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ORGANI ANM | Documenti ufficiali
8 novembre 2025

Parere sul disegno di legge in materia di “Introduzione del reato di manipolazione mentale”

Approvato all’unanimità dal Comitato Direttivo Centrale nel corso della seduta dell’8 novembre 2025

COMMISSIONE DIRITTO E PROCEDURA PENALE
Presidente: Chiara Valori
Coordinatori: Domenico Canosa, Giulio Caprarola

1. Premessa: il reato di manipolazione mentale

La proposta di introduzione dell’articolo 613 quater all’interno del Titolo XII, Capo III, Sezione III del codice penale muove dall’esigenza di ricostruire una tutela specifica contro forme di condizionamento psichico intenso, gravemente lesive della libertà di autodeterminazione. 

I disegni di legge esaminati (A.S. n. 1496 e A.S. n. 1515) si propongono di incriminare le varie forme di manipolazione mentale e psicologico-emotiva riconducibili a contesti di sette e psicosette (nonché a pratiche pseudo-terapeutiche) colmando – secondo i proponenti – un vuoto di tutela penale in relazione ai casi in cui la vittima, pur in stato di assoggettamento, sia capace di intendere e di volere.

La ratio sottesa all’introduzione del delitto di manipolazione mentale è infatti quella di sanzionare le condotte o comportamenti di chi “altera la volontà di una persona distorcendone e modificandone la visione della realtà, tale da comportare il mutamento dei comportamenti di vita, ovvero inducendola a vivere all’interno di comunità o gruppi” (ddl n. 1515 del 4 giugno 2025)o “induce taluno in un perdurante stato di soggezione tale da escludere, o da limitare in modo rilevante, la libertà di autodeterminazione o la capacità di discernimento” (ddl n. 1496 del 22 maggio 2025).  

La proposta d’incriminazione si inserisce nel solco di taluni gravi accadimenti, emersi negli ultimi anni anche in sede giudiziaria, riconducibili alla costituzione e all’operatività di sette e psicosette finalizzate a manipolare i membri della comunità, indotti a subire plurime violenze, spesso sessuali, e vessazioni di varia natura.

Al fine di sanzionare penalmente tali condotte, il DDL n. 1496 propone l’introduzione del reato di “Manipolazione mentale”, così formulato:  “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, nell'ambito di un gruppo che promuove o pratica attività finalizzate a creare o a sfruttare una condizione di dipendenza psicologica o fisica dei partecipanti, induce taluno in un perdurante stato di soggezione tale da escludere, o da limitare in modo rilevante, la libertà di autodeterminazione o la capacità di discernimento, è punito con la reclusione da tre a otto anni. Se il fatto è commesso in danno di persona minore di anni diciotto, la pena non può essere inferiore a sei anni di reclusione”. 

Il DDL n. 1515, invece, propone l’introduzione del “Reato di manipolazione emotiva e psicologica”, delineato nei seguenti termini: “Chiunque, individualmente o in forma associativa, con condotte reiterate avvalendosi di isolamento dal contesto sociale di provenienza, abuso di psicoterapia, tecniche ipnotiche, sottomissione e altri mezzi, strumenti o tecniche di manipolazione e persuasione emotiva o psicologica, altera la volontà di una persona distorcendone e modificandone la visione della realtà, tale da comportare il mutamento dei comportamenti di vita, ovvero inducendola a vivere all'interno di comunità o gruppi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni e con la multa da 5.000 a 20.000 euro. La pena è aumentata da un terzo alla metà qualora il reato sia commesso nei confronti di persona minore di età o con ridotta capacità di intendere e volere, o quando circostanze di tempo o di luogo siano tali da ridurne la capacità di intendere o volere.”

Le due proposte condividono l’impostazione politico-criminale ma divergono in relazione a tecnica di tipizzazione, perimetro dell’offesa, cornice edittale e presupposti soggettivi.  

La fattispecie delineata dal DDL n. 1496 si configura come reato comune, potendo essere commessa da “chiunque”. Tuttavia, la norma tipizza il contesto nel quale la condotta deve inserirsi, che viene individuato “nell’ambito di un gruppo che promuove o pratica attività finalizzate a creare o a sfruttare una condizione di dipendenza psicologica o fisica dei partecipanti”. Tale specificazione non trasforma il reato in proprio, ma funge da requisito strutturale dell’offesa: l’agente opera (o si avvale) di un habitat organizzato o comunitario che coltiva la dipendenza, con conseguente rilevanza dell’inserimento funzionale dell’autore nel circuito manipolativo del gruppo (non necessariamente in forma di appartenenza giuridica all’associazione, ma con condotta che in quel contesto si sviluppa e di quel contesto trae forza offensiva).

E’ inoltre prevista espressamente una clausola di chiusura (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”), che delimita l’ambito applicativo della fattispecie in via sussidiaria rispetto a ipotesi incriminatrici più gravi eventualmente integrate dal medesimo fatto.

La condotta è descritta in termini ampi ma finalisticamente orientati, facendo riferimento a colui che “induce taluno in un perdurante stato di soggezione” idoneo a escludere o limitare in modo rilevante la libertà di autodeterminazione o la capacità di discernimento della vittima. La norma è dunque un reato di evento: non basta l’attività manipolativa in sé, ma è richiesto il verificarsi dello “stato di soggezione”. L’evento presenta un duplice profilo: qualitativo, perché la soggezione deve incidere concretamente sulla libertà decisionale e sulla capacità critica; e temporale, perché deve avere carattere stabile, non episodico, e quindi perdurare nel tempo.

La disposizione non tipizza tassativamente i mezzi di realizzazione dell’evento: isolamento, love-bombing, induzioni ipnotiche e abuso di pratiche pseudo-terapeutiche sono evocati nella relazione, ma non vengono cristallizzati nel precetto. La fattispecie, pertanto, è a condotta libera: ogni mezzo idoneo è potenzialmente rilevante se provoca l’evento richiesto.

Sotto il profilo soggettivo, è richiesto il dolo generico: è sufficiente, quindi, la coscienza e volontà di porre in essere condotte idonee a indurre la vittima nello stato di soggezione descritto, con rappresentazione e accettazione dell’evento tipico (la soggezione perdurante). Non è richiesto alcun fine ulteriore (profitto, sfruttamento, ecc.), che, se presente, rileverà eventualmente ai fini del concorso con altre fattispecie o delle scelte sanzionatorie nella dosimetria.  

Il reato di manipolazione emotiva e psicologica previsto dal DDL n. 1515, sebbene preveda come la precedente fattispecie un reato comune, prevede un ambito applicativo più ampio, contemplando condotte sia individuali sia associative. L’assenza dell’elemento di contesto del “gruppo” amplia il raggio soggettivo della fattispecie, includendovi sia relazioni diadiche che configurazioni organizzate (comunità, gruppi). Sotto il profilo oggettivo, poi, la condotta penalmente rilevante dev’essere reiterata.

La fattispecie, poi, tipizza sia i mezzi che l’evento.

Quanto ai mezzi, l’agente deve “avvalersi” di isolamento dal contesto sociale, abuso di psicoterapia, tecniche ipnotiche, sottomissione e altri mezzi/strumenti/tecniche di manipolazione o persuasione emotiva/psicologica. L’elenco, pur esemplificativo, ha funzione selettiva poiché la manipolazione deve passare per strumenti riconoscibili come tali, sebbene non tassativi.

In relazione all’evento, invece, l’agente “altera la volontà” della vittima “distorcendone la visione della realtà”, con esiti tipizzati in due alternative: mutamento dei comportamenti di vita; o induzione a vivere in comunità o gruppi.

Quanto all’elemento soggettivo, si richiede il dolo specifico: oltre alla rappresentazione e volontà della condotta e dell’evento (alterazione della volontà con gli esiti indicati), è necessario il fine di trarne profitto per sé o per altri. Tale finalità utilitaristica funge da filtro selettivo della rilevanza penale, delimitando l’area delle condotte punibili a quelle strumentali alla realizzazione di un vantaggio.

Anche sotto il profilo sanzionatorio, le due proposte presentano alcune differenze. Il DDL 1496 prevede una cornice edittale più contenuta, individuata nella reclusione da tre a otto anni, senza pena pecuniaria (l’unico aggravio espressamente previsto riguarda i fatti commessi in danno di minori, per i quali la pena non può essere inferiore a sei anni). Il DDL 1515, invece, innalza la cornice edittale, diversificandola: la pena base viene infatti individuata nella reclusione da cinque a quindici anni, cui si aggiunge la multa da euro 5.000 a euro 20.000. Sono inoltre previste aggravanti (da un terzo alla metà) in presenza di minore età o ridotta capacità di intendere o di volere, nonché quando circostanze di tempo o di luogo riducano la capacità della vittima; è altresì contemplato l’aumento fino a un terzo nei casi di abuso della professione sanitaria o psicologica (o di altre professioni esercitate sine titulo).

 

 

Nonostante il meritorio obiettivo di predisporre uno strumento di tutela della libertà di autodeterminazione dell’individuo da ogni forma di manipolazione mentale, entrambe le fattispecie proposte presentano profili critici riconducibili al rischio di indeterminatezza del precetto, a possibili frizioni con libertà costituzionali (libertà personale, religiosa, di espressione e di associazione) e a difficoltà probatorie nell’accertare il nesso tra condotte manipolative ed evento lesivo.

 

In relazione al rischio di contrasto con il principio di determinatezza ex art 25 Cost., deve rilevarsi che i reati oggetto di proposta si pongono in tensione con i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 96/1981 in relazione al delitto di plagio (art. 603 c.p.). Come noto, quest’ultima fattispecie - che puniva all’art. 603 c.p. la condotta di “chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione” - è stata oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale per contrasto con i principi di tassatività e legalità contemplati all'art. 25 della Costituzione.

Nella predetta pronuncia, dopo aver ripercorso i principali snodi relativi alla struttura della fattispecie di plagio e alla sua interpretazione, la Consulta ha evidenziato come, nell’accezione affermatasi, il plagio consisterebbe “nella instaurazione di un rapporto psichico di assoluta soggezione del soggetto passivo al soggetto attivo, in modo che il primo viene sottoposto al potere del secondo con completa o quasi integrale soppressione della libertà del proprio determinismo[1].

In relazione a tale fattispecie, la Consulta ha rilevato l’impossibilità di definire e verificare con criteri oggettivi i confini tra persuasione e suggestione nonché l’assenza di riferimenti a fenomeni empiricamente controllabili.

Sul primo versante, la Corte costituzionale ha preliminarmente esaminato se sia giuridicamente possibile delimitare, con criteri controllabili, gli stati mentali posti a fondamento dello stato di soggezione, nucleo dell’evento tipico.

A riprova dell’impossibilità, in rerum natura, di accertare l’esclusione della capacità di autodeterminazione della p.o., la Consulta ha menzionato le risultanze delle scienze mediche e psicologiche sul punto, che avevano evidenziato come non si potessero distinguere con certezza l’attività di “persuasione” compiuta dal soggetto attivo, in cui il soggetto passivo conserva la sua capacità di autodeterminazione, da quella di “suggestione”, in cui il soggetto passivo si convince “in maniera diretta e irresistibile” (cfr. § 13 sentenza n. 96/1981). 

La Corte ha precisato che “L'effetto dell'attività psichica del plagiante dovrebbe essere non già quello di ridurre un individuo in stato d'incapacità d'intendere o di volere (previsto espressamente nell'art. 613 del cod. pen.) bensì quello di ridurre la vittima da persona capace a persona in totale stato di soggezione. Questo totale stato di soggezione indicato dall'art. 603, annienterebbe il determinismo della vittima sostituendo il determinismo del plagiante a quello del plagiato in guisa da ridurre questo ultimo nello stato di cosa che pensa e agisce come pensa e agisce il plagiante”.

Invero, per distinguere la suggestione (determinante l’esclusione della capacità di autodeterminazione, condotta punita anche dalle proposte legislative in esame) dalla mera persuasione, il giudice dovrebbe essere in grado di poter valutare l’intensità, la qualità e i risultati dell’attività psichica del soggetto agente; tuttavia, già nel 1981, i “testi psichiatrici, psicologici e psicoanalitici” e le “ampie descrizioni mediche di condizionamento psichico” avevano sancito l’impossibilità di accertare concretamente sino che punto l’attività del soggetto agente possa impedire al soggetto passivo il libero esercizio della propria volontà, non potendosi infatti verificare “sino a qual punto l’attività del soggetto esternante idee e concetti possa impedire ad altri il libero esercizio della propria volontà” e “sino a qual punto l’attività del soggetto attivo non riguardi direttive e suggerimenti che il soggetto passivo sia già disposto ad accettare” (cfr., ancora, § 13 sentenza n. 96/1981). 

Sennonché, prosegue la Corte, non si conoscono né sono accettabili i modi con i qualisi può effettuare l'azione psichica del plagio né come è raggiungibile il totale stato di soggezione.  Ed invero, “è estremamente difficile se non impossibile individuare sul piano pratico e distinguere a fini di conseguenze giuridiche - con riguardo ad ipotesi come quella in esame - l'attività psichica di persuasione da quella anche essa psichica di suggestione. Non vi sono criteri sicuri per separare e qualificare l'una e l'altra attività e per accertare l'esatto confine fra esse.”

Conclude pertanto la Consulta, pervenendo così alla nota declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 603 c.p. per difetto di determinatezza, che non “è dimostrabile, in base alle attuali conoscenze ed esperienze, che possano esistere esseri capaci di ottenere con soli mezzi psichici l'asservimento totale di una persona”.

La fattispecie è stata quindi ritenuta carente sul versante del principio di determinatezza, e dunque dell’onere per il legislatore di formulare "ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti nella realtà" e accertabili sulla base della scienza e dell'esperienza attuale.

Tali conclusioni scientifiche non risultano, allo stato, superate; né i disegni di legge in esame – e le relazioni introduttive - paiono fornire elementi utili a superare i descritti approdi della scienza medica e psicologica, con la conseguenza che le criticità sollevate dalla Consulta e poste a fondamento della sua decisione devono ritenersi tutt’ora attuali.

Anche le due fattispecie di cui ai disegni di legge in esame - che rievocano concetti analoghi a quelli contenuti nell’art. 603 c.p. – stridono quindi con i principi di determinatezza e con il principio di tassatività previsto dall’art. 25 Cost.

Nonostante il tentativo di dettagliare maggiormente il comportamento penalmente rilevante, infatti, le fattispecie esaminate potrebbero incorrere in censure di costituzionalità di tenore equivalente a quelle evidenziate dalla Corte Costituzionale nella sentenza sul delitto di plagio.   

Con riferimento al disegno N. 1496, occorre infatti osservare anzitutto che difettano parametri certi che consentano al giudice di accertare la sussistenza di un “perdurante stato di soggezione tale da escludere […] la libertà di autodeterminazione o la capacità di discernimento”; lo stesso deve dirsi per quanto concerne l’accertamento della sussistenza di un “perdurante stato di soggezione tale […] da limitare in modo rilevante” - e non da escludere- la libertà di autodeterminazione o la capacità di discernimento”. Manca infatti qualsivoglia sicuro criterio di giudizio per accertare l’intensità dell’attività di condizionamento posta in essere dal soggetto attivo, non potendosi verificare sino a quale punto la stessa si innesti su convinzioni e idee già radicate nel soggetto passivo; da qui l’inevitabile arbitrio che connoterebbe la concreta applicazione delle fattispecie esaminate da parte dell’organo giudicante.

Medesime considerazioni devono essere formulate con riferimento al disegno di legge num. 1515: la “soggezione” di cui al reato di plagio è qui sostituita dalla “manipolazione, persuasione emotiva o psicologica” come mezzo per alterare la volontà di una persona o modificarne la visione della realtà, con l'effetto - quale evento del reato - di mutarne il comportamento di vita o indurre la persona offesa a vivere all'interno di una comunità o gruppi. Invero, a meno di non voler aderire a teorie già pacificamente ritenute infondate dalla comunità scientifica, non si può non considerare che il cosiddetto “lavaggio del cervello” praticato da gruppi definiti - anche nelle relazioni accompagnatorie ai disegni di legge- “sette” non sia assolutamente recepita quale concetto scientifico. Sul punto, si evidenzia che già la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Jehovah’s Witnesses of Moscow and Others c. Russia 10 giugno 2010 ha affermato che “non esiste una definizione comunemente accettata e scientifica di che cosa costituisca controllo mentale”.

In secondo luogo, si profila il rischio di violazione di alcune libertà costituzionali, quali la libertà personale, religiosa, di espressione e di associazione.

Incriminare la condotta di un soggetto che pone in essere il suo comportamento “nell’ambito di un gruppo che promuove o pratica attività finalizzate a creare o a sfruttare una condizione di dipendenza psicologica o fisica dei partecipanti”,  o che induce  a “vivere all’interno di comunità o gruppi” infatti rischia di ricomprendere anche individui inseriti in gruppi che svolgono attività che - pur considerate del tutto lecite nel nostro ordinamento - sono di per sé idonee a cagionare o a sfruttare una condizione di dipendenza psico-fisica.  

In merito a tale aspetto, già la Consulta nella sentenza n. 96/1981 aveva rimarcato che una condizione di dipendenza psicologica non necessariamente deve ritenersi di per sé patologica, atteso che, tra individui, “l'esternazione da parte di un essere umano di idee e di convinzioni su altri esseri umani può provocare l'accettazione delle idee e delle convinzioni così esternate e dar luogo ad uno stato di soggezione psichica, nel senso che questa accettazione costituisce un trasferimento su altri del prodotto di un'attività psichica dell'agente e pertanto una limitazione del determinismo del soggetto. Questa limitazione, come è stato scientificamente individuato ed accertato, può dar luogo a tipiche situazioni di dipendenza psichica che possono anche raggiungere, per periodi più o meno lunghi, gradi elevati, come nel caso del rapporto amoroso, del rapporto fra il sacerdote e il credente, fra il Maestro e l'allievo, fra il medico e il paziente ed anche dar luogo a rapporti di influenza reciproca.” (cfr. §13 Corte Cost., sentenza n. 96/1981).  

Ad avviso della Consulta, tale variabilità di situazioni (anche lecite) in cui possono verificarsi condizioni di dipendenza psicologica, comporta, nei fatti, che il magistrato arbitrariamente possa decidere se perseguire o meno, ai sensi dell’art. 603 c.p., condotte di aderenza “cieca e totale” da parte di un soggetto nei confronti di altri, verificabili anche in contesti leciti.

Lo stesso rischio di arbitrarietà è insito nei disegni di legge analizzati: questi sembrano collocare la condotta del soggetto agente nell’ambito di gruppi che promuovono o praticano attività anche potenzialmente lecite tra le quali anche quelle rientranti in professioni quali, ad esempio, la psicoterapia; invero, il legislatore non pare richiedere che dette attività siano finalizzate “in via esclusiva” a creare o a sfruttare una condizione di dipendenza psico-fisica, o di alterazione della volontà del soggetto passivo, ben potendo, dunque, tale fine coesistere con altri scopi.

Le norme non specificano che grado di dipendenza le attività debbano ingenerare nei destinatari delle stesse (nel caso del d.l. 1496) o quale sia il grado di alterazione della volontà originaria del soggetto passivo (nel caso del d.l. 1515) potendo la dipendenza psico-fisica, o il mutamento dei comportamenti di vita,  come si è detto, sorgere anche in contesti fisiologici; né sembra che le norme prevedano che la creazione o sfruttamento della condizione di dipendenza psico-fisica debba essere soggettivamente voluta dal gruppo, limitandosi a stabilire che l’attività svolta dal gruppo debba essere oggettivamente finalizzata a creare o sfruttare tale condizione di dipendenza dei partecipanti nel primo caso e che vi sia il dolo specifico di realizzare un profitto, nel secondo.  

Potrebbero allora potenzialmente rientrare nell’ambito di operatività delle proposte legislative anche le azioni di individui inseriti in gruppi che svolgono attività consentite dal nostro ordinamento come, ad esempio, associazioni o gruppi religiosi e sportivi, lasciando dunque alla scelta (o, meglio, all’arbitrio) del magistrato la decisione di perseguire o meno le condotte di cui trattasi.

Ne consegue il potenziale conflitto con alcuni diritti inviolabili e costituzionalmente garantiti, quali quelli di manifestazione del pensiero, ma anche di riunione, di associazione, di religione.

Entrambi i testi incidono infatti su condotte che possono consistere in comunicazione persuasiva (predicazione, counselling, proselitismo, formazione motivazionale): nel DDL 1496, l’evento di “soggezione perdurante” indotta “nell’ambito di un gruppo” è descritto senza una tassativa individuazione dei mezzi, con il rischio che forme intense ma lecite di persuasione, se seguite da adesioni forti o cambiamenti di vita, vengano lette ex post quali prodromi di soggezione. Nel DDL 1515, l’alterazione della volontà con distorsione della realtà si lega a “condotte reiterate” mediante “mezzi” in parte tipizzati (isolamento, tecniche ipnotiche, abuso di psicoterapia, sottomissione) e in parte “altri mezzi” non definiti: tale formula aperta rischia uno scivolamento sulla manifestazione di idee (religiose, ideologiche, filosofiche).

Quanto alla libertà religiosa (art. 19 Cost.), la mancanza di indicatori normativi che distinguano ascetismo volontario e condizionamento abusivo espone la norma al rischio di interferenza con l’area inviolabile dell’art. 19 Cost., nella misura in cui il giudizio penale si trasformi in una valutazione di contenuti o stili di vita religiosamente orientati. 

La previsione di condotte “nell’ambito di un gruppo” (1496) e l’esito di “vivere in comunità o gruppi” (1515) si intersecano con l’esercizio ordinario del diritto di associarsi per scopi leciti, incidendo così direttamente sulla libertà di associazione ex art. 18 Cost. In assenza di un chiaro nucleo abusivo (violenza, minaccia, inganno qualificato, abuso di posizione, sfruttamento), la tipizzazione può quindi generare un effetto dissuasivo (“chilling effect”) sulla formazione e sul funzionamento di associazioni religiose, culturali, educative.

Sotto il profilo sistematico, inoltre, occorre evidenziare che entrambe le proposte presuppongono, nella fattispecie base, che la persona offesa sia capace di intendere e di volere: ciò si ricava, da un lato, dal testo dell’art. 613-quater nel DDL 1496 (che non richiama l’incapacità), dall’altro, dal DDL 1515, che tratta la minore età o la ridotta capacità come aggravanti e non come elementi costitutivi. Ne deriva una tensione sistematica tra lo stato di “soggezione tale da escludere o limitare in modo rilevante la libertà di autodeterminazione” (o condotte quali ipnosi e sottomissione) e la permanenza della capacità legale della vittima, potendosi di fatto ipotizzare due possibili esiti: 

(a) se, in concreto, la volontà della vittima risulta realmente annullata, il fatto tende a sovrapporsi all’area dell’art. 613 c.p. (stato di incapacità procurato), rendendo ridondante la previsione di aggravanti ad hoc;

(b) se, invece, la vittima rimane capace, la nuova incriminazione finisce per intercettare forme di influenza o persuasione intensa, con possibile interferenza con le libertà di manifestazione del pensiero, religione e associazione.

 

Si prospettano, infine, ulteriori criticità di natura processuale, sotto il versante probatorio.

Si allude, in particolare, alla difficoltà di accertare e, quindi, di provare in giudizio quel “rapporto [tra il colpevole e la vittima] tale che il primo acquista sulla seconda completa padronanza e dominio, annientandone la libertà nel suo contenuto integrale, impadronendosi completamente della sua personalità[2], tradotto dalla dottrina più autorevole e dalla giurisprudenza come un vero e proprio “stato di soggezione psichica o psicologica”.

La tipizzazione delle condotte di cui si propone l’introduzione si scontra infatti con i limiti probatori dell’ordinamento, in particolare il divieto di perizia criminologica e, più in generale, con le regole della prova scientifica.

Sotto il profilo probatorio, il giudice è infatti tenuto ad accertare il nesso causale tra la condotta asseritamente manipolativa e l’evento di assoggettamento della persona offesa, verificandone l’efficacia eziologica in concreto. Si tratta di un accertamento intrinsecamente complesso, perché investe la personalità dell’imputato e la sfera psichica della vittima; è tuttavia imprescindibile per evitare derive verso forme di responsabilità d’autore fondate sulla sola intenzione o sull’idoneità astratta della condotta.

Sotto questo profilo, rimangono problematici i criteri di distinzione tra persuasione e suggestione: tale valutazione richiede infatti di apprezzare intensità, qualità e risultati dell’azione psichica in un contesto nel quale è fisiologico che relazioni paritarie possano generare influenze anche marcate (adesioni ideali, scelte di vita, mutamenti di condotta).

È chiaro che l’individuazione dei criteri per distinguere la persuasione dalla suggestione è questione complessa che attiene al merito del processo, poiché il giudice deve confrontarsi sia con l’intensità dell'attività psichica del soggetto attivo, sia con la qualità e i risultati di essa. Tale conclusione – occorre ribadirlo – è indefettibile in un sistema penale come quello italiano, incentrato sulla materialità del fatto e sulla concreta offensività dello stesso. In assenza di indicatori normativi e di standard comuni di accertamento, tuttavia, il giudizio rischia di divenire fortemente discrezionale, con esiti non omogenei e dipendenti dal caso concreto.

Qualche indicazione proviene ancora una volta dal giudice delle leggi, il quale, con riferimento all’accertamento dell’intensità dell’attività psichica, ha richiamato gli studi psichiatrici, psicologici e psicoanalitici, affermando che “ogni individuo è più o meno suggestionabile, ma che non è possibile graduare ed accertare in modo concreto sino a qual punto l'attività psichica del soggetto esternante idee e concetti possa impedire ad altri il libero esercizio della propria volontà”.

Più complessa è, invece, l’analisi del secondo profilo, ossia della “qualità” dell’azione psichica dell’agente, poiché – scrive la Corte – “non è acquisito sino a qual punto l'attività del soggetto attivo non riguardi direttive e suggerimenti che il soggetto passivo sia già disposto ad accettare”. Non è possibile, quindi, svolgere un esame della capacità e del grado di “condizionamento”, rispettivamente, dell’agente e della vittima, perché è impossibile definirli a priori e per giunta in assenza di criteri univoci.

Si tratta, con tutta evidenza, di una valutazione “altamente discrezionale”, che impone all’interprete di considerare la rilevanza di fenomeni sociali o, meglio, sociologici, sicuramente intrisi anche da riflessioni di ordine morale. Al più, un criterio guida potrebbe essere individuato nel c.d. criterio medio, dovendosi il giudice porre nella posizione di un soggetto mediamente libero e consapevole delle proprie decisioni.

Il problema è dunque destinato a riproporsi in ogni eventuale giudizio in cui potrebbe essere contestato il delitto in questione, fermo restando che in ogni caso non sarà possibile individuare né accertare le attività e gli effetti che potrebbero concretamente esplicarsi sulla vittima. Tale esito è confermato anche dalla prassi giudiziaria nel vigore del precedente delitto di plagio, i cui dati mostrano che solo in pochi casi – quelli in cui un’attività di condizionamento era lapalissiana – è stata giudizialmente accertata la sussistenza di un condizionamento psichico.

Alla luce di quanto sin qui rappresentato, lo strumento fornito dal sistema processuale per svolgere un accertamento sulla capacità e sull’entità di un comportamento psichico a condizionare un altro soggetto è rappresentato, principalmente, dalla perizia.

Questa, tuttavia, incontra il limite dell’art. 220 c.p.p.: non è ammessa per accertare il carattere o la personalità dell’imputato, né qualità psichiche non patologiche. La ratio della previsione va individuata, da un lato, nell’esigenza di non andare contra reum e preservare la libertà morale dell’imputato[3] e, dall’altro, nel principio della formazione della prova sulla base di dati oggettivi, che possano razionalmente spiegare lo svolgimento di un fatto e l’eventuale movente.

La perizia è quindi utilizzabile per profili patologici (capacità d’intendere e di volere; pericolosità sociale), mentre è preclusa ogni indagine criminologica sull’attitudine al controllo dell’altrui volontà. Un simile esito, ancorché non espressamente menzionato o considerato dal legislatore, si porrebbe in aperto contrasto con i valori costituzionali e i principi del giusto processo, poiché, in primo luogo, l’accertamento giudiziale si fonderebbe quasi esclusivamente sulla personalità dell’imputato. Questo approccio risulterebbe foriero, oltre che di un dispendio di energie processuali, anche di errori giudiziari, poiché una condanna o un’assoluzione dipenderebbero dal modo con cui l’imputato si rapporta con l’esperto e dall’eventuale approccio collaborativo nel corso della perizia.

Ciò premesso, tali considerazioni ben si adattano all’analisi della condotta di manipolazione, rispetto alla quale è rilevante – come si è visto – l’accertamento dell’effetto psichico dell’azione manipolativa.

Orbene, se i caratteri di un comportamento manipolativo possono essere delineati in applicazione di criteri valutativi di tipo fattuale - ancorati allo svolgimento della condotta materiale - gli stessi non consentono però di soddisfare l’accertamento relativo alla effettiva idoneità a condizionare la psiche della vittima. In altri termini, a difettare sarebbe la stessa offensività della condotta incriminatrice.

Occorre, altresì, ben guardarsi dall’introduzione surrettizia, nell’ambito del processo penale, di risultati criminologici tramite una perizia che apparentemente si limiti a valutare la capacità di intendere e di volere dell’imputato. E infatti, è frequente che una perizia contenga delle parti valutative relative alla persona dell’imputato, nelle quali l’esperto potrebbe dare risalto ad aspetti “personalistici” e talvolta più intimi, come timori, stati di frustrazione, sindromi di abbandono, etc. Tutti elementi che, considerati isolatamente, potrebbe costituire una violazione palese del divieto posto dall’art. 220 c.p.p.

Un utile supporto potrebbe ricavarsi, al contrario, dalla persona offesa-teste[4] poiché l’analisi della personalità della persona offesa potrebbe costituire un valido punto di partenza per accertare il grado di condizionamento e, però, solo indirettamente l’intensità dell’azione psichica.

In ogni caso, si tratta di un accertamento in cui si innesta il rischio di operare una valutazione “appiattita” sulla sola condizione di debolezza, vulnerabilità e fragilità della presunta vittima.

E allora, maggiore e più rigoroso deve essere il confronto con gli elementi oggettivi, specie quando la persona offesa già versi in una semplice deficienza psichica che, senza sconfinare nel caso patologico, importi uno stato di menomazione del potere di critica e di indebolimento di quello volitivo, che sia tale da rendere possibile l'altrui opera di suggestione. Se questo fosse sufficiente, il giudice potrebbe condannare un soggetto per la sussistenza di una mera possibilità di condizionamento o di suggestionabilità.

Pur riconoscendo la finalità – meritevole sul piano della tutela della libertà di autodeterminazione – di rafforzare il contrasto alle pratiche manipolative, l’assetto delineato dalle proposte non appare, allo stato, soddisfacente sotto i profili della tassatività/determinatezza (art. 25, comma 2, Cost.), della prova e della compatibilità con le libertà di cui agli artt. 21, 19 e 18 Cost.; permane, in particolare, il rischio di traslare il sindacato penale verso una valutazione dei contenuti del pensiero, del credo o delle forme associative lecitamente scelte dagli individui nonché l’oggettiva difficoltà di verificare in sede processuale le condotte di cui si propone la tipizzazione.

Seppure sotto alcuni profili, le dinamiche di manipolazione e soggiogamento appaiono inoltre già presidiate dall’ordinamento penale. In tale prospettiva, si richiamano in particolare le fattispecie di “stato di incapacità procurato mediante violenza (art. 613 c.p.)[5]”, maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), riduzione in schiavitù[6] (art. 600 c.p.), circonvenzione di incapaci (art. 643 c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.) nonché abbandono di persone minori o incapaci (art. 591 c.p.), estorsione (629 c.p.) ed esercizio abusivo della professione (art. 348 c.p.). Assumono poi rilievo ulteriori fattispecie, come il sequestro di persona ex art 605 c.p.(norma che ha trovato applicazione giurisprudenziale in relazione a casi, non infrequenti, in cui la manipolazione si sia tradotta in una privazione coattiva della libertà personale, con conseguente sensibile innalzamento della suggestionabilità della vittima), la violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), le lesioni personali (art. 582 c.p.) e l’associazione per delinquere (art. 416 c.p.). Ne consegue che, allo stato, rimangono privi di tutela esclusivamente i “puri” condizionamenti psichici, coerentemente alle considerazioni poste alla base della dichiarazione di incostituzionalità della fattispecie di plagio di cui all’art. 603 c.p.

Si rileva, infine, che, in un’ottica di coerenza sistematica, possono privilegiarsi interventi mirati mediante l’introduzione di circostanze aggravanti comuni applicabili ai reati già vigenti quando il fatto sia commesso mediante manipolazione sistematica, abuso di vulnerabilità o abuso di relazioni di cura, con aumenti di pena proporzionati a intensità, durata ed esiti lesivi, così da evitare sovrapposizioni e duplicazioni sanzionatorie.

Qualora, invece, venisse mantenuta la proposta d’introduzione di una fattispecie ad hoc, appare opportuno quantomeno:

-  l’inserimento di una clausola di salvaguardia che escluda dall’area del penalmente rilevante la manifestazione di idee, il proselitismo e le scelte religiose o filosofiche non accompagnate da violenza, minaccia, inganno su fatti essenziali o abuso di particolare vulnerabilità, nonché prive di sfruttamento economico o sessuale;

-  la tipizzazione dell’abuso, ancorando la rilevanza penale a condotte qualificanti (inganno fraudolento; coercizione morale qualificata; abuso di autorità/posizione fiduciaria; controllo coercitivo in senso tecnico) e a esiti verificabili (isolamento imposto; trasferimenti patrimoniali ingiustificati; prestazioni sessuali condizionate; divieti sistematici di cura/istruzione/lavoro);

-  una definizione delimitativa dell’evento, con prova di una compromissione significativa e attuale della capacità di autodeterminarsi, secondo indicatori legali (intensità, durata, tendenza all’irreversibilità, marcatori comportamentali) che distinguano l’adesione libera dall’assoggettamento abusivo.

Approvato all’unanimità dal Comitato Direttivo Centrale nel corso della seduta dell’8 novembre 2025

[1][1] Sotto tale profilo, la giurisprudenza di merito aveva precisato che “il delitto di plagio si realizza anche quando l'agente aggredisce la sfera psichica di altra persona in modo da annullare la di lei personalità, sostituendovi la propria, sottraendole ideali, propositi, e imponendole i propri, disgregando ogni consapevolezza della propria individualità, facendone un cieco seguace del proprio volere, delle proprie idee, un automa privo di ogni facoltà di critica, soggiogato dalla più forte volontà di chi lo guida in un mondo non suo, in cui le idee sono accettate come l'unica possibilità di espandere la propria personalità”.

[2] Cfr. relazione di accompagnamento del progetto di codice penale del 1930 sull’art. 603 c.p. (precedente delitto di plagio).

[3] Cass. Pen., Sez. I, 13 settembre 2006, n. 30402, ha chiarito che «il divieto è posto a garanzia dell’imputato al fine di sottrarlo ad indagini psicologiche da cui potrebbero trarsi elementi confessori ovvero comunque attinenti alla sua responsabilità al di fuori delle garanzie difensive e degli strumenti di acquisizione della prova previsti dal c.p.p.».

[4] Come ha chiarito anche la Corte di cassazione, la deposizione della stessa “proprio perché essa può essere assunta da sola come fonte di prova, deve essere sottoposta a una rigorosa indagine positiva sulla credibilità anche soggettiva, che deve essere verificata pure sotto il profilo della capacità di testimoniare ai sensi del secondo comma dell'art. 196 stesso codice: la verifica della “idoneità mentale” è rivolta ad accertare se la persona offesa sia stata nelle condizioni di rendersi conto dei comportamenti tenuti in pregiudizio della sua persona e del suo patrimonio e sia in grado poi di riferire in modo veritiero siffatti comportamenti” .

[5] Trattasi della norma più vicina a quella di proposta introduzione e punisce "chiunque mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcoliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato di incapacità di intendere e di volere”. La fattispecie si presenta come sufficientemente tipizzata rispetto all’abrogato delitto di plagio e astrattamente applicabile ad una vasta gamma di fattispecie concrete, tenuto conto del riferimento alla formula aperta “con qualsiasi altro mezzo” nonché alla ritenuta impossibilità di considerare validamente prestato il consenso di chi versi in condizioni di deficienza psichica o comunque la cui acquiescenza sia stata carpita con violenza, minaccia suggestione o inganno. Il riferimento allo stato di incapacità di intendere e di volere, tuttavia, ne ha di fatto limitato grandemente l’applicabilità, in ragione della non esatta sovrapponibilità dei condizionamenti derivanti dalla manipolazione mentale e dal c.d. brainwashing, al concetto giuridico di incapacità

[6] Il reato di riduzione in schiavitù ha trovato applicazione giurisprudenziale in quei casi in cui le condotte di manipolazione e condizionamento si siano tradotte in violenze o pressioni psicologiche costituenti trattamenti inumani o degradanti, tali da compromettere anche la capacità di autodeterminazione della vittima. L’ampia formulazione del secondo comma della norma – che fa riferimento anche ad inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, nonché alla promessa (o dazione) di somme di denaro o altri vantaggi - appare idonea ad adattarsi alle plurime forme di manifestazione della condotta di manipolazione.