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AREA GENERALE | Interventi
26 settembre 2025

Il presidente Parodi al congresso dell'UCPI - Catania, 26 settembre 2025

Anche ieri sera mi è capitato di mangiare pesante. Ho dormito malissimo e ho avuto un incubo, che Vi vorrei raccontare. Pensate: ho sognato di essere stato invitato al Congresso nazionale delle Camere Penali e di dover fare un intervento per convincere gli avvocati penalisti e i politici presenti del fatto che ANM ha ragione!
Mi rendo conto benissimo che è una situazione assurda, ma fortunatamente è stato solo un incubo, durante il quale mi sono affannato per cercare una soluzione: che fare?
La battaglia sulla separazione delle carriere UCPI la porta avanti da trent'anni. Il Governo ha stipulato un patto con i suoi elettori. Mi sembra davvero impossibile dire qualcosa, non dico di sensato, ma anche solo di apparentemente ragionevole. 

Che gli racconto? Che non siamo qui per difendere i famosi “privilegi di casta”, atteso che se anche passa la riforma non guadagneremo di meno, non avremo meno ferie, non lavoreremo di più (sarebbe difficile farlo: un P.M. italiano ha 6 volte il numero dei procedimenti della media europea, ogni 100.000 abitanti in Europa ci sono 18 giudici, in Italia 11… insomma, qualcosa vorrà dire). 
Gli racconto che il 95% dei magistrati non ha mai voluto cambiare funzione e che, soprattutto, il 99,9% dei magistrati non ha mai pensato di candidarsi al Csm e che, quindi, non si dispera per il fatto di non poter concorrere al ruolo di consigliere?

Ma questo lo sanno…. come sanno che una vera riforma della giustizia richiederebbe investimenti sul personale amministrativo, sulle strutture, e poi interventi sulla geografia giudiziaria, sulle norme dei codici di procedura, sul diritto penale sostanziale - che ha visto uno straordinario aumento delle fattispecie - sul numero dei magistrati, sulla organizzazione del lavoro, sull’informatica giudiziaria. 
Già, tutto questo lo sanno. E allora?
Fortunatamente nell'incubo mi è apparso l’ex Presidente delle Camere Penali, avv. Giandomenico Caiazza - come Francesco Petrelli giurista di straordinarie capacità; non si preoccupi, mi ha detto, vada a cercare cosa ho dichiarato all'Unità all'inizio del 2025:  “Io….dissento fortemente dall’idea di un sorteggio di un organo di rilevanza costituzionale. Avrei compreso un sorteggio secondario, dopo un’elezione di un certo numero di magistrati. Invece questo sorteggio pure per le toghe è un’idea grillina e antipolitica che francamente non condivido. Non è farina del nostro sacco.”

Mi sono confrontato spesso in pubblico su questo tema. Quando racconto ai non addetti ai lavori che si tratta di demandare la composizione di un organo di autogoverno o di garanzia (chiamatelo come volete, la dottrina è divisa) non ai soggetti che devono essere rappresentati ma a una estrazione a sorte, tutti mi guardano con un'aria molto stupefatta: “ma non esiste da nessuna parte!”  Certo.

Più volte autorevoli rappresentanti delle Camere Penali o altrettanto autorevoli politici mi hanno spiegato che esistono molti altri organi i cui componenti sono sorteggiati: il Tribunale dei ministri, i giudici popolari della Corte d’Assise, le commissioni di esami universitari. Tutti organi che non amministrano, ma giudicano e/o valutano. Insomma, del tutto non sovrapponibili al CSM. Se questi sono gli esempi, sono tranquillo.

A questo punto mi è apparso, sereno, il professor Flick, che mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha spiegato che il Csm non è stato creato per fare un favore ai magistrati, per tutelare i magistrati, ma come organo di tutela della funzione giurisdizionale, non tanto per garantire la separazione dei poteri, ma soprattutto la separazione dal potere. E questo perché si tratta di fare in modo che la magistratura possa contribuire alla propria organizzazione di modo da assicurare l’indipendenza nell'esercizio della funzione giurisdizionale: non per tutela dei singoli magistrati, ma solo del prodotto finale atteso nell’interesse dei cittadini. 

Accantonare il principio di rappresentatività – fondamentale in tutti i contesti umani organizzati - per evitare nuovi hotel champagne non solo non risponde al principio di proporzionalità, che pure a tutti è tanto caro, ma sarebbe misura inutile. I colleghi sorteggiati saranno riferibili quasi certamente a gruppi: avremo consiglieri che non saranno portatori della sensibilità e delle esigenze che i colleghi invece potrebbero esprimere…. E che non risponderanno a nessuno.

A questo punto, una voce dall’alto, profonda e inquietante, mi scuote…. “Ricorda…uno vale uno! Quell’uno può decidere della libertà personale, del patrimonio dei cittadini, come potrebbe non essere un buon consigliere del CSM?”

Già. Uno vale uno. Mi verrebbe da rovesciare l’argomento: quel magistrato può fare tutto quello ma non è in grado di scegliere da chi farsi rappresentare. Strano, vero?
Certo, uno vale uno: UCPI è stata fortunata perché ha estratto a sorte un avvocato di grande valore come il Presidente Petrelli. O qualsiasi avvocato potrebbe essere comunque al suo posto, rappresentare alle stesso modo, con passione e intelligenza la maggioranza di tutti i penalisti? 

Se fossimo nella realtà, non mi potrebbero credere, ma in un incubo possiamo anche pensare che sia così e che dunque così deve essere - o meglio dovrà essere – anche per i membri del CSM…. Perché faticare a selezionare i migliori, i più adatti a farsi interpreti dell’interesse collettivo, se è sufficiente un pò di fortuna?
È un rischio che possiamo veramente accettare, a fronte di un risultato finale che non cambierebbe? Nella vita reale forse no, così come non è semplice accettare due CSM differenti, che dovrebbero comunque in qualche modo coordinarsi tra di loro.

Pensate: un Csm di soli pubblici ministeri con rilevanza costituzionale al pari di quello dei giudici, con una rappresentatività molto forte, che potrebbe arrivare a decisioni non collimanti con quelle dell'altro CSM, laddove invece proprio l'esigenza di un controllo e di un'interlocuzione continua, specie nella valutazione sui nuovi provvedimenti legislativi, sull’organizzazione degli uffici, sulle priorità (che intanto il Parlamento continua a non individuare) è l'elemento fondamentale di garanzia che oggi caratterizza il CSM. 
E se gli racconto che un CSM composto da soli P.M. e laici, che organizza 2000 P.M. selezionati in base a criteri di efficacia accusatoria, senza controlli incrociati sui progetti organizzativi, a capo di fatto delle forze di P.G. (atteso che nella riforma non è prevista una modifica dell’art. 109 cost) potrebbe essere, più che una parte del mio personale incubo, quello di molti avvocati? 

Non a caso, con voce pacata ma decisa, a quel punto il prof. Ferrua mi ha sussurrato:  “un regime che implichi, oltre alla separazione delle funzioni anche quella delle carriere, deve necessariamente condurre a un collegamento più o meno inteso con il potere politico…” atteso che “all’interno di un corpo di pubblici ministeri, numericamente ridotto e connotato da gerarchia interna, una separazione delle carriere che lasci intatte le attuali garanzie di indipendenza esterna del pubblico ministero esporrebbe al rischio di una formidabile concentrazione di incontrollati poteri nelle mani dei vertici”.
Eh già. Qualcosa che UCPI non vuole o almeno dice di non volere. E io credo loro, perché ne conosco lo spirito democratico e le buone intenzioni. 
Davvero non si sono mai posti questo problema? Sono sicuri e tranquilli? Io si, ma loro pure?

Anche sull'altra Corte ci sono tantissimi dubbi, ma forse non solo per ANM: forse almeno per tutti i giuristi. Potrei parlare della mancata previsione della possibilità di ricorso in Cassazione per l'articolo 111, della mancata estensione a tutte le altre magistrature della competenza dell’Alta Corte, o magari della difficoltà per capire - nel momento in cui ci saranno due CSM composti di sorteggiati (come tali idonei, in questa logica, per qualsiasi valutazione) perché non sarebbero adeguati a valutare singolarmente i magistrati sul piano disciplinare.

E ancora, perché P.M. e giudici separati nelle carriere dovrebbero essere accomunati da un’unica Alta Corte? Perché costituire un nuovo giudice speciale in violazione dell’art. 102 Cost.? Perché si vorrebbe un'Alta Corte formata solo da magistrati che svolgono o hanno svolto funzioni di legittimità, laddove, al contrario, i casi di effettivi di valutazione disciplinare riguardano spesso il merito dei procedimenti?
Non avremmo in questo modo un’Alta Corte in qualche modo svincolata dalla conoscenza della condizioni di lavoro e di vita dei soggetti che devono essere giudicati (composta da giuristi autorevoli ma nessuno dei quali sarebbe operativo verosimilmente nella giurisdizione di merito), mentre tutti gli organismi disciplinari – tutti, di nuovo, ma proprio tutti: sembra proprio un incubo- valutano conoscendo direttamente quella che è la vita, l'organizzazione, il lavoro, le effettive necessità operative dei singoli amministrati ?

Tutti: la CONSOB, la Banca d’Italia, gli ordini professionali: nessuno fa valutare la responsabilità disciplinare a un organismo estraneo al contesto organizzativo dell'ente, composto da soggetti certamente molto qualificati, ma che potrebbero non conoscere nel dettaglio, in molti casi, quello che è il contesto che deve essere valutato.  E soprattutto, in tutti gli ordinamenti europei ove esiste un organo di governo autonomo della magistratura ad esso spetta la funzione disciplinare (salvo che in Grecia). E un caso?

Ancora la voce profonda di prima, a questo punto, mi ri-scuote “E cosa può cambiare per gli avvocati? Voi volete una giustizia domestica, mite e condiscendente? Noi vogliamo che chi sbaglia paghi!” 
Ecco: mite non tanto, se condanna tre volte tanto quelle francese, o molto più della media europea di istituzioni analoghe (chissà come mai): ma non è solo quello. Quello che può interessare tutti è altro: vogliamo- vorranno - davvero un magistrato (anche e soprattutto nel civile) posto nella condizione di scegliere - a fronte di vicende delicate e del rischio di una giustizia disciplinare non in grado di dare essere rappresentativa di un giudizio equo - la via più comoda, più facile, più sicura, quella che evidentemente potrebbe assicurare meno guai potenziali, considerando i possibili esposti e/o denunce? O penseranno che tutti siano pronti- inconsciamente- a non tenere conto di questo? Molti magari si, tutti probabilmente no. 

Potrebbe trattarsi di una giustizia non in grado di dare eguali possibilità a tutti i cittadini, specialmente ai più deboli: quelli meno in grado di farsi tutelare indirettamente dal timore di potenziali esposti disciplinari. È davvero un rischio che vogliamo -o magari vorranno – correre, quando un comune cittadino si troverà, ad es. a fronteggiare in una causa civile una multinazionale? 

Davvero l’indipendenza non è un valore di tutti e per tutti, laddove si tratta di lasciare a chi deve decidere la serenità (e magari persino il tempo) per farlo nel modo migliore possibile, nel pubblico interesse? La logica è chiara: enfatizzare il peso della responsabilità disciplinare nella vita professionale dei magistrati. 

Saranno i magistrati a pagarne le conseguenze, dopo che maturerà una consapevolezza di ciò, o altri?

Resta un ultimo tema, la separazione delle carriere. Mi sono accorto che mi stavo svegliando…. L’istinto di sopravvivenza era vigile anche nelle braccia di Morfeo. E invece no. Però mi sono detto, se fossi tutto vero, non potrei mettermi a parlare davanti a un pubblico così autorevole, di magliette da calcio o di caffè. Facciamo un passo verso l’alto, a rischio di cadere nel vuoto (tanto poi mi sveglio).
Partiamo da un dato: non esiste un modello di processo accusatorio univoco. Non esiste. Esiste il nostro modello che con quello anglo-statunitense ha davvero poco in comune. Provate a pensare al processo accusatorio per eccellenza, quello statunitense. Giudice e PM sono separati (anche se interscambiabili, guarda un po') ma è caratterizzato da una serie di elementi che sarebbero totalmente improponibili nel sistema italiano: un p.m. eletto politicamente, legato al potere esecutivo, un'azione penale discrezionale, una sorta di presunzione di oggettività delle decisioni di primo grado a fronte della presunzione di non colpevolezza (fortunatamente) del nostro sistema; per finire con l’imputato che se decide di testimoniare deve dire la verità o con un verdetto non motivato al posto delle nostre sentenze. Un sistema davvero degno di questo incubo! 

Il nuovo codice “funzionerà se riusciremo a far pervenire al dibattimento soltanto una piccola parte dei processi”.  Questo, nel 1984, il commento di un celebre uomo politico alla legge delega per la riforma del codice di rito. Un rito accusatorio che sopravvive grazie agli abbreviati, ai patteggiamenti, ai decreti penali, che tutto sono fuorché strumenti di definizione della giustizia di matrice accusatoria. Se lo faccio presente, mi verranno a dire che non è vero, che non è una forte specificità del nostro sistema? Anche questo sarebbe un incubo nell’incubo. 
E tutto questo, perché vi è in realtà una ontologica incompatibilità tra il rito accusatorio effettivo e generalizzato e l’azione penale obbligatoria. Questo è il vero punto.

Non esiste un modello accusatorio generale e astratto, il nostro modello accusatorio è stato correttamente modulato con la riforma Vassalli tenendo conto di alcuni imprescindibili principi del nostro sistema giuridico.  Un modello che è stato poi rafforzato e delineato con la modifica dell’art. 111 dieci anni dopo, nel momento nel quale si sono volute superare alcune criticità. Un sistema dichiaratamente accusatorio (in salsa nazionale, ovviamente e fortunatamente) che sopravvive con riti speciali non tali, che nessuno ha avuto l’idea di completare - già che si trattava di una riforma costituzionale- con la riforma dell’art. 111 Cost. con la separazione delle carriere. 
Strano vero? Se ne sono dimenticati. Sarebbe stato sufficiente scrivere: un giudice terzo e imparziale, con carriera separata dal p.m. E invece, nulla.
Eppure, era la norma che avrebbe dovuto dare dignità costituzionale al codice Vassalli, che ora si dice dovere essere inevitabilmente, ontologicamente completato con la separazione. Giuristi distratti….

O forse no. 

La riforma dell'articolo 111 delinea un sistema accusatorio assolutamente corretto, perché la terzietà del giudice di cui oggi si parla è garantita dai meccanismi di formazione della prova presenti nel sistema, rispetto ai quali la prova si forma, in dibattimento come nelle anticipazioni in indagine preliminare, solo davanti a un giudice. Un giudice che assolve nel 40% dei casi di esercizio dell’azione penale, ma nonostante questo non è terzo. O forse non abbastanza terzo, come mi è capitato di sentire in un dibattito. Meglio quarto, nel dubbio.
Eppure, in quel “non abbastanza terzo” c’è forse la chiave di lettura del problema, un delta che si rileva tra decisioni in sede cautelare e/o di primo grado e quelle successive, del TL o in sede di appello. Non è un problema che si risolve con la separazione (vogliamo, già che ci siamo, separare anche i molti avvocati che meritevolmente svolgono funzioni nella magistratura onoraria?)  ma al contrario, pretendendo- uso un termine non a caso- dal P.M.  l'applicazione di quei principi di valutazione della prova e della responsabilità che la riforma Cartabia - ormai da anni - ha imposto e che devono portare non soltanto, come ovvio, a cercare una prova a 360 °, ma a chiedere archiviazioni e assoluzioni ogni qualvolta non si è formato un materiale sufficiente per l'affermazione di responsabilità.  
Per una ragione di giustizia per i singoli e di efficienza del sistema. A volte non accade: e allora, bisogna fare in modo che accada.
Questo non si ottiene di certo con la separazione, ma con un lavoro culturale quotidiano, da realizzare anche attraverso una seria autocritica da parte della magistratura e in un’ottica di piena collaborazione di tutte le parti per il raggiungimento di un obiettivo di giustizia efficiente e tempestiva.

Il Presidente Francesco Petrelli, in un interessante articolo del 2018 sostiene che la vera ragione della separazione andrebbe individuata nell’impossibilità di riconoscere un’identità di scopo fra il pubblico ministero del giudice. 
Io credo che al contrario - e se non fossi in questo incubo lo sosterrei con forza, con tutti - che proprio l'identità di scopo esiste e si identifica nella ricerca della verità nell'ambito e nei limiti delle norme processuali che entrambi devono conoscere e applicare. Identità che, al contrario, non può e non deve essere riconosciuta al il difensore - aggiungo, fortunatamente- proprio perché tenuto sempre e comunque ad agire nell’interesse del proprio assistito, persino nel caso- raro ma non impossibile- che questi ammetta con il difensore le proprie responsabilità. Può capitare. O no?
E sono felice che la giustizia funzioni in questo modo: la forza e la ricchezza del nostro sistema è quella di avere un avvocato pronto a difendere fino in fondo il proprio assistito, e un pubblico ministero e poi un giudice che non si possono accontentare di tesi accusatorie, ma che devono comunque sempre cercare la verità in ogni direzione. Perché la verità esiste. Una donna violentata e uccisa nella sua abitazione è quanto di più drammaticamente vero si può incontrare. Ve lo posso assicurare.

Mentre mi stavo svegliando, mi è comparsa come ultima immagine quella del ministro Nordio in persona, che con aria severa mi ha ricordato: “Facciamo in modo che le nostre discussioni non diventino un confronto aspro tra il governo e la magistratura, che la magistratura non sia e non voglia diventare una forza di opposizione.”
In quel momento mi sono destato e non ho fatto tempo a rispondergli: peccato, gli avrei detto volentieri che sono assolutamente d'accordo con lui. Il contrasto non giova al paese, non giova ai cittadini che devono avere fiducia nella giustizia, che devono credere che il governo lavori per una giustizia migliore, più efficiente, che devono credere agli avvocati quando dicono che pretendono una magistratura attenta a tutte le ragioni, anche quelle della difesa.
Cittadini che devono credere in chi lavora per il bene comune, anche se ha commesso sbagli, anche se può e deve essere criticato, anche se molte cose possono e devono essere cambiate.  Cittadini che devono sapere che nessuno lotta per mantenere privilegi o poteri, ma per un comune superiore interesse, che deve accomunare governo, operatori dell’informazione, avvocati. Tutti, insomma; anche quelli che oggi credono di “vincere“ il referendum denigrando e attaccando quotidianamente e strumentalmente la magistratura. 

Se le ragioni per un SI sono così valide e solide, perché usare argomenti di questa natura per sostenerle? I cittadini hanno diritto di essere rispettati anche in questo, impostando un confronto basato sulla loro intelligenza e sul loro senso critico e non alimentando astratti rancori.  
Se mai mi capiterà l'occasione di parlare di questi temi, sicuramente inizierò con queste parole. Non ho - per carattere, storia personale e cultura - la possibilità di una scelta differente.