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ORGANI ANM | Documenti ufficiali
24 aprile 2012

Parere su ddl 3249

L'introduzione di un rito sommarioper assicurare ai licenziamenti una "tutela urgente" [art. 17]rischia di congestionare la domanda di giustizia presso i tribunalisenza produrre utili effetti per le parti del processo, poichés'innesta su meccanismi già noti e consolidati nelle prassigiudiziarie. Lo scrive l'Anm nel parere inviato alla CommissioneLavoro e Previdenza Sociale del Senato sul disegno di legge 3249 intema di riforma del mercato del lavoro.


Gli aspetti problematici
della riforma del mercato del lavoro

(disegno di legge n. 3249 Senato della
Repubblica)



Le diverse opzioni in merito alla
disciplina sostanziale della materia dei licenziamenti, che
coinvolge beni costituzionali di primaria grandezza, con
implicazioni di grande rilievo per l'economia e nelle relazioni tra
Lavoro ed Impresa, sono scelte politiche generali, quindi di
competenza esclusiva del Parlamento e delle forze politiche e
sociali.



La Magistratura associata, nel
rispetto delle competenze istituzionali, non rinuncia a partecipare
al dibattito sui valori sottesi alle diverse opzioni possibili in
materia di mercato del lavoro, e non farà mancare, come sempre, il
suo apporto.



Aderendo all'invito formalmente
presentato dalla Commissione Lavoro e Previdenza Sociale del Senato
a segnalare nell'immediato il parere della Magistratura sugli
effetti che l'entrata in vigore della riforma avrebbe sulla
giustizia del lavoro, l'Anm, sotto un profilo meramente pratico
nonché tecnico-processuale, ritiene di dover, sin d'ora,
evidenziare alcuni aspetti problematici, in particolare in
relazione alla cosiddetta tutela urgente introdotta con il «rito
speciale per le controversie in tema di licenziamenti», di cui agli
articoli da 16 a 21 del disegno di legge.





  1. L'impostazione del disegno di
    legge - secondo cui per accelerare i tempi dei processi sui
    licenziamenti semplicemente si abbreviano i termini processuali
    -  non fa i conti con la realtà degli uffici giudiziari. La
    proposta di riforma è a "costo zero", ed è assente un preventivo
    studio di fattibilità o di verifica della compatibilità con le
    attuali risorse a disposizione. Ogni riforma processuale dovrebbe
    essere sostenuta da una indispensabile previsione dei mezzi e delle
    persone necessari per renderla concretamente praticabile. Sarebbe
    stato, pertanto, opportuno procedere ad una preventiva ancorché
    rapida rilevazione statistica, il più possibile precisa, onde poter
    valutare l'entità del numero di nuove cause in entrata ed il
    relativo peso su tutto il territorio nazionale. La discussione
    parlamentare andrebbe, quindi, accompagnata da una urgente e
    precisa ricognizione scientifica sull'impatto della riforma, a
    risorse invariate.




  2. Andrebbe considerata l'eventualità
    che il problema della lentezza dei processi in materia di lavoro
    possa in realtà non trovare la sua causa nelle norme processuali.
    Il rito del lavoro, a quarant'anni  dalla sua entrata in
    vigore, appare ancora adeguato così com'è, essendo un modello
    insuperato per tecnica normativa, chiarezza e concisione.
    Modificarlo con l'introduzione di "riti speciali" non convince la
    maggior parte dei Colleghi che operano in questo delicato settore.
    L'introduzione di un rito sommario per assicurare ai licenziamenti
    una "tutela urgente" [art. 17] rischia in altri termini di
    congestionare la domanda di giustizia presso i tribunali senza
    produrre utili effetti per le parti del processo, poiché s'innesta
    su meccanismi già noti e consolidati nelle prassi giudiziarie. Il
    rito del lavoro è caratterizzato da una tempistica dettata mediante
    termini processuali ordinatori sulla falsariga delle disposizioni
    generali degli artt. 415 e 416 cpc, le quali non hanno però
    impedito ai giudici oberati da carichi ingestibili, di
    disattenderli sistematicamente: questa situazione è necessitata
    soprattutto ove ciascun giudice del lavoro si trovi a gestire
    migliaia di procedimenti pro capite.




  3. Ne consegue che il vero problema
    da affrontare è costituito dai carichi di lavoro, che non
    consentono di rispettare i tempi già previsti dalle norme in
    vigore, tempi che sono sicuramente già celeri se soltanto li si
    potesse applicare. Nel testo presentato alle Camere per
    l'approvazione si legge che le controversie in materia di
    licenziamento "dovrebbero" essere trattate entro 30 giorni dalla
    data del deposito del relativo ricorso. Più in particolare, nel
    disegno di legge, i termini per la fissazione della prima udienza
    in primo grado sono di 30 giorni per la prima fase sommaria e di 60
    per la seconda fase di opposizione (da svolgersi sempre davanti al
    giudice di primo grado). Orbene, già oggi la legge (art. 415, comma
    3, c.p.c.) prevede un termine di soli 60 giorni per la fissazione
    della prima udienza di merito nel rito del lavoro. Sicché, sotto
    tale profilo, il termine previsto nel disegno di legge è pari, per
    quanto concerne la fase sommaria, ad appena la metà del termine che
    già oggi, teoricamente, ma solo teoricamente, la legge prevede per
    la trattazione del rito ordinario. Ed il termine per la fissazione
    dell'udienza nel giudizio di opposizione è esattamente pari a
    quello oggi vigente per il giudizio di merito (60 giorni). Eppure,
    in non pochi uffici giudiziari, i numeri del contenzioso sono tali
    che i tempi per la fissazione della prima udienza, in difformità
    della previsione astratta dell'art. 415 c.p.c., raggiungono anche i
    dodici - diciotto mesi. Ed è già nella prassi degli uffici
    giudiziari organizzare il calendario delle udienze in modo tale da
    consentire la trattazione con priorità delle cause di
    licenziamento, dove per "priorità" deve intendersi circa la metà
    dei tempi ordinari. Dunque, sotto il profilo della celerità la
    riforma rischia di essere priva di concreto significato, da un lato
    perché l'osservanza dei termini ivi previsti sarà, nella gran parte
    dei casi, impossibile (cosicché, nei fatti, i tempi saranno quelli
    già in uso prima della riforma), e dall'altro perché comunque
    questo rapporto tra tempi di definizione del giudizio di merito in
    materia di lavoro e tempi specifici di una causa in materia di
    licenziamento, sostanzialmente basato su un'abbreviazione alla metà
    dei termini ordinari (che la riforma fissa in rapporto di 60 giorni
    / 30 giorni), è già in uso negli uffici giudiziari. In questo
    contesto tutti i tribunali hanno cioè già individuato corsie
    preferenziali, nella tempistica, per le cause di
    licenziamento.




  4. Il suddetto "rito speciale" si
    sovrappone inoltre alla già esistente tutela d'urgenza, ex art. 700
    c.p.c., già accordata a buona parte dei processi per licenziamento,
    con la differenza che con il disegno di legge si dà prevalenza
    all'oggetto (peraltro quello dichiarato dalla parte) della domanda
    (impugnativa di licenziamento) piuttosto che ai requisiti d'urgenza
    che nel caso concreto giustifichino l'adozione di una "corsia
    preferenziale". Con l'art. 17, invece, l'esigenza dell'urgenza si
    reputa insita ex lege nell'oggetto della domanda, anche quando
    dovesse rivelarsi concretamente insussistente (ad es. perché la
    persona licenziata è un dirigente ovvero ha percepito a fine
    rapporto un trattamento economico assai cospicuo). Dunque, mentre
    fino ad oggi questa corsia preferenziale è stata riservata solo ai
    licenziamenti di chi, per effetto della risoluzione del rapporto,
    rischia di vedere pregiudicati, nel tempo occorrente per far valere
    il diritto in via ordinaria, quegli standard minimi per
    un'esistenza libera e dignitosa, la riforma allarga in modo
    indifferenziato la tipologia delle cause rientranti nella tutela
    d'urgenza , oltretutto senza possibilità per il giudice di operare
    un discrimine tra l'una e l'altra situazione. Si intravede insomma
    il forte rischio che nel medio periodo questa corsia preferenziale
    possa sensibilmente sovraffollarsi, con effetti dannosi sui tempi
    dei giudizi.




  5. Allarmante appare la scelta di
    aprire tale tipologia di processo sommario ai giudizi nei quali sia
    in discussione la «qualificazione del rapporto». Dunque,
    procedimenti anche di estrema complessità, quali non solo quelli
    aventi ad oggetto l'accertamento della natura subordinata di
    rapporti di lavoro non formalizzati, quanto e soprattutto quelli
    concernenti l'impugnativa di contratti a progetto, a termine, di
    somministrazione, finiranno in questa "corsia processuale" della (a
    questo punto puramente illusoria) tutela "urgente", con un
    meccanismo pure irrispettoso delle esigenze di studio della causa
    da parte del giudice. A ciò si aggiunga che non dalla verifica in
    concreto, ad opera del giudice, di specifiche ragioni d'urgenza,
    bensì dal solo "oggetto" della domanda deriverà l'assegnazione del
    processo al rito sommario, e ciò potrebbe costituire un incentivo
    per i difensori ad inserire un'impugnativa di licenziamento in
    tutte le cause per differenze retributive proposte con riferimento
    a rapporti già risolti (siano essi contratti di lavoro subordinato,
    a termine o a tempo indeterminato, ovvero a progetto, di
    collaborazione coordinata e continuativa, o quant'altro).




  6. Ancora, un palese effetto
    inflattivo del contenzioso deriverà dalla duplicazione dei giudizi
    di licenziamento in primo grado. Il processo davanti al giudice
    monocratico di primo grado, infatti, si sdoppia automaticamente in
    due fasi, con un giudizio di opposizione che costringerà un secondo
    (e diverso) giudice ad occuparsi della medesima vicenda sempre in
    primo grado, con un prevedibile allungamento dei tempi complessivi
    di definizione dei processi in materia di lavoro. Un meccanismo che
    riguarderà un numero forse assai rilevante di cause, tale da
    contribuire a determinare irrisolvibili problemi di incompatibilità
    in uffici giudiziari caratterizzati da un basso numero di giudici
    del lavoro (in non pochi uffici, oggi, è previsto in organico un
    solo giudice monocratico). Sarà, cioè, problematico per i tribunali
    con un solo giudice del lavoro previsto in tabella assegnare la
    seconda parte del procedimento d'urgenza (un po' come per l'attuale
    procedimento di opposizione ex art. 28). Reclamo in appello e
    (comunque ineludibile) ricorso per cassazione completano il quadro
    di una insostenibile moltiplicazione di fasi di giudizio, che
    davvero non trova forse una ragione plausibile, e che, di fatto
    contribuirà efficacemente alla  possibile paralisi del
    contenzioso.




  7. Se non accompagnata da misure
    organizzative che partano dalla verifica dell'adeguatezza degli
    organici (o ad esempio dall'assegnazione di un numero determinato
    di Got a trattare le cause di lavoro/previdenza meno delicate
    previa specifica formazione da parte del Csm), la riforma
    comporterà un ingiusto ed ulteriore rallentamento delle cause
    "normali", rischi di speculazioni nel tentativo di abusare della
    corsia veloce, e un consistente aumento delle controversie ai sensi
    della Legge Pinto con relativo danno erariale. Il tutto avendo
    considerato il rischio che i numeri del contenzioso potrebbero
    rivelarsi in misura tale da rendere i nuovi termini di legge
    difficilmente attuabili. Naturalmente può anche prendersi atto che
    la valutazione di una possibile ricaduta negativa in termini di
    aumento del carico di lavoro del magistrato non può essere un
    motivo sufficiente per esprimere pregiudizialmente un parere
    dubitativo sulla riforma processuale. L'aumento del carico di
    lavoro potrebbe (in teoria) non essere un effetto inderogabile
    della riforma ed inoltre il provvedimento sommario potrebbe
    rivelare tendenziali effetti definitivi e non comportare
    necessariamente un aumento delle cause. Tuttavia deve rimarcarsi
    che l'attuale assetto normativo del rito del lavoro pone già il
    giudice nella condizione di gestire tempi e modi del contenzioso
    con sufficiente responsabilità dei risultati conseguiti se il
    carico che gli è assegnato è compatibile. Quando e dove può
    funzionare, il processo del lavoro funziona bene. Meglio sarebbe,
    dunque, intervenire dotando il giudice di mezzi anche a costi
    ridotti (strumenti informatici, personale di assistenza per la
    collaborazione nella stesura di atti o negl'incombenti istruttori
    più elementari), anche ad es. con opportune convenzioni, piuttosto
    che imporre nuove ed improbabili vie processuali.




  8. Deve, poi, constatarsi
    l'attribuzione al giudice del lavoro della scelta se reintegrare o
    no sulla base di una valutazione dell'"evidenza"
    dell'illegittimità, "evidenza" che non potrà non avere, come è
    facile prevedere, interpretazioni diverse. La riforma sembra
    favorire , dunque, elementi di incertezza. Ed infatti se fino ad
    oggi la certezza è maggiore e minori sono i margini di
    discrezionalità del giudice, poiché vi sono solo due possibili
    esiti (o licenziamento legittimo e rigetto del ricorso, o
    licenziamento illegittimo e reintegrazione), con la riforma vi
    sarebbero ipotesi intermedie per le quali occorreranno anni per
    consolidare interpretazioni giurisprudenziali su concetti come la
    "manifesta insussistenza del fatto" e simili. Senza volere
    sindacare l'autonomia legislativa si devono perciò esprimere
    perplessità circa l'introduzione di categorie giuridiche nuove in
    una materia dagli orientamenti giurisprudenziali ormai consolidati,
    laddove l'attribuzione di una scelta tra reintegra e indennizzo
    aprirebbe scenari d'imprevedibilità per le parti (per le imprese,
    in particolare) non minori di quelli oggi ravvisati per i tempi di
    durata della cause ex art. 18 l. 300/70.




  9. Il quadro delineato dalla proposta
    di riforma mutua da sistemi stranieri  il tentativo di
    bilanciare i maggiori spazi consentiti all'impresa per recedere dal
    contratto di lavoro con l'adozione di nuovi strumenti di formazione
    e ricollocazione per i lavoratori licenziati. Questa operazione di
    bilanciamento appare però squilibrata da due elementi oggettivi: 1)
    la mancata previsione di fasi transitorie per la nuova disciplina
    dei licenziamenti, che rischia di esporre i lavoratori a lunghi ed
    irrisolvibili situazioni di disoccupazione in attesa che venga
    pienamente attuato il meccanismo dei nuovi ammortizzatori sociali;
    2) la scarsa o nulla partecipazione delle imprese a quest'ultimo
    meccanismo, partecipazione che avrebbe costituito - proprio sulla
    base delle esperienze straniere - un sicuro fattore dissuasivo da
    licenziamenti ingiustificati, creando altresì un efficace filtro
    preventivo al contenzioso in materia.