famoso rigore, la famosa severità, la talora asserita "durezza" di Bruno Caccia... altro non era se non il semplice ed umile richiamo al rispetto delle regole..., schietto e sincero fino ai limiti della convenienza, non praticava "corridoi" e non aveva né avversari né scopi né pensieri occulti: quel che pensava e aveva da dire lo diceva apertamente, senza arroganza e senza iattanza, ma senza infingimenti, chiaramente e fino in fondo".
A Bruno Caccia sono intitolati il Palazzo di Giustizia di Torino e un cascinale a San Sebastiano da Po, quest'ultimo sequestrato proprio alla famiglia del mandante del suo omicidio. Cascina Caccia viene tuttora gestita dall'associazione Libera, che si occupa del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie.