Rivista "La Magistratura" - Gennaio - Dicembre 2016 - Anno LXIII - Numero 1-2

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Gennaio - Dicembre 2016 Anno LXV - Numero 1 - 2

Quali riforme? 62 Verso il tramonto della giustizia

minorile?

84

Innovazione degli Uffici giudiziari e Ufficio del processo

130

La prescrizione del reato: principi europei e anomalie italiane

154

Ricorsi dei richiedenti asilo, uffici giudiziari in emergenza


La Magistratura Periodico a cura dell’Associazione Nazionale Magistrati Le opinioni espresse in ciascun articolo sono proprie dell’autore e possono non coincidere con quelle della redazione o della direzione o con la linea dell’ANM

Direzione e Amministrazione Roma - Palazzo di Giustizia, presso l’Associazione Nazionale Magistrati Telefono: 06/6861266 Fax: 06/68300190 Sito internet: www.associazionemagistrati.it

Direttore responsabile Rosa Polito

Direttore editoriale Concetta Potito

Comitato di redazione Tommasina Cotroneo Liana Esposito Rossana Giannaccari Paolo Guidi Francesca Pirelli Concept grafico dol www.dol.it


Editoriale

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“La Magistratura”, rivista aperta alla società di Concetta Potito

Associazione/Attualità

8 Giustizia paralizzata di Gaetano Balice 12 Luci e ombre del nuovo concorso in magistratura di Lorenzo Delli Priscoli 22 Le procedure di accesso alla magistratura di Sara Pedone 44 Cooperazione giudiziaria e diritto sovranazionale di Giancarlo Dominijanni 46 Pari opportunità di Francesca Bonanzinga 52 Organizzazione del lavoro e informatizzazione di Rossella Marro 56 Report dell’Ufficio Sindacale dell’ANM di Marcello Basilico, Pasquale Grasso, Ilaria Pepe, Alfonso Scermino

Ordinamento

62 Verso il tramonto della giustizia minorile? di Tommasina Cotroneo 72 L’indipendenza va conquistata a colpi di diritto di Christophe Régnard 84 Innovazione degli Uffici giudiziari e Ufficio del processo di Rossella Marro Penale

90 L’eterno dibattito tra magistratura e politica in tema di intercettazioni di Eugenio Albamonte 96 Linee guida sulle intercettazioni di Armando Spataro 118 Intercettazioni, repressione dei reati e garanzie: una convivenza difficile di Matilde Brancaccio

130 La prescrizione del reato: principi europei e anomalie italiane di Antonio Balsamo 136 Intercettazioni, no a norme che depotenzino lo strumento investigativo Documento del CDC

Civile

140 Aspetti positivi e criticità nel disegno di legge delega per l’efficienza del processo civile presentato alla Camera dei deputati l’11 marzo 2015 di Francesco De Santis

152 Documento sulla legge delega per la soppressione delle commissioni tributarie approvato dal Comitato Direttivo Centrale il 21 maggio del 2016

154 Ricorsi dei richiedenti asilo, Uffici giudiziari in emergenza. L’ANM chiede al Ministero misure per far fronte all’aumento esponenziale delle domande Documento del CDC


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“La Magistratura”, rivista aperta alla società

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5 Questo che state cominciando a sfogliare è il primo numero de “La Magistratura” realizzato dopo l’insediamento ai vertici dell’Associazione Nazionale Magistrati di una giunta unitaria che ha voluto onorarmi del compito di dirigere la nostra rivista di discussione e approfondimento. Nelle intenzioni mie e della redazione “La Magistratura” si sforzerà di consolidare l’apertura a tutte le opinioni interne al vasto corpo della magistratura associata e anche a qualificate voci esterne che possano arricchire il nostro dibattito. Un particolare impegno metteremo nel coinvolgere giovani colleghi desiderosi di contribuirvi. Nello spirito che è proprio di questa esperienza unitaria nell’ANM, cercheremo di dare equilibrata attenzione a tematiche diverse che stanno a cuore a noi tutti, da quelle più schiettamente sindacali a quelle del confronto con il mondo delle istituzioni, a quelle di più ampio respiro culturale che sottendono all’impegno di ogni magistrato. L’esigenza di grandi riforme e piccoli aggiustamenti nella macchina della Giustizia si fa, in questi tempi, particolarmente sentire. Penso alle condizioni difficili nelle quali tutti noi ci troviamo a lavorare, dal nord al sud del paese, con carichi di lavoro spesso, se non sempre, impossibili da affrontare e alla conseguente impossibilità di rendere una giustizia che sia al servizio degli utenti, che riesca a tutelare davvero e in tempi celeri i diritti. Penso alle difficoltà nelle quali lavorano gli avvocati, i cancellieri e tutto il personale amministrativo. Per troppo tempo in Italia si è dimenticato che la giustizia è un servizio, così come lo sono la sanità, la scuola e l’università, settori tutti trascurati, ma in grado di creare le migliori condizioni per un vero ed effettivo rilancio del paese. Daremo, volta per volta, il nostro contributo per una valutazione su quelle che potrebbero essere le migliori condizioni per rendere effettivo il sistema giustizia. Non trascuriamo i dibattiti attuali, poiché non crediamo a una chiusura della magistratura verso i grandi temi del momento, e non solo quelli più legati al nostro lavoro, ma quelli che stanno determinando profondi cambiamenti nel tessuto sociale e culturale del paese. È importante che i magistrati non restino chiusi nel proprio ambiente di riferimento, ma che abbiano una visione ampia e globale della società della quale fanno pur sempre parte. Ho sempre creduto, infatti, che sia essenziale una vera e propria apertura dell’Associazione Nazionale Magistrati verso il cosiddetto mondo esterno, verso la società. È solo creando una base comune che i problemi riescono ad essere dapprima compresi e poi affrontati nel processo di loro risoluzione. In questo primo numero si è dato conto del lavoro svolto sinora dalle commissioni di studio istituite presso l’Associazione Nazionale Magistrati. Esse approfondiscono i temi attuali, dalla questione dei carichi esigibili alle pari opportunità, dalla riforma del processo civile a quella del diritto penale. È, infatti, importante, sotto questo profilo, ribadire il ruolo culturale svolto dall’ANM, proprio nell’ottica di quell’apertura a cui ho prima accennato. Naturalmente saranno i lettori a giudicare il risultato del nostro lavoro. Io e la redazione ci aspettiamo di poter usufruire dei vostri contributi e suggerimenti. Il Direttore editoriale

Concetta Potito

Editoriale


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Associazione ATTUALITà

Associazione/Attualità


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Giustizia paralizzata* Gaetano Balice Avvocato penalista

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9 Il grido di allarme lanciato dal presidente della Corte d’appello di Napoli si segnala per la sua gravità, ma la situazione descritta è nota da tempo e corrisponde ai dati nazionali. È di alcuni mesi fa la notizia della chiusura del Tribunale di Monza, un giorno a settimana, disposta dai vertici dell’Ufficio giudiziario per consentire ai superstiti cancellieri di compiere il lavoro che risulta irrealizzabile se si deve contemporaneamente rispondere all’utenza. Chiudere un Tribunale per carenza di organico o bloccare 50.000 processi significa produrre un’insanabile denegazione di giustizia, consacrare la certezza dell’impunità, cancellare la fiducia delle vittime dei reati nella giustizia. Significa il tormento per l’imputato condannato in primo grado che confida nell’assoluzione in appello (evenienza non rara) mentre dovrà confrontarsi con il dilaniante tema delle rinuncia alla prescrizione. Significa il trionfo degli imputati arroganti, quelli che fanno del torto il loro mestiere confidando nell’inefficienza del sistema giudiziario che diventa l’ineffabile complice che rende il delitto perfetto, non perseguibile. Eppure, nella condizione in cui si trovano i Tribunali italiani, scaricare la colpa su di un singolo funzionario o magistrato in funzione apicale è impossibile. In verità, la categoria professionale che paga dazio c’è: l’avvocatura, seppur non immune da responsabilità, paga un prezzo immediato. Un sistema giudiziario credibile ha come indotto una professione sana, selezionata meritocraticamente, giustamente retribuita non importa se dal privato o dallo Stato. Un giorno di chiusura settimanale di un Tribunale o 50.000 processi fermi producono un corrispondente calo del reddito del sistema professionale forense, una crisi nella crisi che si sta manifestando su tutto il territorio nazionale. Partendo dall’amara e insuperabile constatazione che qualsiasi riforma va fatta a costo zero o quasi, occorre una nuova visione del sistema giudiziario che contempli una netta distinzione tra una pubblica amministrazione giustizia e una pubblica amministrazione giurisdizione. L’efficienza della

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10 prima garantisce l’effettività della seconda. Riformare la pubblica amministrazione giustizia è più semplice perché non investe i temi caldi – anche costituzionali – che ruotano intorno alla giurisdizione. Si pensi alla tela di Penelope sulla prescrizione o le riforme quali la separazione delle carriere o quella che vorrebbe sottrarre al P.m. l’acquisizione della notitia criminis. Per non parlare dell’incessante produzione di fattispecie penali foriere più di incertezze interpretative che di reali risposte alla domanda di protezione dei cittadini. Temi caldi che bloccano ogni ragionamento e impediscono di trovare soluzioni condivise. Occorre, quindi, porsi su di un piano di riforme più agevole ispirandosi ai criteri che sono propri del buon andamento e dell’efficienza della pubblica amministrazione. Nel fare questo non si potrà non tenere conto che, proprio a causa della grave situazione economica in cui versa lo Stato e delle regole sul turnover, tutti i settori della pubblica amministrazione stanno realizzando una forte politica di accentramento degli uffici. A parte la chiusura delle Province, le Prefetture, le Agenzie delle Entrate, gli Ospedali stanno concentrando il loro personale in uffici centrali che garantiscano almeno la continuità del servizio. La dislocazione sul territorio degli Uffici giudiziari – ancora ispirata a criteri preunitari – deve essere calibrata non solo sulle esigenze del territorio (non dimenticando la digitalizzazione) ma anche sui numeri di forza lavoro a disposizione e sui risultati (leggi sentenze!). Perché per una Corte d’appello bloccata (il caso di Napoli è emblematico ma non giungono notizie diverse dalle principali Corti d’appello) ci sono Tribunali che chiudono per carenza

di organico e che non producono sentenze. Occorre spiegare ai partigiani dei campanili (tra cui annovererei magistrati, avvocati e rappresentanti politici) che non basta garantire un “Tribunale vicino casa per tutti”, ma è necessario che la struttura fornisca il servizio giustizia richiesto, al contrario si inaugurerà un tempio dedicato alla denegata giustizia. Si tratta di un tema ostico e foriero di polemiche strumentali; è questo il motivo per cui abbiamo assistito a clamorosi dietrofront (spesso nell’imminenza di tornate elettorali) rispetto ad annunciate chiusure di Uffici giudiziari perfino per quelli dove siedevano solo Giudici di pace. Magari, nel circondario del Tribunale di Monza, ci sono Uffici del giudice di pace che assorbono energie lavorative che, se poste in sinergia con quelle del Tribunale, potrebbero consentire quanto meno la continuità del servizio. Il paradosso è che Uffici giudiziari periferici assorbono forza lavoro dagli Uffici centrali senza che si proceda a un immediato avvicendamento dei posti vacanti, così entrambi gli uffici restano parzialmente scoperti garantendo solo le procedure urgenti. Questo, in verità, accade anche per i magistrati con l’ulteriore aggravio dovuto ai tempi per la sostituzione. Ciò è avvenuto per il Tribunale di Napoli Nord. Magistratura e avvocatura entusiaste del nuovo insediamento; pare che manchino il 50% degli amministrativi e numerosi magistrati. È assurdo: lo Stato prima di insediare un nuovo Ufficio giudiziario non si preoccupa di coprire l’intero organico amministrativo e spesso nemmeno quello togato. È in corso di realizzazione il concorso per circa mille nuovi posti di lavoro nell’amministrazione

La dislocazione sul territorio degli Uffici giudiziari deve essere calibrata anche sui numeri di forza lavoro a disposizione e sui risultati

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giudiziaria a fronte di una carenza unanimemente riconosciuta di novemila unità. A mio avviso, la nuova energia lavorativa non dovrà essere dispersa in miriadi di Uffici giudiziari, bensì dovrà essere distribuita sul territorio dopo aver provveduto a disegnare una nuova geografia giudiziaria impermeabile alle resistenze dei carrierismi e dei campanili avendo come riferimento principale la continuità del servizio giustizia. Occorre un’azione forte, decisa e coraggiosa da parte del Governo: si indicano gli ”Stati Generali della Pubblica Amministrazione Giustizia” in

cui si faccia, da parte di tutti gli operatori del settore, una volta per tutte, il punto della situazione e si individuino le soluzioni, regolamentari e legislative, per garantire un sistema amministrativo idoneo a supportare la funzione giurisdizionale così da garantire efficienza, professionalità ed effettività del sistema giudiziario italiano.

Serve un’azione forte, decisa e coraggiosa da parte del Governo: si indicano gli “Stati Generali della Pubblica Amministrazione Giustizia”

*L’articolo amplia i temi oggetto di un intervento dello stesso autore pubblicato su Repubblica Napoli il 5 luglio 2016.

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luci e ombre del nuovo concorso in Magistratura Lorenzo Delli Priscoli Magistrato addetto al Massimario della Cassazione

La proposta di legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario Una commissione di studio guidata da Michele Vietti ha di recente predisposto un progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario sfociato in una proposta di legge delega, la cui discussione in Parlamento è imminente. Tale proposta ha ad oggetto non solo la disciplina dell’accesso in magistratura, ma si inserisce in un più ampio quadro di riforme della giustizia che riguardano anche: 1) una revisione della geografia giudiziaria, attraverso una più razionale distribuzione territoriale delle Corti d’appello; 2) una riforma degli illeciti disciplinari e delle incompatibilità dei magistrati; 3) una riforma del sistema delle valutazioni di professionalità e di conferimento degli incarichi; 4) una riforma dei trasferimenti di sede e di funzioni dei magistrati; 5) una riorganizzazione degli uffici del Pubblico Ministero. Venendo alla riforma della disciplina del concorso in magistratura, le modifiche più rilevanti sono due: i requisiti per accedere al concorso e i contenuti delle prove scritte.

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I requisiti per accedere al concorso La prima modifica della disciplina del concorso in Magistratura consiste in un parziale ritorno al passato, consentendo l’accesso al concorso ai neolaureati in giurisprudenza ma non a tutti: soltanto a coloro che abbiano un voto di laurea pari o superiore a 108/110 e una media di almeno 28/30 1 negli esami più importanti . 1 Questo il testo della proposta di un nuovo art. 2, comma 1-bis del d.lgs. n. 160 del 2006 (l’art. 2, comma 1, è dedicato ai requisiti necessari per accedere al concorso in magistratura): Al concorso sono ammessi altresì, anche se privi dei requisiti di cui al comma 1 [ossia i dipendenti dello Stato laureati in giurisprudenza e con almeno 5 anni di servizio, i ricercatori o professori universitari, coloro che possiedono il diploma della scuola di specializzazione per le professioni legali o coloro che hanno frequentato uno stage formativo di almeno 18 mesi presso un ufficio giudiziario; con la riforma non sono invece più sufficienti il titolo di avvocato o il titolo di dottore in ricerca in materie giuridiche: mentre quanto al titolo di avvocato purtroppo, a seguito del sostanziale svuotamento dell’esame di abilitazione – e conseguentemente dell’art. 33, comma 5 Cost. - causato dalla possibilità – in nome della libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione europea - di divenire avvocati all’estero senza un esame di abilitazione – attualmente questa possibilità esiste in Spagna o Romania – per poi trasferirsi in Italia, effettivamente questa modifica può avere un senso, ritengo che escludere dal concorso in magistratura i possessori di un titolo prestigioso, e che soprattutto comporta una forte applicazione nello studio come il dottorato, sia contraddittorio perché dimostra sfiducia nei confronti dell’Università, la quale al contempo è molto responsabilizzata perché le si affida il compito di decidere quali laureati possano accedere direttamente al concorso perché possessori di voti alti e quali no; inoltre penalizzerebbe eccessivamente coloro che hanno iniziato il corso di dottorato contando poi di partecipare al concorso in magistratura, senza iscriversi a una Scuola, oltretutto incompatibile con la frequentazione del dottorato], i laureati in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito al termine di un corso universitario di durata non inferiore a

Condivido pienamente lo spirito della riforma nella parte in cui si sforza di contrastare l’eccessivo innalzamento dell’età media di coloro che superano l’esame. Nella relazione illustrativa si sottolineano giustamente le conseguenti ricadute previdenziali sui neogiudici entrati tardi in magistratura: io però vorrei evidenziare anche, e forse soprattutto, che, con la legge attualmente in vigore, rischiamo di perdere molti giovani brillanti neolaureati, potenziali bravissimi magistrati. Oggi infatti, per quei giovani brillanti neolaureati, il concorso in magistratura non è più appetibile come un tempo, perché all’allungamento dei tempi dovuto al fatto di dover obbligatoriamente frequentare una scuola di specializzazione o uno stage formativo si aggiunge la quasi assoluta incertezza sui tempi successivi: il bando del concorso in magistratura non è coordinato con la fine della scuola e i requisiti per partecipare al concorso devono essere posseduti al momento della scadenza del bando e non al momento degli scritti. Accadrà così ad esempio che ai prossimi scritti in magistratura per 350 posti, che si svolgeranno ai primi di luglio, non potranno accedere, come invece sarebbe logico, coloro che avranno appena conseguito il diploma della scuola di specializzazione. Questa assoluta incertezza sui tempi, senza contare quelli relativi alla correzione degli scritti e, ultimamente, quelli che vanno dalla conclusione del concorso all’effettiva chiamata in servizio, rende quanto mai difficile per quel brillante giovane neolaureato resistere alla tentazione di entrare immediatamente nel mondo del lavoro, magari presso lo studio legale del professore con il quale ha discusso la tesi. Non vorrei sembrare eccessivo nello scomodare l’art. 3, comma 2, della Costituzione, ma non possono poi nascondersi oggettivi problemi nell’assicurare l’uguaglianza sostanziale tra quattro anni e che abbiano riportato una media di almeno 28/30 negli esami di diritto costituzionale, diritto privato, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, diritto processuale penale, diritto del lavoro e diritto amministrativo, nonché un punteggio di laurea non inferiore a 108/110.

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14 i candidati: spesso la scelta di entrare subito nel mondo del lavoro, per quel brillante giovane neolaureato, è quasi obbligata per l’impossibilità di chiedere alla famiglia di essere mantenuto negli studi a tempo indeterminato, senza oltretutto poter garantire a se stesso e alla famiglia la sicurezza di diventare magistrato, e con la consapevolezza che, fallite le prove in magistratura e quindi a distanza di 5-10 anni, quel professore con il quale ha discusso la tesi potrebbe molto probabilmente non essere più interessato a quel dottore in giurisprudenza, pur sempre brillante ma ormai non più giovanissimo, non più neolaureato e quasi sicuramente anche avvilito e scoraggiato. Un suggerimento utile sarebbe quello di modificare e rendere più incisivo il testo dell’art. 1, comma 1, 2 del d.lgs. n. 160 del 2006 , prevedendo che debba svolgersi tutti gli anni uno scritto i primi giorni di luglio; che possano accedervi tutti coloro che prima di tali scritti siano in possesso del diploma della scuola di specializzazione o degli altri requisiti richiesti dalla legge e che i posti messi a concorso siano non solo tutti quelli scoperti ma anche quelli relativi ai magistrati che sicuramente andranno in pensione nei successivi due anni, in modo da riuscire a garantire tendenzialmente l’obiettivo del pieno organico nella magistratura, che è uno dei problemi che maggiormente affligge e danneggia la giustizia italiana, soprattutto perché, come ampiamente risaputo, le maggiori scoperture riguardano i posti meno ambiti e dove invece più vi sarebbe bisogno di magistrati. La situazione è aggravata anche dalla circostanza che attualmente la selezione per l’accesso alle scuole di specializzazione per le professioni legali è di fatto praticamente nulla, dato che i posti messi a concorso sono superiori al numero delle richieste e che non sono indicati criteri, nemmeno in linea di massima, per la selezione dei candidati, 2 La nomina a magistrato ordinario si consegue mediante un concorso per esami bandito con cadenza di norma annuale in relazione ai posti vacanti e a quelli che si renderanno vacanti nel quadriennio successivo, per i quali può essere attivata la procedura di reclutamento.

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di modo che le commissioni incaricate possono decidere di promuovere anche coloro che, per ipotesi, abbiano errato tutte le risposte (si tratta in questo caso di una selezione a quiz, organizzata a livello nazionale con correzione centralizzata dei moduli a lettura ottica consegnati ai candidati). Si pensi poi che le Università hanno il massimo interesse ad ammettere tutti coloro che fanno domanda, perché pagano una sostanziosa retta alle Università stesse. Una maggiore selezione in questa fase – aspetto sul quale invece il progetto di riforma non interviene – potrebbe forse aiutare a scoraggiare da subito quegli

I posti messi a concorso sono superiori al numero delle richieste


15 aspiranti magistrati non particolarmente brillanti che invece, accedendo alla scuola, si illudono di poter sostenere con successo il concorso in magistratura. Del resto in Francia la selezione dei magistrati avviene per entrare all’École nationale de la Magistrature (Scuola nazionale della Magistratura), e quindi prima, non dopo la Scuola, come invece avviene da noi. Sotto questo aspetto potrebbe essere utile rimeditare la distinzione, che avviene con la riforma, tra i “bravi”, che possono accedere subito al concorso, e coloro che invece devono prima frequentare la Scuola. L’esperienza infatti insegna che molto spesso lacune in un aspirante magistrato che hanno determinato voti non particolarmente brillanti all’Università non vengono colmate mediante la Scuola, e questo non per particolari carenze delle Scuole stesse, ma semplicemente perché spesso si tratta di lacune dei neolaureati per così dire “strutturali”, che cioè si trascinano dalla scuola dell’obbligo e dalle scuole superiori, e che si manifestano, prima che in carenze giuridiche, in gravi difficoltà nell’esprimere il pensiero in maniera corretta, sia da un punto di vista grammaticale che dell’organizzazione del pensiero (forse non del tutto irragionevolmente in passato l’accesso alla facoltà di giurisprudenza era consentito solo a coloro che avevano conseguito la maturità classica). Anche le Università non sono probabilmente del tutto esenti da colpe, in quanto troppo spesso trascurano del tutto l’esercizio della scrittura, dimenticando

che la professione del giurista impone quasi sempre l’uso continuo dell’arte dello scrivere. Tirando le fila del discorso, sarebbe quindi forse paradossalmente più utile consentire senza distinzione a tutti i neolaureati in giurisprudenza di accedere subito al concorso, in modo da permettergli di sapere dopo un numero accettabile di anni (il tempo di partecipare a tre concorsi in magistratura), se la loro strada è quella della magistratura o se invece sono più adatti per altri lavori, parimenti dignitosi. Da ultimo non può non evidenziarsi come in questo modo si eviterebbe il rischio di una corsa verso le Università ritenute più facili e generose nei voti, il che, a catena, determinerebbe la forte tentazione, per le Università stesse, che delle rette universitarie vivono, di mostrarsi effettivamente più generose e maggiormente condiscendenti con gli studenti, con un prevedibile incremento in breve tempo degli aspiranti magistrati abilitati a partecipare al concorso con la sola laurea e senza ulteriori requisiti, con inevitabile ulteriore ingolfamento delle procedure concorsuali.

I contenuti delle prove scritte La seconda modifica della disciplina del concorso in Magistratura consiste nell’introduzione allo scritto,

Molto spesso le lacune non vengono colmate mediante la Scuola

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16 al posto di una delle prove di diritto civile, penale o amministrativo, della “redazione di una sentenza, che postuli conoscenze di diritto sostanziale e di diritto 3 processuale” . Quanto a tale proposta di modificare una delle prove dell’esame scritto, sinceramente non riscontro questa impellente esigenza di cambiare il taglio esclusivamente teorico del concorso, che per tanti anni ha prodotto ottimi risultati, selezionando per la magistratura italiana delle menti eccelse. L’introduzione di una prova pratica di redazione di una sentenza a scapito di una prova teorica rischia di apparire solo l’indice (come lo era stata la disastrosa introduzione della prova preselettiva a quiz) di una ricerca della modernità a tutti i costi e di una certa acritica soggezione a modelli giuridici anglosassoni di common law che privilegiano la pratica rispetto alla teoria nei cui confronti la cultura giuridica romanistica e italiana ha davvero poco da invidiare. Il pericolo è infatti quello di dimenticare che per i vincitori del concorso è previsto un lungo, articolato e approfondito tirocinio prima di prendere le funzioni, che ha proprio lo scopo, tra le altre cose, di apprendere la tecnica di redazione delle sentenze, che solo attraverso una pratica reale a fianco di un magistrato può essere davvero compresa e digerita. Quello prima del concorso invece, sempre a mio sommesso avviso, è soprattutto il tempo dello studio, della riflessione teorica, che richiede tempo per sedimentare le idee e consentire i collegamenti, tempo che purtroppo, quando si entra nel mondo del lavoro, viene inevitabilmente ad essere sempre più carente. Conseguenza della modifica normativa oltretutto sarà quella di ampliare le discipline 3 Questo il testo della proposta di un nuovo art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 160 del 2006. 3. La prova scritta consiste nello svolgimento di tre elaborati, rispettivamente vertenti sul diritto civile, sul diritto penale e sul diritto amministrativo. Due elaborati sono di natura teorica e il terzo di natura pratica, consistente nella redazione di una sentenza, che postuli conoscenze di diritto sostanziale e di diritto processuale. L’abbinamento fra i tre elaborati e le tre materie è sorteggiato dalla Commissione.

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di studio per lo scritto: mentre attualmente per prassi il diritto processuale amministrativo già può sostanzialmente essere oggetto della prova scritta di diritto amministrativo, una notevole indiretta novità della riforma è quella di “costringere” gli aspiranti magistrati a preparare per lo scritto anche procedura civile e procedura penale, dato che la prova pratica che “postuli conoscenze di diritto processuale” viene decisa per sorteggio appunto tra penale, civile e amministrativo. Questo ampliamento delle discipline potrebbe apparentemente essere considerata una novità positiva: tuttavia è evidente che la quantità non può che andare inevitabilmente a scapito della qualità; inoltre le procedure difficilmente possono essere realmente comprese e fatte proprie senza la pratica sul campo di cui ho già parlato. Temo inoltre che le Scuole di specializzazione e le Università non siano attualmente in grado di fornire agli studenti un’adeguata preparazione per 4 la redazione di una sentenza , con il forte rischio 4 La relazione illustrativa alla legge delega in tema di scuole di specializzazione prevede che nelle Scuole debbano essere tenuti corsi sia di tipo pratico che teorico, ma è prevedibile che non tutte le Scuole riusciranno ad assicurare corsi del genere, anche perché, in assenza di precedenti, ancora non è chiaro in


17 di preparazione al concorso in magistratura. Senza considerare che il sorteggio della prova pratica introduce inevitabilmente un fattore “fortuna” nel concorso, dato che i candidati potrebbero scegliere di non studiare una o due delle tre 5 sperando procedure astrattamente richieste nella buona sorte.

Qualche suggerimento

di un ulteriore rafforzamento delle scuole private cosa possa consistere esattamente la prova pratica: Art. [……] (Delega al Governo per la riforma della disciplina delle scuole di specializzazione per le professioni legali) 1. Il Governo, al fine di qualificare e definire il percorso formativo post universitario delle scuole di specializzazione di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, quale canale di accesso al concorso per magistrato ordinario, è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per la modifica della predetta disciplina, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: a) prevedere l’istituzione di scuole esclusivamente destinate all’accesso in magistratura. Ridefinire i criteri per la determinazione del numero di laureati da ammettere alle scuole di specializzazione di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, introducendo come parametro il numero dei posti relativi agli ultimi concorsi di magistrato ordinario; b) ridurre la durata delle scuole di specializzazione di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398 sino ad un massimo di 18 mesi e, conseguentemente, ridefinire i modelli didattici di formazione, stabilendo che devono contenere corsi sia di tipo pratico che teorico e prevedendo la piena autonomia didattica delle scuole, salva l’omogeneità dell’insegnamento nelle materie oggetto di prova scritta del concorso per l’accesso in magistratura;

Riterrei che lo scritto del concorso in magistratura dovrebbe selezionare coloro che hanno le maggiori capacità critiche, di ragionamento e di buona scrittura, privilegiando la scelta di argomenti non eccessivamente asfittici e circoscritti, i quali esaltano invece uno studio eccessivamente nozionistico e quindi inevitabilmente poco meditato. Un candidato deve poter ottenere un voto molto alto anche se non è a conoscenza dell’ultima sentenza sul tema oggetto di esame, purché dimostri spirito critico, capacità di orientarsi fra le norme e di sviluppare delle idee ragionevoli, non necessariamente in linea con la giurisprudenza prevalente o la dottrina dominante. Si sottolineano poi nella relazione illustrativa della riforma le difficoltà incontrate, da parte dell’Amministrazione, per l’organizzazione delle prove d’esame, nella gestione di un sempre crescente numero di candidati, e da parte delle commissioni d’esami, per l’allungamento dei tempi necessari per la correzione degli elaborati scritti e per lo svolgimento delle prove orali: su c) introdurre misure volte ad incentivare la possibilità delle scuole di specializzazione di consorziarsi al fine di ridurne il numero complessivo sul territorio nazionale per garantire un’offerta formativa maggiormente omogenea e qualificata; d) prevedere un esame unico nazionale, cui far conseguire il rilascio del diploma di specializzazione; e) prevedere che i laureati in possesso dei requisiti per l’accesso diretto al concorso in magistratura possano frequentare i corsi pratici delle scuole di specializzazione senza obbligo di sostenere l’esame finale. 5 Procedura civile, procedura penale e diritto processuale amministrativo.

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18 questo punto ritengo che, data la lunghezza complessiva dei tempi che ho illustrato in precedenza, costituisca garanzia per tutti che la Commissione d’esame, chiamata a un lavoro quanto mai delicato e importante, pur dovendo naturalmente lavorare a ritmi serrati, non abbia però anche “l’ansia di finire il prima possibile”, che potrebbe essere deleteria per il raggiungimento dell’obiettivo di selezionare davvero i migliori. Anche altri rimedi escogitati in passato, come una preselezione basata sui quiz, a mio avviso giustamente abbandonata, rischiavano di introdurre una selezione basata su un avvilente nozionismo che nulla ha a che fare con le doti che si richiedono a un bravo magistrato. Per contemperare le avvertite e ragionevoli esigenze 6 da un lato di consentire a tutti i neolaureati di accedere immediatamente al concorso e dall’altro di non caricare la commissione d’esame del compito di correggere una quantità esorbitante di elaborati, che per un verso rende estremamente difficile il mantenimento di un metro omogeneo di giudizio per l’intero periodo della correzione degli scritti e per un altro rende inevitabile la suddivisione in sottocommissioni, potrebbe pensarsi, prendendo spunto da quanto effettivamente escogitato dalla Camera dei deputati anni fa per la selezione dei suoi funzionari della carriera direttiva, a una preselezione aperta a tutti e consistente nello svolgimento di due prove scritte di diritto civile e di diritto penale, senza l’ausilio dei codici, su tematiche ampie e relativamente semplici, con due o al massimo tre ore a disposizione per 6 Si legge infatti nella relazione illustrativa: la riflessione della Commissione ha preso le mosse dall’analisi di problemi emergenti dall’applicazione dell’attuale disciplina dell’accesso in magistratura: 1) quello relativo all’eccessivo innalzamento dell’età media di coloro che superano l’esame… 2) quello relativo alle difficoltà incontrate, da parte dell’Amministrazione, per l’organizzazione delle prove d’esame, nella gestione di un sempre crescente numero di candidati, e da parte delle commissioni d’esami, per l’allungamento dei tempi necessari per la correzione degli elaborati scritti.

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ciascun elaborato (in modo che non possano essere eccessivamente lunghi da correggere). Questa preselezione permetterebbe di escludere dai veri e propri scritti tutti coloro che hanno limitate capacità giuridiche, logiche o di scrittura che, come purtroppo dimostra l’esperienza dei concorsi, sono la maggioranza degli aspiranti magistrati, e consentirebbe alla commissione da un lato di elaborare tracce meno specifiche (che inevitabilmente rendono più nozionistico lo studio e accentuano il fattore “fortuna” nella selezione dei candidati) e dall’altro di correggere un numero molto minore di scritti, con conseguenti benefici quanto all’omogeneità dei criteri di correzione. Quanto all’ipotizzato intervento di riforma delle scuole di specializzazione per le professioni legali, attualmente disciplinate dall’art. 16 del d.lgs. n. 398 del 1997, si prevede, tra le altre condivisibili modifiche, un’ampia autonomia delle scuole, salvo che nelle materie oggetto di prova scritta. Valuto positivamente tale modifica


19 purché tale norma possa interpretarsi nel senso che, nelle materie oggetto di svolgimento della loro autonomia, le scuole possano decidere di impartire gli insegnamenti oggetto delle prove scritte, così da creare una scuola per le professioni legali in cui oggetto della didattica siano solo le materie dello scritto in magistratura (che poi sono anche le stesse della prova scritta per diventare avvocato): mi permetterei infatti di consigliare maggiore pragmatismo e prendere atto che gli specializzandi, dovendo superare un concorso che di fatto si vince quasi sempre con il superamento degli scritti dato il bassissimo numero di ammessi agli orali (tradizione che io suggerirei di non abbandonare, perché allontana quello che sarebbe un deleterio sospetto di possibili raccomandazioni per i futuri magistrati), sono concentrati quasi esclusivamente su diritto civile, penale e amministrativo, potendo dedicarsi alle materie oggetto dell’orale nel significativo lasso di tempo che passa tra lo scritto e l’orale.

Non a caso, infatti, le frequentatissime (e molto costose) scuole private di preparazione al concorso in magistratura hanno sempre come insegnamenti esclusivamente quelli oggetto della prova scritta. A tale proposito appare irragionevole dimenticare, proprio in presenza del ricordato mancato coordinamento fra conclusione della scuola di

Una preselezione aperta a tutti sul modello di quella escogitata dalla Camera dei deputati

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20 specializzazione e prove scritte, l’assenza di un’offerta formativa legata alle università per gli specializzati (nonché per tutte le categorie di coloro che possono accedere al concorso) che li accompagni fino al concorso: l’esperienza attuale dimostra che i più motivati fra gli specializzati, una volta finita la Scuola e in attesa del concorso, si iscrivono alle già ricordate costosissime scuole private. Sotto questo punto di vista, l’indicazione nella legge delega di una riduzione della durata della Scuola può senz’altro considerarsi un passo avanti solo se si considera la frequentazione della Scuola come una necessità formale per ottenere il diploma necessario per accedere al concorso in magistratura; da un punto di vista sostanziale però

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21 una riduzione della durata delle Scuole non farebbe che aumentare ulteriormente gli spazi delle scuole private. Un suggerimento potrebbe dunque essere quello di strutturare il corso di studi delle Scuole su più anni, in modo da accompagnare il neolaureato dalla laurea al momento del concorso, rendendo però obbligatoria la frequentazione solo del primo anno. In questa maniera le Scuole verrebbero anche stimolate a puntare al massimo sulla qualità fin dal primo anno, nella speranza che i propri studenti, trovatisi bene, decidano di proseguire i loro studi all’interno della stessa Scuola. Un’ultima notazione su quello che potrebbe sembrare apparentemente un dettaglio e che invece dimostra la scarsa considerazione che, più o meno inconsciamente, si ha per coloro che abbiano una conoscenza delle lingue straniere, sicuramente utili, specie in una prospettiva futura, per un giovane magistrato. Attualmente, scelta confermata con la riforma, è previsto (art. 1, comma 4 del d.lgs. n. 160 del 2006) un colloquio su una lingua straniera: diventano magistrati coloro che ottengono un giudizio di idoneità nel colloquio sulla lingua straniera prescelta. Per quanto è a mia conoscenza, da quando è stata introdotta questa modifica, mai nessun aspirante magistrato è stato respinto all’orale solo per una inidoneità nella lingua straniera. Ciò è ben comprensibile: chi se la sentirebbe di respingere un aspirante magistrato che dopo aver superato gli scritti e tutte le numerose e complesse materie degli orali abbia poi mostrato una scarsa conoscenza della lingua straniera? Sarebbe allora forse più ragionevole attribuire alla lingua straniera la dignità di una materia come le altre, attribuendo alla commissione la possibilità di esprimere non un semplice giudizio di idoneità o meno ma un vero e proprio voto, in modo che il magistrato che abbia una perfetta conoscenza della lingua possa ottenere un giudizio più alto rispetto a chi riesca soltanto a biascicare e

7 storpiare qualche parola straniera . Nel complesso la riforma appare senz’altro introdurre delle incisive e utili modifiche alla disciplina dell’accesso alla magistratura ordinaria, anche se l’impressione generale è che tali modifiche siano state talvolta proposte senza una reale visione d’insieme e senza una piena ed effettiva conoscenza di tutti gli effettivi problemi che affliggono non solo la giustizia italiana ma anche i tantissimi aspiranti magistrati.

7 Dovrebbe altresì essere attribuita al candidato la facoltà di dimostrare la conoscenza di ulteriori lingue straniere, con conseguente possibilità per la commissione di innalzare il voto.

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LE PROCEDURE DI ACCESSO ALLA MAGISTRATURA

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Sara Pedone Magistrato Ordinario in Tirocinio presso la Corte d’appello di Lecce

Il sistema di accesso alla magistratura ordinaria è stato da sempre caratterizzato dalla concorsualità in aderenza ai principi costituzionali di cui all’art. 106 della Carta Fondamentale. L’articolo in esame infatti dispone che “Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso. La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli”. La selettività nella scelta dei magistrati ordinari trae origine dalla necessità di garantire una scelta imparziale dei candidati e di premiare in tal modo i più meritevoli che abbiano dato prova di possedere conoscenze giuridiche di livello elevato e capacità di ragionamento allo scopo di tutelare nella misura più ampia possibile i principi di cui all’art. 97 della Costituzione, che si rivolgono a tutti gli ambiti dell’operare della Pubblica Amministrazione e dunque alla stessa nella predisposizione e svolgimento delle procedure concorsuali. È da ricordare che è lo stesso articolo 97, nel disposto dell’ultimo comma, a ribadire che “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. La ratio meritocratica che anima il meccanismo del concorso in magistratura è tesa a garantire uguali possibilità di accesso a tutti gli aspiranti attraverso una valutazione obiettiva della capacità di svolgere la funzione giurisdizionale. Tale sistema è dunque direttamente collegato al principio di imparzialità della Pubblica Amministrazione che, al fine di tutelare l’interesse pubblico, non può che scegliere i più meritevoli utilizzando criteri il più possibile oggettivi e trasparenti. Il percorso concorsuale, tappa obbligata per divenire magistrati ordinari, come noto, è lungo e tortuoso anche per coloro che lo hanno vinto partecipandovi per la prima volta, poiché richiede una notevole preparazione tecnica nelle materie oggetto della prova scritta e della prova orale e una capacità di ragionamento tale da consentire al candidato di dimostrare di essere in grado di affrontare le problematiche che si possono presentare nello svolgimento della funzione giurisdizionale. La procedura selettiva più complessa è riservata però solo a coloro che intendono accedere alla funzione giurisdizionale in qualità di magistrati ordinari. Ed invero, procedure più semplici e meno rigorose sono previste per la selezione dei magistrati onorari che, in aderenza alle disposizioni normative, in particolare in ossequio al disposto di cui all’art. 106 della Costituzione, possono svolgere solo le funzioni attribuite ai giudici singoli. Ed infatti, contrariamente a quanto previsto per la magistratura ordinaria, per i magistrati onorari è la stessa Costituzione a consentire l’elusione dei criteri della concorsualità e a prevedere la possibilità di

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24 nomine elettive e dunque basate su criteri, almeno in parte, diversi rispetto a quelli che governano la selezione dei magistrati ordinari. La loro nomina è infatti fiduciaria anche se la legge disciplina i requisiti di accesso alla funzione, la durata degli incarichi, ne delimita le funzioni e i poteri e ne regolamenta le responsabilità (rispondono anche essi in base ai criteri dettati dalla legge 117/88). Anche essi, però, esercitano una funzione giurisdizionale, come disposto dall’art. 4 del r.d. n. 12/41 in base al quale la giurisdizione ordinaria è amministrata da giudici professionali e da giudici onorari che costituiscono l’ordine giudiziario. Questi ultimi rivestono un ruolo importante nell’amministrazione della giustizia in quanto si collocano al fianco dei magistrati professionali nelle duplici funzioni di giudicanti e requirenti in un’ottica di completamento e supplenza dei primi che, considerata la mole di lavoro e il numero comunque insufficiente del personale in organico, difficilmente sarebbero in grado di gestire tutti i procedimenti pendenti. L’incarico dei giudici onorari, a differenza di quello dei giudici ordinari, è caratterizzato da temporaneità e dalla corresponsione di un’indennità parametrata sostanzialmente all’attività svolta (per numero di sentenze redatte con riferimento ai giudici onorari e per ore di servizio con riferimento ai v.p.o.).

L’ATTUALE SISTEMA DI ACCESSO ALLA MAGISTRATURA Attualmente la procedura di accesso alla magistratura ordinaria è disciplinata dal d.lgs. 160/06 che regolamenta i requisiti per l’ammissione al concorso, la fase iniziale della presentazione delle domande, la composizione e le funzioni della commissione di concorso e lo svolgimento delle prove scritte e orali. Il concorso nel tempo ha subito una lenta, ma progressiva evoluzione. La relativa disciplina è stata infatti interessata da numerosi interventi legislativi tesi ad abbreviare le tempistiche delle procedure

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selettive e a garantire una maggior qualificazione professionale dei candidati. Sono state, infatti, apportate numerose modifiche tese a rendere da un lato la procedura più complessa sotto il profilo delle prove scritte e orali e dall’altro a consentire l’accesso alla magistratura ordinaria a soggetti che presentino un livello di preparazione maggiore rispetto a quello richiesto in passato. Con riferimento ai requisiti di partecipazione al concorso occorre segnalare che gli stessi sono stati soggetti a modifica. Ed invero, partendo dalla concezione della procedura come concorso di primo grado, dunque aperto ai neo laureati, si è passati a configurarlo alla stregua di un concorso quasi di secondo grado richiedendo dunque il possesso di requisiti aggiuntivi e tra loro, a volte, alternativi, ai fini della partecipazione alla selezione. I candidati, per essere ammessi al concorso, infatti, oltre al possesso dei consueti requisiti (essere cittadino italiano; avere l’esercizio dei diritti civili; essere di condotta incensurabile; essere fisicamente idoneo all’impiego; essere in posizione regolare nei confronti del servizio di leva al quale sia stato eventualmente chiamato; non essere stato dichiarato per tre volte non idoneo nel concorso per esami alla data di scadenza del termine per la presentazione della domanda), devono possedere dei requisiti che concernono la qualifica latu sensu professionale intesa come possesso dei titoli maturati nel corso del percorso post universitario. Sono previsti una serie di requisiti, tra loro alternativi, che ovviamente il candidato – limitatamente ad alcuni – potrebbe anche possedere cumulativamente. È infatti necessario che l’aspirante rientri, senza possibilità di cumulare le anzianità di servizio previste come necessarie nelle singole ipotesi, in una delle seguenti categorie: - magistrati amministrativi e contabili; - procuratori dello Stato che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; - dipendenti dello Stato, con qualifica dirigenziale o appartenenti a una delle posizioni corrispondenti


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26 all’area C, già prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro, comparto Ministeri, con almeno cinque anni di anzianità nella qualifica, che hanno costituito il rapporto di lavoro a seguito di concorso per il quale era richiesto il possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito, salvo che non si tratti di seconda laurea, al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni e che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; - appartenenti al personale universitario di ruolo docente di materie giuridiche in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; - dipendenti, con qualifica dirigenziale o appartenenti alla ex area direttiva, della pubblica amministrazione, degli enti pubblici a carattere nazionale e degli enti locali, che hanno costituito il rapporto di lavoro a seguito di concorso per il quale era richiesto il possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito, salvo che non si tratti di seconda laurea, al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, con almeno cinque anni di anzianità nella qualifica o, comunque, nelle predette carriere e che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; - abilitati all’esercizio della professione forense e, se iscritti all’albo degli avvocati, non incorsi in sanzioni disciplinari; - coloro i quali hanno svolto le funzioni di magistrato onorario (giudice di pace, giudice onorario di Tribunale, vice procuratore onorario, giudice onorario aggregato) per almeno sei anni senza demerito, senza essere stati revocati e che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; - laureati in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito, salvo che non si tratti di seconda laurea, al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni e del diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali previste dall’articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, e successive modifiche; - laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza, al termine di un corso universitario

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di durata non inferiore a quattro anni, salvo che non si tratti di seconda laurea, e hanno conseguito il dottorato di ricerca in materie giuridiche; - laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza a seguito di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, salvo che non si tratti di seconda laurea, e hanno conseguito il diploma di specializzazione in una disciplina giuridica, al termine di un corso di studi della durata non inferiore a due anni presso le scuole di specializzazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162; - laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza a seguito di un corso universitario di durata almeno quadriennale e che hanno concluso positivamente lo stage presso gli uffici giudiziari o hanno svolto il tirocinio professionale per diciotto mesi presso l’Avvocatura dello Stato, ai sensi dell’art. 73 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, nel testo vigente a seguito dell’entrata in vigore del


27 decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito con legge 11 agosto 2014, n. 114”. L’aspetto dei titoli di accesso al concorso è stato quello che nel tempo ha subito le modifiche più rilevanti. Ed invero, come anticipato ante, precedentemente l’accesso alla procedura selettiva era consentito con il solo possesso del titolo di laurea e di conseguenza ciò comportava una platea di aspiranti di età – mediamente – compresa tra i 24 e i 30 anni. Ciò dal punto di vista delle conoscenze tecniche poteva però comportare delle lacune cognitive dovute al mancato approfondimento delle tematiche più complesse che, per ragioni di tempo e di opportunità, all’Università non erano oggetto di trattazione. Ad oggi invece è richiesto il possesso dei titoli aggiuntivi sopra menzionati il che comporta una prima – ovvia – conseguenza: i candidati si

approcciano al concorso a un’età più avanzata rispetto al passato in quanto il percorso formativo necessario per raggiungere i requisiti richiesti è più lungo e complesso. Ovviamente ciò non sempre comporta una maggior preparazione, né garantisce l’idoneità all’esercizio della funzione giurisdizionale poiché, come noto, la teoria e la pratica sotto molti aspetti richiedono competenze diverse anche se nessuna delle due, da sola, è sufficiente per rendere il soggetto un buon magistrato. Proprio al fine di saggiare la reale capacità dell’aspirante magistrato all’esercizio della funzione giurisdizionale sono state da sempre previste delle prove teoriche atte a valutare le competenze tecnico giuridiche dei soggetti in possesso dei requisiti di ammissione. Le prove che il candidato deve superare si articolano in una duplice fase, la fase degli scritti – preliminare – e la fase successiva degli orali. A tal riguardo occorre ricordare che, precedentemente, la procedura selettiva era articolata in una triplice fase. Vi era infatti una fase preselettiva in cui il candidato doveva rispondere ai quiz in materia di diritto civile, penale e amministrativo che costituivano il principale scoglio per tutti gli aspiranti magistrati, non solo per la notevole difficoltà di affrontare una simile prova, ma anche per il tempo a disposizione, sempre insufficiente soprattutto se rapportato al numero di domande cui dover rispondere. Tale tecnica però garantiva una selezione durissima e dunque una netta riduzione del numero di partecipanti alle prove scritte vere e proprie. Detta fase però è da sempre stata aspramente criticata perché inutile ai fini dell’obiettivo del concorso, considerando che la funzione giurisdizionale non è nemmeno lontanamente simile alla soluzione di un quiz a risposta multipla, ma richiede capacità di ragionamento più che memoria. Di certo l’eliminazione è stata favorevolmente accolta da tutti gli aspiranti magistrati e sicuramente non ne è auspicabile la sua

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28 reintroduzione allo scopo di ridurre il numero di candidati e di conseguenza il numero delle prove scritte da correggere e in definitiva la durata complessiva della procedura selettiva. Le prove scritte che attualmente deve sostenere il candidato consistono nella stesura di tre elaborati strutturati come tema e concernono le principali materie giuridiche del nostro ordinamento, civile, penale e amministrativo. Per quanto concerne la prova in diritto amministrativo, in particolare, provengono da più parti aspre critiche tese a stimolarne l’eliminazione considerato che solo in limitati casi e per aspetti latu sensu marginali il giudice ordinario può occuparsi di tematiche che lambiscono tale branca del diritto. La modalità di svolgimento delle prove scritte è rimasta sostanzialmente immutata nel tempo in disparte l’eliminazione dei cenni di diritto romano all’interno della prova di diritto civile. La prova orale invece ha conosciuto una lunga evoluzione per quanto concerne il numero e l’oggetto delle materie attraverso le quali la stessa si snoda. Ed invero, molte delle materie attualmente oggetto della prova orale sono state aggiunte all’originario elenco che si è dunque incrementato comportando una crescente difficoltà per il candidato. Ed invero, andando a ritroso nel tempo si nota che fino al concorso Fumu, bandito con d.m. 23 marzo 2004, le materie erano tredici, non erano infatti oggetto di esame il diritto commerciale, fallimentare ed elementi di ordinamento giudiziario. Deve inoltre precisarsi che i commissari d’esame dell’epoca intendevano la dizione “diritto internazionale” nella sola accezione di diritto internazionale pubblico il che rendeva meno gravoso l’esame per i candidati; il legislatore però prendendo posizione sul punto ha sostituito con la legge 111/07 la precedente dizione con quella attuale di “diritto internazionale pubblico e privato” delimitando definitivamente l’ambito della materia in esame. Nel concorso indetto il 17 ottobre del 2000,

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presidente Macioce, le materie erano dodici poiché non era previsto nemmeno il colloquio in lingua straniera; in quello indetto il 16 gennaio 1997, presidente Battisti, erano undici poiché non vi erano nemmeno diritto comunitario, tributario ed elementi di informatica giuridica ed erano invece previsti statistica e diritto ecclesiastico. Attualmente la prova orale ha ad oggetto le seguenti materie: diritto civile ed elementi fondamentali di diritto romano; procedura civile; diritto penale e procedura penale; diritto amministrativo, costituzionale e tributario; diritto commerciale e fallimentare; diritto del lavoro e della previdenza sociale; diritto comunitario; diritto internazionale pubblico e privato; elementi di informatica giuridica e di ordinamento giudiziario.

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Rispetto ad un passato relativamente recente si nota inoltre che, tra le materie oggetto della prova orale, sono state inserite, oltre al diritto comunitario, anche il diritto internazionale pubblico e privato in


29 Si deve tener conto anche del fatto che, come spesso accade, la legislazione frenetica degli ultimi tempi, modificativa di istituti e norme a una velocità impressionante, impone al candidato di occuparsi anche dello studio delle modifiche normative nel frangente in cui si sta preparando alla prova finale. Per fare un esempio pratico si rammenta che nel periodo degli orali di magistratura, tenutisi a maggio/ottobre del 2015, numerosi sono stati gli istituti sottoposti a revisione da parte del legislatore e all’orale le domande in alcuni casi hanno avuto ad oggetto anche dette modifiche (ad esempio la modifica della normativa in materia cautelare in diritto processuale penale e la modifica della procedura esecutiva in diritto processuale civile).

considerazione della crescente importanza della formazione europea dei magistrati e dell’inserimento stabile dell’Italia in un contesto sovranazionale in cui sempre più spesso il magistrato si trova a dover fronteggiare casi giudiziari che non toccano solo aspetti di diritto nazionale. Tenuto conto della crescente integrazione con realtà extranazionali è previsto poi un colloquio in lingua straniera che, in base alla scelta del candidato, può vertere sull’inglese, francese, spagnolo o tedesco. Pertanto, sostenere l’esame orale, per come strutturato attualmente, è sicuramente la parte più difficile di tutta la procedura concorsuale poiché, mentre per le prove scritte è previsto l’utilizzo dei codici e delle normative speciali, per la prova orale il candidato non ha alcuno strumento se non la sua memoria, la sua capacità di ragionamento, le sue conoscenze giuridiche e la capacità di cogliere gli aspetti di connessione tra i vari istituti. Può ragionevolmente ritenersi che l’aumento delle materie sia andato a scapito dell’approfondimento della preparazione, poiché è impossibile nel poco tempo a disposizione tra il momento in cui il candidato apprende l’esito degli scritti e la data dell’orale che lo stesso abbia la possibilità di studiare approfonditamente tutte le materie oggetto di esame.

PROSPETTIVE DI RIFORMA Quella appena vista è l’attuale configurazione della procedura di accesso al concorso in magistratura; passiamo ora alle prospettive di riforma. Attualmente si è preso atto delle principali problematiche riscontrate nel percorso di accesso alla magistratura dovute sia all’avanzamento dell’età dei candidati, costretti ad affrontare un sempre più lungo percorso di formazione postuniversitaria prima di approcciarsi al concorso; sia alle difficoltà incontrate dalla Pubblica Amministrazione nell’organizzazione e gestione delle procedure concorsuali dovute al crescente numero di partecipanti – aspetto che si riverbera anche sulle tempistiche di correzione degli elaborati e sulla durata del periodo dedicato agli orali il che, parallelamente, coinvolge anche l’aspetto della prolungata assenza dal posto di lavoro dei magistrati impegnati nelle commissioni di concorso con i problemi pratici legati alla gestione dei ruoli e dei procedimenti in corso –; sia all’assenza – sino ad oggi – di prove pratiche che consentano di vagliare anche le capacità del candidato relative agli aspetti caratterizzanti della funzione giurisdizionale e non solo la conoscenza della teoria del diritto. Alla prima di tali esigenze, come si vedrà meglio

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30 nel prosieguo della trattazione, si è data risposta affiancando al tradizionale canale di accesso, che prevede il passaggio attraverso le scuole di specializzazione o attraverso gli stage formativi, un canale di accesso più veloce destinato ai laureati in giurisprudenza più brillanti che abbiano riportato una media di almeno 28/30 nelle materie qualificanti il corso di laurea e un voto complessivo finale non inferiore a 108/110. Correlativamente, per rendere la norma compatibile con la previsione dell’accesso diretto, si sono eliminati i requisiti di merito nel percorso universitario che consentivano l’iscrizione agli stage formativi, ora aperti a tutti. La seconda problematica, invece, è stata risolta, ipotizzando una sostanziale riforma delle Scuole di Specializzazione per le professioni legali che si pone su un piano complementare rispetto alla riforma dell’accesso alla magistratura ordinaria (allo stato disciplinate dall’articolo 16 d.l.vo 398/97). Per risolvere la terza problematica – strutturazione delle prove d’esame in chiave eminentemente teorica – ed in particolare al fine di adeguare anche le prove d’esame all’esigenza di valutare globalmente la preparazione del candidato, si è introdotta tra le prove scritte una prova pratica (da sorteggiarsi per ogni concorso, tra le tre materie attualmente previste di diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo) che sarà costituita dalla redazione di una sentenza che comporti conoscenze di diritto processuale e sostanziale. Con specifico riferimento alla modifica delle Scuole di Specializzazione per le professioni legali una commissione di studio guidata dal professor Michele Vietti ha di recente predisposto un progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario mediante delega al Governo che nel preambolo prevede che: “Il Governo al fine di qualificare e definire il percorso formativo post-universitario di cui all’articolo 16 Decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, quale canale di accesso al concorso per magistrato ordinario, è delegato ad adottare, entro dodici mesi

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dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per la modifica della predetta disciplina, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) prevedere l’istituzione di scuole esclusivamente destinate all’accesso in magistratura. Ridefinire i criteri per la determinazione del numero dei laureati da ammettere alle scuole di specializzazione di cui all’articolo 16 Decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, introducendo come parametro il numero dei posti relativi agli ultimi concorsi di magistrato ordinario; b) ridurre la durata delle scuole di specializzazione di cui all’articolo 16 Decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, sino ad un massimo di diciotto mesi e, conseguentemente, ridefinire i modelli didattici di formazione, stabilendo che devono contenere corsi sia di tipo pratico che teorico e prevedendo la piena autonomia didattica delle scuole, salva l’omogeneità dell’insegnamento nelle materie oggetto di prova scritta del concorso per l’accesso in magistratura; c) introdurre misure volte ad incentivare la possibilità delle scuole di specializzazione di consorziarsi al fine di ridurre il numero complessivo sul territorio nazionale per garantire un’offerta formativa maggiormente omogenea e qualificata; d) prevedere un esame unico nazionale, cui far conseguire il rilascio del diploma di specializzazione; e) prevedere che i laureati in possesso dei requisiti per l’accesso diretto al concorso in magistratura possano frequentare i corsi pratici delle scuole di specializzazione senza obbligo di sostenere l’esame finale. La riforma realizza il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti. Gli schemi dei decreti legislativi previsti dal comma uno sono adottati su proposta del Ministro della Giustizia e del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e successivamente trasmessi al Parlamento ai fini dell’espressione dei pareri da parte delle Commissioni competenti in materia. I pareri, non


31 vincolanti, sono resi entro il termine di trenta giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale i decreti sono emanati anche in mancanza dei pareri stessi. Qualora detto termine vanga a scadere nei trenta giorni antecedenti allo spirare del termine previsto al comma due, o successivamente, la scadenza di quest’ultimo è prorogata di sessanta giorni”. Nel prosieguo della trattazione saranno affrontate le varie linee di riforma principiando con quelle attinenti alla revisione delle Scuole di Specializzazione. Come visto la riforma, al punto a), prevede la creazione di Scuole di Specializzazione specifiche per gli aspiranti magistrati. Detta proposta pare opportuna e sotto certi aspetti necessaria per porre rimedio alle criticità emerse sin dalla loro istituzione. Sul punto occorre rammentare che, con il d.lgs. 398/97, sono state istituite presso le Università le

Scuole di Specializzazione per le professioni legali al fine di completare e perfezionare la preparazione tecnico-giuridica di coloro che, a seguito del conseguimento della laurea in giurisprudenza, intendano accedere alla professione di magistrato, avvocato o notaio. L’istituzione effettiva delle predette scuole si è realizzata però solo a partire dall’Anno Accademico 2001-2002. Le Scuole di Specializzazione prevedono un programma di studi che si affianchi in linea di continuità a quello universitario e lo segua con lo scopo di completare la formazione degli specializzandi e di fornire agli stessi conoscenze di grado superiore. Al termine di detto corso di studi, della durata di un biennio, lo specializzando dopo aver sostenuto l’esame finale consegue un diploma che costituisce uno dei titoli alternativamente necessari per accedere al concorso di magistratura. Il principale punto debole delle predette scuole sta – o meglio è stato sino ad oggi – nell’insufficiente attività pratica proposta durante il biennio e nell’assenza di specializzazione delle stesse. Le scuole infatti sono state strutturate secondo il modello del binario unico con un percorso analogo in ogni suo aspetto per tutti gli studenti, senza prevedere percorsi specifici per coloro che in futuro intendano approcciarsi al concorso di magistratura,

Il principale punto debole delle scuole è stato l’assenza di specializzazione

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32 di notariato o all’esame d’avvocato. Occorre inoltre considerare che sembra essersi sviluppata all’interno delle predette istituzioni una strana tendenza: improntare il percorso di studi verso un’unica direzione, l’esame d’avvocato. Ed invero, quasi tutte le prove scritte effettuate nel corso di studi presso le Scuole di Specializzazione sono state strutturate secondo la modalità redazionale dell’atto difensivo, il che si rivela del tutto inutile per coloro che invece intendono approcciarsi al concorso in magistratura dal momento che la tecnica di redazione di un tema è totalmente differente rispetto a quella richiesta per l’atto difensivo. Ed invero, come noto le prove dell’esame d’avvocato, notaio e magistrato sono notevolmente diverse tra loro per modalità di redazione degli elaborati e sono inoltre caratterizzate da un differente grado di complessità. Troppo spesso inoltre gli specializzandi si sono confrontati con la stesura di atti difensivi senza aver prima avuto alcuna indicazione o suggerimento per l’impostazione e la redazione delle varie tipologie di atti. Al fine di far fronte a tali criticità spesso gli aspiranti magistrati ricorrono a corsi frontali specificamente destinati a coloro che intendono affrontare la prova concorsuale il che, tenuto conto del numero di soggetti che vi partecipa, rende spesso il confronto diretto e costante con il docente quanto meno arduo. Di conseguenza le predette criticità hanno reso sino ad oggi le Scuole di Specializzazione non idonee al raggiungimento dello scopo che ne aveva ispirato la costituzione. Probabilmente proprio tenendo conto di tali criticità la riforma tende a rendere differenziati i percorsi di specializzazione e a introdurre all’interno delle Scuole di Specializzazione percorsi formativi teorico-pratici. Detta modifica si rivela necessaria proprio tenendo conto delle criticità riscontrate nel percorso post-universitario che si è rivelato sino ad oggi improntato più alla teoria che alla pratica.

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Attualmente infatti, come anticipato, sono eccessivamente esigue le opportunità per gli specializzandi di confrontarsi con la redazione di elaborati del tipo di quelli che poi saranno oggetto della prova scritta al concorso di magistratura. Sino ad oggi senza un corso privato che privilegi la redazione dei temi molti studenti, pur brillanti, non sono in grado di redigere un buon tema che rispetti i criteri di completezza, chiarezza, sinteticità e coerenza. La modifica dunque risponde alle esigenze manifestate e alle criticità evidenziate da coloro che hanno seguito i corsi presso dette scuole e hanno potuto concretamente constatare la scarsa utilità di lezioni frontali spesso improntate alla mera lettura o parafrasi delle norme e la necessità di implementare le ore di esercitazione e di confronto su problematiche di non pronta soluzione. Ed invero riproporre a soggetti laureati lezioni che hanno già caratterizzato il loro percorso universitario si rivela oltre che inutile anche noioso poiché gli specializzandi conoscono già, pur se non nei dettagli, le disposizioni normative e gli istituti


33 del nostro ordinamento e non abbisognano certo di un’acritica lettura delle stesse da parte dei docenti. La proposta in esame va dunque salutata con favore poiché solo così si potrà dare nuova linfa alle Scuole di Specializzazione rendendole realmente aderenti alla funzione che ne ha ispirato la costituzione. Per quanto concerne la proposta di garantire autonomia alle Scuole sulla scelta delle materie oggetto di studio occorre sottolineare che la stessa, pur presentando degli aspetti positivi, dovrebbe essere attuata operando degli opportuni accorgimenti. Ed infatti, sarebbe auspicabile che fossero elaborate delle linee guida comuni e mirate rispetto all’obiettivo di affrontare il concorso in magistratura, allo scopo di evitare l’introduzione di materie inutili ai fini del concorso stesso. Come anticipato è stata proposta anche l’introduzione di misure volte a incentivare la possibilità per le scuole di consorziarsi al fine di ridurne il numero complessivo sul territorio nazionale e contemporaneamente garantire un’offerta formativa maggiormente omogenea e qualificata.

In tal modo si garantirebbe invero un’offerta formativa migliore e si ridurrebbe il divario, ad oggi notevole, tra le varie scuole di specializzazione. Dal confronto con altri specializzandi – alcuni dei quali attualmente colleghi – è infatti emerso un notevole divario sia sotto il profilo qualitativo delle lezioni frontali, sia sotto il profilo del numero e della tipologia di esercitazioni in aula. Ciò se da un lato è spiegabile con la differente inclinazione e preparazione dei docenti, dall’altro risponde alle linee didattiche della singola scuola di specializzazione che sarebbe auspicabile venissero omogeneizzate allo scopo di rendere il più possibile uniforme il livello di offerta formativa proposta. Le Scuole di Specializzazione dovrebbero infatti tendere tutte verso un identico obiettivo: la formazione di futuri professionisti e, nell’ottica della creazione di scuole ad hoc per la formazione degli aspiranti magistrati, sarebbe doveroso uniformare i livelli di formazione al fine di consentire a tutti gli specializzandi di conseguire un livello di preparazione omogeneo. Tra le proposte di riforma si segnala anche quella di ridefinire i criteri di determinazione del numero dei laureati da ammettere alle scuole di specializzazione introducendo come parametro numerico il numero dei posti messi al concorso negli ultimi anni. Detta proposta appare ispirata all’esigenza di ridurre, in via indiretta, il numero di partecipanti al concorso e così risolvere – almeno in parte – il problema della Pubblica Amministrazione nella gestione della procedura selettiva. Ciò avrà come diretto risvolto il decrescere dei soggetti in possesso del titolo di specializzazione necessario – tra gli altri requisiti alternativi – per accedere al concorso, ma di certo non potrà ridurre in modo significativo il numero di partecipanti al concorso, poiché in ogni caso vi sono altri canali di accesso alla magistratura. Detta proposta appare inoltre poco opportuna in quanto non vi può essere una così restrittiva selezione dei soggetti ammessi ai corsi di specializzazione soprattutto se si tiene conto che

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34 non vi sono corrispondenze certe tra il numero di chi frequenta le scuole e il numero di coloro che si approcceranno realmente e nell’immediatezza al concorso, men che meno di coloro che potrebbero in concreto risultare vincitori dello stesso. Al fine di ridurre il numero di partecipanti al concorso sarebbe forse più opportuno introdurre dei criteri selettivi già alla base del percorso universitario con la previsione di quiz di accesso alle università e del numero chiuso, analogamente a come avviene per altre tipologie di corsi di laurea. Va invece accolta con favore la proposta di ridurre la durata dei corsi delle predette scuole a un massimo di diciotto mesi in quanto consentirebbe invero di ridurre i tempi necessari al fine della precostituzione dei titoli di studio richiesti per la partecipazione al concorso. Attualmente, infatti, per tutti gli aspiranti magistrati la prospettiva del concorso, così incerta e aleatoria quanto a tempistiche ed esiti, non rende più il concorso un reale obiettivo in sé e molti vi si approcciano senza realmente aver maturato una preparazione tecnico-giuridica adeguata mentre altri, anche brillanti, abbandonano il sogno di diventare magistrato perché consapevoli del tempo necessario per prepararsi, dei sacrifici e del costo di uno studio di tal fatta (tra libri e corsi post-universitari) che per molte famiglie non è possibile affrontare. La proposta di prevedere un esame unico nazionale per il conseguimento del diploma di specializzazione e la possibilità per i laureati in possesso dei requisiti per l’accesso diretto in magistratura di frequentare i corsi pratici delle Scuole di Specializzazione senza obbligo di sostenere l’esame finale non sollecita osservazioni di rilievo, in quanto ciò che maggiormente conta ai fini della preparazione al concorso in magistratura è l’aspetto formativo più che le modalità di svolgimento dell’esame finale. Nella riforma inoltre, e con specifico riferimento alle prove scritte del concorso per l’accesso alla magistratura disciplinate dall’art. 1, comma 3, del decreto legislativo del 05/04/2006, n.160, rispetto al sistema attuale, si prevede che: “La prova

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scritta consiste nello svolgimento di tre elaborati rispettivamente vertenti sul diritto civile, sul diritto penale e sul diritto amministrativo. Due elaborati sono di natura teorica e il terzo di natura pratica, consistente nella redazione di una sentenza, che postuli conoscenze di diritto sostanziale e di diritto processuale. L’abbinamento tra i tre elaborati e le tre materie è sorteggiato dalla Commissione”. Come noto, invece, l’attuale disciplina prevede che “La prova scritta consiste nello svolgimento di tre elaborati teorici, rispettivamente vertenti sul diritto civile, sul diritto penale e sul diritto amministrativo”. Dunque, quanto alla prova scritta le modifiche che si intendono apportare sono di non poco momento giacché si richiederà ai candidati di redigere una sentenza che, ovviamente, è caratterizzata da modalità di redazione completamente differenti rispetto a quelle previste per l’elaborazione di un tema. Probabilmente tale proposta si giustifica considerando che è proprio nella capacità motivazionale del candidato e dunque nella sua attitudine a redigere una motivazione logica, coerente e che dia conto del materiale probatorio e delle osservazioni difensive delle parti, che si concreta il proprium della funzione giurisdizionale che essendo attività di ius dicere richiede come competenze fondamentali quella decisionale e motivazionale. Deve inoltre rilevarsi che solo una prova pratica come la redazione della sentenza è in grado di racchiudere in sé, con la medesima metodologia,


35 materie così diverse come diritto civile, penale e amministrativo considerando che sostanzialmente in tutte e tre le branche del diritto tale tipologia di atto è caratterizzata dalla medesima struttura base. Non ci sono infatti altre tipologie di provvedimenti giurisdizionali che siano comuni, quanto meno nelle linee essenziali, a tutte e tre le materie. Dunque, se da un lato è valutabile favorevolmente siffatta proposta per gli indubbi risvolti positivi che potrebbe avere sull’aspetto della reale selettività dei futuri magistrati poiché in grado di far emergere con maggior nitidezza le capacità motivazionali e logiche del candidato, dall’altro non si può non evidenziare come tale prospettiva presenti aspetti negativi e problematici. Deve infatti considerarsi che, sino ad oggi, non erano oggetto della prova scritta le materie di diritto processuale nelle sue molteplici articolazioni (diritto processuale penale, diritto processuale civile e diritto processuale amministrativo) il che comporterà uno studio maggiormente gravoso per i candidati che dovranno già nel periodo di preparazione per la prova scritta affrontare lo studio di altre tre materie la cui complessità è nota a tutti. Inoltre, preme sul punto evidenziare come la possibilità di redigere una sentenza in tema di diritto amministrativo renderebbe per i candidati lo studio concorsuale inutilmente più complesso e gravoso rispetto a quanto lo sia attualmente, considerato che il diritto amministrativo, anche in sede di esame

orale, non viene richiesto con lo stesso grado di dettaglio con cui sono invece esaminati i candidati nelle materie del diritto processuale penale e civile. Ed invero, dover studiare il diritto processuale amministrativo ai fini della redazione di un’eventuale sentenza richiederebbe uno studio approfondito delle tematiche di tale branca dell’ordinamento e delle relative problematiche il che ad oggi, lo si ripete, non è richiesto nemmeno ai fini della prova orale. Inoltre pare davvero poco opportuno prevedere che una delle possibili prove pratiche consista nella redazione di una sentenza in materia di diritto amministrativo poiché giammai un giudice ordinario si troverà a redigere detta tipologia di atto. Sino ad oggi infatti le carriere e le procedure concorsuali del magistrato ordinario e del magistrato del Tribunale Amministrativo Regionale sono state rigorosamente distinte tenuto conto della peculiarità dei ruoli e delle competenze rispettivamente richieste. Detta proposta di modifica assumerebbe senso solo se si dovesse arrivare all’espunzione dei TAR e all’unificazione della giurisdizione poiché solo in tal caso si comprenderebbe appieno la ratio di tale tipo di prova e del vaglio, già in sede di prova scritta, dell’idoneità potenziale del soggetto ad esercitare la funzione giurisdizionale anche nella branca del diritto amministrativo. Di certo la proposta di riforma della prova scritta, globalmente intesa, è volta ad adeguare le prove concorsuali all’esigenza di valutare anche la preparazione pratica del candidato, ma ciò se da un lato può tendere alla miglior selezione dei futuri magistrati, dall’altro, si rivela inopportuno poiché si richiede, in una fase di molto antecedente allo svolgimento del tirocinio, che l’aspirante magistrato mostri una capacità redazionale e motivazionale che allo stadio in cui si approccia al concorso tendenzialmente non possiede. Ed infatti occorre considerare che, attualmente, ciò che si riscontra nella pratica è che coloro che superano il concorso difficilmente sono in grado di redigere immediatamente i provvedimenti propri

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36 dell’attività giurisdizionale senza commettere errori e ciò indipendentemente dalle conoscenze tecnico-giuridiche possedute, poiché è solo con la pratica che si può imparare davvero a svolgere con competenza il delicato ruolo del magistrato, in particolare la redazione degli atti giudiziari. Al fine di realizzare compiutamente detta riforma è inoltre auspicabile, anzi doveroso, che la riforma delle Scuole di Specializzazione sia attuata in maniera effettiva. È infatti necessario che le predette Scuole curino realmente l’aspetto pratico della formazione e che si istituiscano scuole dirette solo alla formazione di futuri magistrati, rivedendo completamente i modelli didattici allo scopo di renderli concretamente aderenti a ciò che viene richiesto al candidato in seduta concorsuale. Si evidenzia sul punto che nemmeno i corsi privati prevedono lezioni o esercitazioni atte a consentire all’aspirante magistrato di essere in grado di redigere una sentenza che lambisca problematiche processuali e sostanziali in diritto penale, civile e amministrativo. Sino ad oggi infatti anche i corsi privati, che molti di noi hanno frequentato, sono stati incentrati su lezioni teoriche frontali e sulla redazione di temi e in nessuna delle due modalità di approccio hanno affrontato anche tematiche di diritto processuale, da sempre espunto dalle materie oggetto della prova scritta. La proposta di riforma della prova scritta, seppur presenta risvolti positivi, si rivela ad oggi sostanzialmente inattuabile tenuto conto che i percorsi formativi sono del tutto inadeguati a consentire una preparazione completa al concorso di magistratura secondo le linee prospettate dalla riforma; andrebbero quindi interamente

rivisti i moduli didattici del percorso postuniversitario al fine di renderli consoni a quanto si intende richiedere in sede concorsuale. Sul punto anche il parere espresso dal Consiglio Superiore della Magistratura è sostanzialmente critico. Il CSM si è espresso nei seguenti termini: “Quanto alla previsione di una possibile introduzione di una prova pratica consistente nella redazione di una sentenza da affiancare ai tre elaborati teorici vertenti su diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo, il Consiglio manifesta dubbi su una siffatta ipotesi di riforma: e ciò sia perché le scuole di preparazione al concorso hanno finora mostrato una qual certa incapacità a fornire gli strumenti per affrontare una prova così particolare, qual è quella della stesura della motivazione di una sentenza; sia anche perché l’introduzione di una quarta prova di esame appare in controtendenza rispetto all’esigenza, pure segnalata dalla commissione ministeriale, di fare fronte alle difficoltà per le commissioni di dover correggere un elevatissimo numero di elaborati.” (Odg. 1260 – Aggiunto del 27 luglio 2016, Fasc. 29/RI/2016 - Risoluzione sulla relazione della Commissione ministeriale per il progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario, relatori Consigliere Palamara, Consigliere Aprile, Consigliere Forteleoni, Consigliere Fanfani, Consigliere Morosini).

È doveroso che la riforma delle scuole di specializzazione sia attuata in maniera effettiva

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Detta proposta di riforma suscita inoltre una riflessione: se si pretende che il candidato sia già in grado di redigere una sentenza non si rischia di anticipare a tale momento ciò che invece sarebbe di regola – e per logica – riservato al momento del tirocinio?


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Ed inoltre, siffatta tecnica di selezione non rischia di falcidiare in modo eccessivo la platea di aspiranti magistrati? Ciò come si concilia con la necessità di coprire i posti vacanti in organico? Detta esigenza lo si ricorda è stata alla base di un netto cambiamento di rotta avvenuto proprio con l’ultimo concorso in cui all’orale sono stati ammessi molti più candidati di quanti fossero i posti messi a concorso cosa – fino ad oggi – quasi mai avvenuta. Ed invero nel concorso antecedente sono stati ammessi a sostenere la prova orale solo 328 candidati e sono risultati vincitori solo 311 rispetto ai 365 posti messi a concorso. Di conseguenza – ad oggi – considerata la strutturazione dei percorsi di studio postuniversitari, la proposta di modifica della prova scritta rischia di pregiudicare l’attuazione degli obiettivi alla luce dei quali si sta orientando il legislatore, improntati a coprire

i posti vacanti in organico nella magistratura ordinaria, poiché la maggior parte dei candidati non possiede le conoscenze tecnicogiuridiche necessarie ai fini della redazione di una sentenza. Non vi è bisogno di ricordarlo che la sentenza è un atto complesso che richiede notevole esercizio pratico prima di poter divenire abili nello scrivere tale tipologia di provvedimenti e che la conoscenza delle tecniche redazionali non si può certo acquisire sui libri, ma solo con la pratica che molti – ad oggi – possono fare solo dopo il superamento del concorso stesso. Ad oggi infatti i soli aspiranti magistrati che concretamente si trovano nelle migliori condizioni per affrontare la prova pratica sono quelli che provengono dai tirocini svolti presso gli uffici giudiziari che si sono trovati nel percorso di studio post-universitario a redigere atti giudiziari con continuatività. Al fine di comprendere appieno il perché di questo vantaggio

pratico pare opportuno fare una breve digressione sulla normativa di cui al decreto legge, 21/06/2013 n° 69. In particolare, l’art. 73 del predetto decreto legge prevede che “I laureati in giurisprudenza all’esito di un corso di durata almeno quadriennale, in possesso dei requisiti di onorabilità di cui all’articolo 42-ter, secondo comma, lettera g), del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, che abbiano riportato una media di almeno 27/30 negli esami di diritto

La sentenza è un atto complesso che richiede notevole esercizio pratico

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costituzionale, diritto privato, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, diritto processuale penale, diritto del lavoro e diritto amministrativo, ovvero un punteggio di laurea non inferiore a 105/110 che non abbiano compiuto i trenta anni di età, possono accedere, a domanda e per una sola volta, a un periodo di formazione teorico-pratica presso le Corti di appello, i tribunali ordinari, gli uffici requirenti di primo e secondo grado, gli uffici e i tribunali di sorveglianza e i tribunali per i minorenni della durata complessiva di diciotto mesi”. I soggetti ammessi allo stage sono affidati a un magistrato

che ha precedentemente espresso la disponibilità e lo assistono e coadiuvano nel compimento delle ordinarie attività istituzionali. Agli stessi vengono inoltre fornite dal Ministro della Giustizia le dotazioni strumentali il che li pone dunque nelle migliori condizioni per poter coadiuvare il magistrato affidatario grazie anche all’accesso ai sistemi informatici ministeriali. L’attività degli ammessi allo stage si svolge sotto la guida e il controllo del magistrato e nel rispetto degli obblighi di riservatezza riguardo ai dati e alle informazioni acquisite

Gli stage sono un utile strumento di ausilio ai magistrati e consentono ai partecipanti di conseguire una buona preparazione La Magistratura - Anno LXV - Numero 1 - 2

durante il periodo di formazione, con obbligo di mantenere il segreto su quanto appreso in ragione della loro attività. Orbene, la previsione degli stage in esame, oltre a costituire utile strumento di ausilio ai magistrati nello svolgimento della loro attività istituzionale, consente ai partecipanti di conseguire una preparazione mediamente superiore a quella normalmente ottenibile con il solo studio manualistico. Detto percorso infatti consente di imparare in modo concreto ed effettivo a redigere gli atti giudiziari e dunque, alla luce delle proposte di modifica delle prove scritte del concorso per magistrato ordinario, consente di poter affrontare la prova pratica nel migliore dei modi proprio grazie all’esperienza precedentemente maturata presso gli uffici giudiziari.


39 Ed invero nei diciotto mesi di stage, innanzitutto grazie al contatto costante con il magistrato formatore, i tirocinanti hanno la possibilità di esaminare molteplici istituti di diritto sostanziale e processuale, in particolare l’attuazione pratica degli stessi e di comprendere il modo di operare e di ragionare del magistrato, soprattutto con riferimento alla redazione dei provvedimenti, apprendendo così ciò che è veramente utile ai fini del superamento delle prove concorsuali. Tale attività, unita all’approfondimento dei manuali, consentirà dunque agli stagisti di affrontare, con reali speranze di successo, il concorso in magistratura. Preme inoltre sottolineare che lo stage formativo sarà utile a tali fini in ogni caso, indipendentemente dall’ufficio in cui il soggetto è concretamente inserito anche se, ovviamente, l’utilità specifica ai fini del concorso e in particolare della redazione di una sentenza, varierà a seconda dell’ufficio di destinazione (sarà infatti massima negli uffici giudicanti civili e penali). Oltre a questo aspetto di indubbia rilevanza formativa, la normativa del Decreto del Fare offre ai partecipanti agli stage ulteriori vantaggi. È infatti previsto che “L’esito positivo dello stage, come attestato a norma del comma 11, costituisce titolo per l’accesso al concorso per magistrato ordinario, a norma dell’articolo 2 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, e successive modificazioni.” Ed inoltre che “L’esito positivo dello stage costituisce titolo di preferenza a parità di merito, a norma dell’articolo 5 del decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, nei concorsi indetti dall’amministrazione della giustizia, dall’amministrazione della giustizia amministrativa e dall’Avvocatura dello Stato. Per i concorsi indetti da altre amministrazioni dello Stato l’esito positivo del periodo di formazione costituisce titolo di preferenza a parità di titoli e di merito”. Ciò costituisce senza dubbio un importante incentivo ad effettuare gli stage in oggetto per i

risvolti pratici immediati che gli stessi comportano sulla partecipazione al concorso, prima, e sul suo eventuale superamento, poi. Tornando a trattare delle prospettive di riforma occorre far presente che, con riferimento alla prova orale, le cui materie sono indicate dall’ art. 1, comma 4, è prevista solo una leggera modifica di nomenclatura; è infatti previsto che venga cambiato il nome di diritto comunitario in diritto europeo. Ciò in aderenza al mutato quadro sovranazionale in cui non è più corretto discorrere di diritto comunitario, ma di diritto europeo. Ed invero, a seguito dell’introduzione del Trattato di Lisbona, il termine “Unione” ha sostituito la precedente terminologia “Comunità” evidenziando la soppressione della Comunità Europea intesa come entità distinta in seno all’Unione, corrispondente al sistema definito dal Trattato di Maastricht; è infatti stabilito che “l’Unione sostituisce e succede alla Comunità Europea” (art. 1, par. 3, TUE). Detta modifica non apporterebbe nessun cambiamento rilevante dal punto di vista sostanziale poiché è solo il nomen della materia che si intende modificare. Le proposte di riforma si appuntano anche sulla modifica dei requisiti di ammissione al concorso, in particolare attengono ai titoli richiesti per l’accesso. Ed invero è prevista l’espunzione dei titoli previsti dall’art. 2, comma 1, lettera f), i) ed l). Si tratta cioè dei seguenti titoli: f) abilitati all’esercizio della professione forense e, se iscritti all’albo degli avvocati, non incorsi in sanzioni disciplinari;

Nei 18 mesi di stage i tirocinanti hanno la possibilità di comprendere il modo di operare del magistrato

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40 i) laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza, al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, salvo che non si tratti di seconda laurea, ed hanno conseguito il dottorato di ricerca in materie giuridiche; l) laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza a seguito di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, salvo che non si tratti di seconda laurea, ed hanno conseguito il diploma di specializzazione in una disciplina giuridica, al termine di un corso di studi della durata non inferiore a due anni presso le scuole di specializzazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162. La modifica pare invero irrazionale in quanto comporta l’esclusione di alcune categorie di soggetti che pur in possesso del titolo di laurea abbiano solo l’abilitazione all’esercizio della professione forense o il dottorato di ricerca, rendendo dunque tali due titoli non più sufficienti. Sembra dunque che si intenda restringere notevolmente la platea di aspiranti magistrati e imporre sostanzialmente ai laureati di frequentare le Scuole di Specializzazione per le professioni legali. Ciò comporterebbe un’ingiustificata disparità di trattamento e un’illogica restrizione delle possibilità di accesso al concorso il che inoltre mal si concilia con la scelta di lasciare invariati gli altri requisiti previsti dalla normativa specifica che non si comprende in base a quali valutazioni siano considerati atti ad assicurare una maggior preparazione e competenza (eccetto che per i magistrati amministrativi e contabili). Occorre inoltre evidenziare che ciò che la proposta di riforma sembra non aver considerato è che in ogni caso un soggetto che ha conseguito l’abilitazione forense o ha terminato il dottorato è in ogni caso un soggetto provvisto del titolo di laurea e di una preparazione equivalente a quella che – almeno ad oggi – è potenzialmente conseguibile al termine del biennio presso le Scuole di Specializzazione. Ciò mal si concilia anche con la previsione di accesso diretto di soggetti neo laureati che abbiano conseguito voti elevati nelle materie qualificanti

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(dettagliatamente elencate nelle proposte di riforma) e una votazione di 108/110 come voto di laurea di cui si parlerà a breve. Sul punto in ogni caso non è dato comprendere la ratio dell’esclusione. Sempre con riferimento ai requisiti un dato di sicura rilevanza presente nella riforma, per l’indubbia portata innovatrice, sta nella previsione dell’introduzione di un nuovo comma all’interno dell’art. 2, segnatamente il comma 1 bis che prevede quanto segue: “Al concorso sono ammessi, anche se privi dei requisiti di cui al comma 1, i laureati in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni e che abbiano riportato una media di almeno 28/30 negli esami di diritto costituzionale, diritto privato, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, diritto processuale penale, diritto del lavoro e diritto amministrativo, nonché un punteggio di laurea non inferiore a 108/110”. Detta modifica è stata pensata al fine di porre rimedio al problema dell’avanzamento dell’età dei candidati affiancando al tradizionale canale di accesso delle Scuole di Specializzazione per le professioni legali e degli stage formativi un percorso di accesso più veloce per i laureati in giurisprudenza che nel corso di studi abbiano ottenuto una media di 28/30 nelle materie qualificanti e un voto di laurea non inferiore a 108/110. Per detti soggetti, come anticipato ante, è inoltre previsto che possano partecipare alle lezioni teorico pratiche tenute presso le Scuole di Specializzazione per le professioni legali e non sostenere l’esame finale in quanto già in possesso dei requisiti di accesso al concorso. Ciò costituisce un parziale ritorno al passato e dunque un riavvicinamento alla configurazione del concorso come concorso di primo livello aperto ai neolaureati. Detto canale privilegiato e meritocratico di certo è ispirato a garantire un accesso più veloce a coloro che già nel percorso universitario abbiano dimostrato di possedere un livello elevato di preparazione tecnico-giuridica e ha finalità latu


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sensu premiali nel senso di consentire ai più meritevoli di accedere al concorso in via diretta e di saltare così, ove lo ritengano opportuno, il percorso formativo post-universitario. Si parte invero dal presupposto che i soggetti che abbiano conseguito una media alta (28/30) nelle materie più qualificanti del corso di studi universitario siano già in possesso delle cognizioni necessarie ai fini del concorso. Ciò però non sempre si rivela un presupposto corretto in quanto il voto dei singoli esami e, conseguentemente, anche il voto di laurea possono essere influenzati da vari fattori che nulla hanno a che vedere con la reale preparazione giuridica del laureando. Sul punto si rivela illuminante il parere del Consiglio Superiore della Magistratura che si è espresso nei seguenti termini “Il Consiglio, nel riservare una valutazione più dettagliata sulla eventuale proposta di riforma

delle scuole di specializzazione, manifesta perplessità in ordine alla soluzione prospettata con riferimento alla prima delle tre indicate problematiche, dovendosi, al riguardo, ribadire quanto già esplicitato nella propria delibera consiliare del 31 maggio 2007, contenente il parere sull’allora disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario: delibera nella quale fu sottolineato che il “rischio della previsione relativa all’accesso diretto è quello di creare delle iniquità tra i laureati nelle università italiane, privilegiando quelli che hanno conseguito il titolo nelle facoltà meno qualificate, e di conseguenza di favorire un meccanismo perverso di incentivazione all’iscrizione nelle università che sono meno rigorose nella valutazione degli studenti, determinando un effetto emulativo al ribasso tale da produrre un ulteriore scadimento della qualità dei

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laureati, ivi compresi quelli che potranno accedere al concorso in magistratura…”. (Odg. 1260 – Aggiunto del 27 luglio 2016, Fasc. 29/RI/2016 - Risoluzione sulla relazione della Commissione ministeriale per il progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario, relatori Consigliere Palamara, Consigliere Aprile, Consigliere Forteleoni, Consigliere Fanfani, Consigliere Morosini). Conclusivamente la riforma, con le sue luci e ombre, sembra ridisegnare ancora una volta il volto del concorso in magistratura. La vera capacità innovatrice e l’efficacia delle proposte si potranno constatare solo al termine dei lavori e sarà possibile cogliere i risvolti positivi palesati dalla riforma e che l’hanno animata solo se tutte le linee guida saranno attuate a pieno. Ai futuri colleghi l’ardua sentenza.


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La vera capacità innovatrice e l’efficacia delle proposte si potranno constatare solo al termine dei lavori

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dalle commissioni

COOPERAZIONE GIUDIZIARIA E DIRITTO SOVRANAZIONALE Giancarlo Dominijanni Presidente della Commissione

La Commissione, nell’ambito delle sue competenze, ha deciso di individuare cinque argomenti su cui svolgere un approfondito esame ed elaborare dei documenti da sottoporre all’attenzione dell’ANM. Il criterio utilizzato, per l’elaborazione del programma, è stato quello di stimolare tutti i componenti all’indicazione di temi di particolare attualità e interesse, sia nel settore civile che in quello penale, per poi formare delle sottocommissioni rispettando le indicazioni di preferenza manifestate da ciascuno.

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Settore Civile Successioni transfrontaliere (Regolamento CE, 04/07/2012 n° 65000) con particolare riferimento al regime del divorzio e della separazione (Reg. UE 1259/2012) Componenti: Pierpaolo Gori, Anna Maria Gregori e Silvia Vitrò. Giurisprudenza CEDU Tale sottocommissione si occuperà di esaminare e approfondire temi di particolare interesse quali, a titolo di esempio, s’indica il diritto di asilo. Componenti: Pierpaolo Gori, Antonio Scalera e Marina Cavallo.

L’attuazione delle norme “eurounitarie” Componenti: Annunziata Ciaravolo, Maurizio Ascione, Cristina Marzagalli, Maria Chiara Paolucci, Eva Toscani e Cristina Lo Bue.

L’analisi comparata sull’istituto della prescrizione Componenti: Claudia Ferrari, Valentina D’Agostino, Luca Ferrero, Antonio Balsamo, Camilla Cognetti e Raimonda Tomasino.

Settore Penale Procura Europea e squadre investigative comuni Componenti: Claudia Ferrari, Silvia Bonardi, Annamaria Picozzi, Andrea Venegoni, Raimonda Tomasino e Pier Attilio Stea.

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dalle commissioni

PARI OPPORTUNITÀ Francesca Bonanzinga Presidente della Commissione

GRAVIDANZA In particolare la Commissione affronterà: i presupposti per la c.d. “Gravidanza a rischio” ex art. 7 commi 4 e 6 d.lvo 151/2001 (condizioni di lavoro o ambientali pregiudizievoli alla salute della donna ovvero di patologie gravi che mettono a rischio la gravidanza) e la possibilità del magistrato di richiedere la rimodulazione del lavoro anche nei primi 7 mesi di gravidanza. Si tratta di tutti quei casi in cui seppur non vi sono patologie riscontrate dal medico, le condizioni di lavoro potrebbero incidere sulla salute della gestante o del feto (es. turni di reperibilità – anche notturni –, udienze, presenza giornaliera per i Pm e distanza dal luogo di lavoro). Ciò permetterebbe di ridurre le c.d. gravidanze a rischio, di garantire il buon andamento della P.A. e di permettere comunque alla gestante di continuare a lavorare.

Periodo DI astensione obbligatoria Come ben noto, tale istituto, previsto dagli artt. 16 e 22 d.lgs. 151/2001, è modulabile in “2 mesi + 3 mesi” o “1 mese + 4 mesi”. Sul punto la Commissione si soffermerà sia sulla possibilità di estendere tale periodo in casi particolari e documentati (es. parto gemellare o

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47 neonato affetto da particolari patologie) sia sulla necessità di rendere effettivo tale diritto. A tal proposito, si farà cenno alla nota emessa in data 17 aprile 2012 dalla VII Commissione in ordine all’applicazione della circolare sulla maternità e sulla necessità di rendere effettivo il periodo di astensione obbligatoria, con la quale si impedisce ai capi uffici, durante tale periodo, di assegnare nuovi fascicoli in modo da favorire il rientro della collega al lavoro. (Delibera consiliare del 19 febbraio 2014) In tal modo si intende salvaguardare sia le esigenze del magistrato in maternità sia i principi di buon andamento dell’ufficio, di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti e di durata ragionevole dei procedimenti.

FIGLI DI ETÀ INFERIORE A 3 anni o a 12 anni Assistenza paritaria uomo donna Il congedo parentale (art.32 d.lgs. 151/2001) spetta a ciascun genitore per i primi 12 anni di vita del bambino.

Novità introdotte dal d.lgs. 15.06.2015 n. 80 “Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro” Il d.lgs. 80/2015 ha inciso sull’istituto del congedo parentale di cui all’art. 32 del d.lgs. 26.03.2001 n. 151, allungando in modo significativo l’orizzonte temporale entro il quale si può usufruire di tale beneficio (il limite massimo di 8 anni del bambino è stato elevato a 12). Il congedo di paternità (art. 28 d.lgs. 151/2001) è il corrispondente del congedo di maternità in caso di morte o di grave infermità della madre, ovvero di abbandono nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre, e ne segue la disciplina. È, infine, previsto dall’art. 47 d.lgs.o 151 del 2001 il congedo per malattia del figlio. Sul punto la Commissione si soffermerà su recenti

delibere del CSM (es. Delibera CSM del 17 aprile 2013 Fasc. num. 11/QU/2013 ) in merito a un quesito posto da un collega sull’effettiva fruizione del congedo parentale. La Commissione ha giustamente ribadito che i permessi costituiscono diritti potestativi dei genitori non soggetti a recuperi proprio perché comportano una decurtazione stipendiale. Problematiche già affrontate del part time (ritenuta non applicabile alla nostra categoria) e della ridistribuzione del lavoro che non significa riduzione ma sostituzione con attività compatibili con il ruolo di genitore attraverso la previsione eccezionale di forme di impiego flessibile, quali il lavoro a tempo parziale verticale a quota fissa (Fasc. num. 54/ QU/2013 – Nota in data 11 gennaio 2013 della Sesta Commissione – quesito).

TABELLE DI ORGANIZZAZIONE La trattazione di istituti legati al diritto alla paternità e alla maternità porta questa Commissione ad auspicare una fattiva collaborazione con altri gruppi di studio (sindacale, ordinamentale) in modo da rendere concreti tali diritti. La Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione attualmente, al paragrafo 45, prevede che: “Nella organizzazione degli uffici si deve tenere conto della presenza e delle esigenze dei magistrati donna in gravidanza nonché dei magistrati che

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La rimodulazione delle tabelle non può incidere sulla valutazione di professionalità

provvedano alla cura di figli minori, in via esclusiva o prevalente, ad esempio quali genitori affidatari, e fino a tre anni di età degli stessi. Al fine di assicurare l’adeguata valutazione di tali esigenze, il dirigente dell’ufficio deve preventivamente sentire i magistrati interessati. I dirigenti degli uffici devono adottare misure organizzative tali da rendere compatibile il lavoro dei magistrati dell’ufficio in stato di gravidanza o in maternità e, comunque, con prole di età inferiore ai tre anni di età, con le esigenze familiari e i doveri di assistenza che gravano sul magistrato. In ogni caso, le diverse modalità organizzative del lavoro non potranno comportare una riduzione dello stesso in quanto eventuali esoneri saranno compensati da attività maggiormente compatibili con la condizione del magistrato”. Sul punto, si è in attesa da parte del CSM di una modifica delle circolari in materia di organizzazione degli uffici, ed in particolare del paragrafo 45 della circolare sopra riportato, prevedendo l’aumento fino a sei anni dalla nascita del figlio del tempo entro cui è possibile invocare, da parte del magistrato, le modalità organizzative del lavoro che consentono una maggiore conciliazione lavoro-vita personale. Inoltre, appare necessario scongiurare che tale rimodulazione delle tabelle possa incidere sulla valutazione di professionalità del collega. Trattandosi, infatti, di una ridistribuzione e non di una riduzione del lavoro non vi deve essere alcuna rilevanza ai fini della valutazione del magistrato.

MALATTIA Molto importante per riassumere i vari istituti previsti è la circolare del Ministero della Giustizia del 30.12.2015 n. 1465/15. La Commissione studi si soffermerà sia sulla c.d. malattia “momentanea” sia su quella riconosciuta ex legge 104 propria o di un familiare.

»»Strumenti: congedo straordinario ex art. 37 T.U. n. 3/1957, 45 giorni in un anno solare »»Condizioni economiche La Magistratura - Anno LXV - Numero 1 - 2


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»»Permessi Aspetti da approfondire Una maggiore tutela della c.d. malattia momentanea (es. un intervento chirurgico imprevisto) soprattutto sotto il profilo economico visto che viene a mancare la fonte di reddito proprio allorquando vi è più bisogno. Prevedere dei Protocolli di intesa tra magistrati e avvocati tesi a garantire il rispetto delle donne gestanti nella ordinaria gestione della giurisdizione, che di fatto coinvolge tutti gli altri operatori della giustizia e gli utenti. Per citarne solo alcuni, nel Distretto di Milano a giugno 2011.

VALUTAZIONE DI PROFESSIONALITÀ Previsione di un parametro di valutazione delle condizioni di vita familiare (figli, legge 104 etc.) Il deficit di produttività o di diligenza che può avere il magistrato in precisi periodi della vita professionale può comportare gravi conseguenze anche sul piano disciplinare. Invero, seppur manca uno studio statistico mirato a studiare il fenomeno, è da ritenere che una parte significativa delle condanne intervenute in sede disciplinare, in particolare per illeciti da ritardo, sia conseguente a periodi in cui il magistrato non è stato in grado di adempiere esattamente ai propri doveri per situazioni personali o familiari contingenti. L’orientamento dominante sino a qualche anno fa era di considerare “ingiustificabile” la durata di un anno nel ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali sempre che non siano allegate dallo stesso e accertate dalla sezione disciplinare circostanze oggettive e assolutamente eccezionali, che giustifichino l’inottemperanza (da ultimo Cass. N. 8360/2013). In molte decisioni disciplinari, si noti ancora, veniva considerato non determinante ai fini della giustificabilità dei ritardi, il periodo di astensione obbligatoria per maternità, goduto dal magistrato

madre (Cass. S.U. n. 1771/2013; n. 1731/2003). Recentemente, invece, Cassazione Sezioni Unite sent. n. 20815/2013 ha aperto alla possibilità di prendere in considerazione nella valutazione di un ritardo nel deposito di un provvedimento eventuali giustificazioni evidenziate dal magistrato e legate al fatto che quest’ultima si trovasse in periodo di astensione obbligatoria e l’organizzazione del lavoro giudiziario, attuata presso l’ufficio di appartenenza del magistrato, non fosse stata rispettosa dell’apparato normativo previsto a tutela di essa. Anche richiamandosi ai principi espressi dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza del 2013, il CSM ha affermato che “Non integra l’illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni per reiterato, grave ed ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni la condotta del giudice il quale depositi numerose sentenze in materia civile con ritardi gravi ed in parte superiori ad un anno, qualora tali ritardi possano ritenersi giustificati in ragione dello straordinario carico di lavoro, della elevata produttività, della condizione di maternità non supportata da alcuna idonea misura organizzativa dell’ufficio e della grave malattia occorsa al coniuge del magistrato nel periodo di riferimento”.

Il deficit di produttività o di diligenza che può avere il magistrato in precisi periodi della vita professionale può comportare gravi conseguenze anche sul piano disciplinare

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ACCESSO ALLE CARICHE DIRETTIVE/SEMIDIRETTIVE E ALTRE CARICHE Partecipazione equilibrata delle donne e degli uomini al processo decisionale (Delibera consiliare del 24 luglio 2014) Nel 2004 e nel 2012 il Comitato per le Pari Opportunità in magistratura ha effettuato un aggiornamento dei dati statistici della presenza di genere nei posti direttivi e semidirettivi. I dati sono cristallizzati alla data dell’ottobre 2013 e non si è proceduto a effettuare una successiva operazione di ulteriore aggiornamento per la ristrettezza dei tempi a disposizione. Le evidenze numeriche dimostrano, in via di prima approssimazione, il perdurante grave deficit della presenza femminile nelle posizioni apicali. In tal senso si consideri che, all’interno delle funzioni direttive giudicanti, nell’area del centro Italia, 17 posizioni sono ricoperte da donne e 77 da uomini e nelle requirenti, addirittura, le posizioni sono 3 su 48. Dunque, la presenza femminile supera di poco il 18% del totale. Analogamente, negli Uffici settentrionali il rapporto per le funzioni direttive giudicanti è di 15 a 53 (22% circa la componente femminile) e per le requirenti di 10 a 49 (solo il 16% è femminile). Non diversamente, nel Sud Italia, gli incarichi direttivi giudicanti sono ricoperti da 17 donne e 65 uomini (20%) e i requirenti da 8 donne (soltanto cioè il 12% dei posti) e 58 uomini. Stessa cosa se si guarda agli incarichi elettivi o presso la Scuola di Formazione di Scandicci. Si tratta comunque di un dato legato al divieto di accesso in magistratura vigente per le donne sino al 1965 e che sicuramente sarà attenuato con il tempo visto che dal 2013 risulta maggioritaria la presenza dei magistrati donna (che si attesta al 66%). Sul tema la Commissione analizzerà la delibera del 2 aprile 2014 e inerente all’introduzione delle quote di risultato negli organismi rappresentativi.

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In tale occasione si è ritenuto che l’adozione di azioni positive per dare alle donne un vantaggio temporaneo nell’accedere alla classe dirigente o agli organismi rappresentativi, quale la previsione di quote, rappresenta una priorità non più rinviabile, nella consapevolezza che la realizzazione di una partecipazione realmente equilibrata impone il già cennato mutamento di prospettiva culturale e una complessa politica sociale diretta a sostenere le donne che lavorano, principalmente durante la fase in cui si occupano dell’educazione dei figli, ma anche quando sono gravate da altri oneri familiari (per esempio anziani genitori). Partendo proprio da tali dati, la Commissione si propone di elaborare e proporre nuove soluzioni che assicurino una piena partecipazione al femminile nei posti dirigenziali.

PASSAGGIO DALLE FUNZIONI REQUIRENTI ALLE FUNZIONI GIUDICANTI E VICEVERSA Le disposizioni di cui al capo IV del d.lgs. n. 160/06, emesso in attuazione della legge delega 150/05, successivamente modificate dalla legge 2007 n. 111/07, hanno introdotto alcuni rilevanti divieti al


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INTERPRETAZIONE DI “PARI OPPURTUNITÀ” NELLA NORMATIVA VIGENTE

La Commissione proporrà soluzioni che bilancino l’esigenza di tutela dell’unità familiare e quella di indipendenza del magistrato

La Commissione si propone di analizzare tutta una serie di normative e istituti in cui vi è la necessità di “pari opportunità” in istituti previsti dal codice o dalla normativa speciale. Es. legge Cirinnà, 570, 577 c.p. etc l’attenuante per la procurata evasione. In un certo senso si apre all’idea di pari opportunità all’esterno e non ristretta alla tutela della categoria dei magistrati.

passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa. Art. 15. Periodicità dei passaggi 3. Salvo quanto previsto, in via transitoria, dall’articolo 16, il mutamento delle funzioni da giudicanti a requirenti e viceversa deve avvenire per posti disponibili in ufficio giudiziario avente sede in diverso distretto, con esclusione di quello competente ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale. Limiti temporali e limiti territoriali che indubbiamente incidono sulla scelta dei singoli colleghi sul cambiamento di funzione visto che tale decisione compromette la vita familiare. La Commissione cercherà di proporre eventuali soluzioni alternative che riescano a bilanciare da un lato l’esigenza del singolo magistrato di tutela dell’unità familiare e dall’altro l’esigenza di indipendenza e “neutralità” del magistrato stesso.

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dalle commissioni

Organizzazione del lavoro e informatizzazione Rossella Marro Presidente della Commissione

L’impegno della Commissione sarà incentrato innanzitutto sul tema dell’“Ufficio del processo”. L’istituzione dell’Ufficio del processo rappresenta un importante progetto di miglioramento del servizio giustizia, che attraverso la recente adozione dei decreti attuativi risulta arrivato alla fase terminale. L’Ufficio del processo dovrà fornire un concreto supporto al lavoro dei magistrati. Dovrà rappresentare innanzitutto lo staff del magistrato, in grado di supportarlo nell’esercizio della funzione giurisdizionale. La creazione dell’Ufficio per il processo è peraltro in linea con le maggiori esperienze europee, nelle quali lo staff di stretta collaborazione del magistrato è già una realtà. Dovrà rappresentare, inoltre, uno strumento di innovazione degli Uffici giudiziari, con ristrutturazione dei moduli organizzativi, che dovranno essere in parte “tarati” sulla base delle nuove energie lavorative immesse dalla riforma.

L’istituzione dell’Ufficio del processo, presso gli uffici dei Tribunali ordinari e delle Corti d’appello, è stata prevista dall’art. 50 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90. Nell’impianto della legge citata faranno parte dell’Ufficio per il processo la magistratura onoraria, i tirocinanti (in specie quelli di cui all’art. 73 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv. con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n.98 e quelli di cui all’art. 37, comma 5, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con modificazioni in legge 15 luglio 2011, n. 111), i magistrati onorari, il personale amministrativo e, per le strutture di Ufficio per il processo presso la Corte d’appello, i magistrati ausiliari (introdotti

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53 dall’art. 62 d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv. con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n.98). Il Ministero della Giustizia con il d.m. 1 ottobre 2015 ha dettato, inoltre, le linee guida per l’uniforme organizzazione dell’Ufficio del processo, lasciando ai singoli Uffici giudiziari ampia discrezionalità organizzativa, che si realizzerà attraverso lo strumento tabellare. I compiti specifici dei soggetti assegnati all’Ufficio per il processo sono svolti nell’ambito e con riferimento alle competenze, attività e mansioni attribuite dalle rispettive normative di riferimento e per il personale amministrativo anche dalla contrattazione collettiva. Per quanto riguarda la magistratura onoraria, in particolare, nell’ambito dell’intervento normativo che specificamente la riguarda (cfr. legge 28 aprile 2016 n.57 recante “Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace”), è previsto l’inserimento nelle strutture dell’Ufficio per il processo per i primi quattro anni del mandato. Le attività svolte dai soggetti assegnati all’Ufficio del processo potranno essere varie nel contenuto e nelle modalità di esplicazione: ricerca dottrinale e dei precedenti giurisprudenziali, stesura di relazioni e di bozze di atti, collaborazione diretta con il magistrato per compiti strettamente ancillari all’attività di udienza e di preparazione della stessa, controllo della corretta gestione dei registri informatizzati e ogni altro compito di supporto al processo civile telematico e all’informatizzazione del processo penale. Pertanto, i moduli organizzativi potranno essere variabili, in quanto, accanto alla previsione di destinazione di alcuni componenti dell’Ufficio del processo all’affiancamento del singolo magistrato, potrà ipotizzarsi la previsione all’interno degli Uffici giudiziari di strutture organizzative centrali con specifici compiti, che potranno operare sulla base di protocolli condivisi e con l’ausilio degli strumenti informatici in uso. Per quanto riguarda, in particolare, l’informatizzazione

dell’Ufficio del processo il d.m. 1 ottobre 2015 citato ha previsto all’art.3 che la DGSIA svilupperà gli applicativi informatici per il funzionamento, il coordinamento ed il controllo delle strutture organizzative denominate Ufficio del processo. In quest’ambito, l’attività della Commissione dovrà essere innanzitutto di studio della normativa primaria e secondaria. L’auspicio è che la Commissione possa giungere, inoltre, a delineare modelli organizzativi, anche tenuto conto dell’esperienza dei tirocini, ex art. 73 d.l.69/13, che secondo la previsione di un recente censimento della Direzione generale dei magistrati del Ministero della Giustizia ha visto nel corso del 2015 la presenza di ben 2.288 giovani laureati negli Uffici giudiziari. Sarà utile a tal fine il raffronto con le esperienze di paesi stranieri, nonché lo studio

Le attività svolte dalle persone assegnate all’Ufficio del processo potranno essere varie nel contenuto e nelle modalità di esplicazione

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55 dell’analisi compiuta da alcuni studi di consulenza delle sperimentazioni effettuate, anche in Italia, in alcuni Uffici giudiziari tra il 2008 ed il 2012, con l’apporto dei soli tirocinanti (Firenze e Milano). Il tema dell’Ufficio del processo potrà vedere la suddivisione dei colleghi che fanno parte della Commissione in tre gruppi, civilisti, penalisti giudicanti e penalisti requirenti. Infatti, se è evidente che la prima parte dei lavori, relativa allo studio della normativa, è comune, la seconda parte, concernente l’elaborazione e la proposta di modelli organizzativi, dovrà essere differenziata per i tre indicati settori. Detto questo, non vi è dubbio che la Commissione di studio dovrà essere impegnata anche su fronti più prettamente informatici. Rispetto a questi temi, probabilmente sarà sufficiente distinguere tra settore civile e settore penale, in quanto i penalisti giudicanti e requirenti “condividono” gli applicativi. Per quanto riguarda il settore civile, interessanti saranno i lavori del sottogruppo misto, in materia di riforme delle norme processuali funzionali al processo civile telematico, cui partecipano parte dei membri della Commissione di studio sulle riforme processuali civili e, per quanto riguarda la Commissione sull’organizzazione del lavoro e l’informatizzazione, i colleghi Antonella dell’Orfano, Maria Lina Manuela Matta, Massimo Scarabello e Maria Angela Morea, che hanno manifestato la loro disponibilità. A parte i lavori del sottogruppo misto, la Commissione si impegna a mantenere un’attenta e costante attività di monitoraggio delle problematiche di carattere tecnico attuative del PCT, attese le frequenti denunce dei colleghi di disservizi che si verificano nel funzionamento dei sistemi informatici in uso nel settore civile, nonché a raccogliere le indicazioni relative ad eventuali ulteriori questioni di carattere processuale conseguenti all’attuazione del processo civile telematico. Per quanto riguarda, invece, il settore penale la situazione è molto meno organica, per la presenza di numerosi applicativi informatici, molti dei quali non integrati tra loro e con il principale

sistema informatico del penale, SICP (TIAP, SIEP/ SIGE, SIAMM, SIPPI etc). La Commissione potrà quindi dedicarsi allo studio degli applicativi, evidenziando criticità e avanzando proposte, e monitorando le prospettive di integrazione dei sistemi allo studio del Ministero della Giustizia. Altro aspetto di interesse è quello dell’Assistenza sistemistica, rispetto alla quale sarà a breve indetta dal Ministero della Giustizia la gara per la stipula del nuovo contratto.

La Commissione sarà impegnata anche su fronti più prettamente informatici

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Report dell’Ufficio Sindacale dell’ANM

Marcello Basilico, Pasquale Grasso, Ilaria Pepe, Alfonso Scermino Ufficio Sindacale ANM

Cari colleghi, circa otto mesi fa sono stati individuati i componenti dell’Ufficio Sindacale dell’ANM e ne è stato approvato il programma, un programma molto impegnativo perché tutti erano consapevoli della centralità di questa struttura per la nuova ANM e per la sua Giunta unitaria, ma soprattutto per tutti i magistrati. Abbiamo raggiunto dei primi risultati in costante collaborazione non solo tra di noi, ma soprattutto con la Giunta unitaria che ci ha sempre sostenuti. Ora che questi risultati sono stati anche approvati dal CDC, siamo orgogliosi di condividere con voi quello che abbiamo fatto in tema di comunicazione, di convenzioni per la categoria, di assistenza agli iscritti e di tutela della categoria. Siamo consapevoli che si tratta di un primo passo, ma intanto l’Associazione si è mossa e, soprattutto, si è mossa in una direzione che la riavvicinerà a tutti i suoi iscritti.

Un primo passo per riavvicinare l’Associazione ai suoi iscritti

Comunicazione Tra i nostri obiettivi vi è quello di migliorare la comunicazione tra Associazione e iscritti, anche perché abbiamo una mailing list cui è iscritta solo una minoranza dei magistrati e che, per i più svariati motivi, non risulta un canale efficace

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di divulgazione delle informazioni neanche per i magistrati iscritti. Non ha evidentemente senso lavorare per creare una struttura sindacale di cui tutti ignorano l’esistenza. Ecco perché è stato creato un indirizzario mail di tutti gli iscritti a cui potremo inviare tutte le comunicazioni di interesse generale, tra cui questa, con cui tra le varie iniziative annunciamo la creazione della sezione riservata del sito dell’ANM. Si tratta di un’area a cui i magistrati iscritti, i soli magistrati, potranno registrarsi per formulare quesiti all’Ufficio Sindacale e per consultare documenti e ricevere informazioni sia in relazione a materie prettamente “sindacali” (retribuzioni, previdenza, cause di assenza dal servizio, convenzioni e sussidi) sia in relazione


57 ad altre materie di particolare rilevanza per la categoria (ordinamento giudiziario, disciplinare, responsabilità civile) sia in relazione alla stessa Associazione. Ovviamente i contenuti dell’area riservata verranno inseriti a mano a mano che procederà l’attività associativa: in particolare l’Ufficio Sindacale divulgherà una sua newsletter periodica con cui informerà i colleghi delle questioni affrontate con appositi link alla sezione riservata per la

convenzione e confidiamo di poterle attivare per tutti, speriamo compresi i familiari e i magistrati in quiescenza, in tempi brevi. Ovviamente appena saranno attive divulgheremo dettagli e modalità di adesione. Appena avremo chiuso il fronte “trasporti” ci dedicheremo ad altri settori che riteniamo possano essere di interesse per la categoria, dai servizi telefonici estesi anche ai familiari alle vacanze studio per i figli, dall’acquisto di hardware e software

Un’Associazione non partecipata non potrà mai funzionare veramente

consultazione dei documenti di approfondimento che saranno via via elaborati. Vi abbiamo incuriosito? Bene, per iscriversi basta usare questo link www. associazionemagistrati.it/area-riservata e seguire delle semplicissime istruzioni.

Convenzioni Abbiamo avviato una riflessione complessiva sulle convenzioni attivate in sede nazionale e locale. Ci siamo concentrati in primo luogo sulla mobilità, perché moltissimi colleghi viaggiano, o meglio lavorano mentre viaggiano. Per questo abbiamo contattato Trenitalia, Alitalia e una primaria società di noleggio a lungo termine di autoveicoli, abbiamo acquisito delle proposte di

ai servizi bancari con particolare riguardo ai mutui e all’anticipazione del t.f.s. (il tutto cercando, finalmente, di coordinare l’azione a livello nazionale con quella svolta a livello locale). Questo non significa, ovviamente, che trascureremo le due principali convenzioni in essere, quella per la R.C. e quella sanitaria: valuteremo insieme agli altri organi associativi il rapporto in essere con i broker e cercheremo di migliorare l’offerta di servizi (ad esempio tramite un’apposita convenzione con l’associazione medici dentisti italiani).

Assistenza agli iscritti Al fine di offrire agli associati un valido supporto in caso di problemi in materia retributiva, previdenziale, infortunistica, ordinamentale e così via, abbiamo

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58 attivato un indirizzo e-mail dedicato che i colleghi possono usare - e già stanno usando numerosi - per inviare i loro quesiti in materia di status giuridico - economico (ufficiosindacaleanm@ associazionemagistrati.it). Chi risponde a questi quesiti e che tipo di assistenza si può ottenere? Abbiamo deciso di far pervenire tutti i quesiti ai componenti dell’Ufficio Sindacale, perché i magistrati apprezzano molto la possibilità di rivolgersi direttamente ai loro colleghi e, anzi, ai loro eletti al CDC. Ovviamente non potremo fare tutto da soli. Abbiamo quindi proposto alla GEC di farci affiancare da una struttura periferica di colleghi, che collaborerà con noi sia per la predisposizione delle risposte ai quesiti e delle proposte agli organi statutari sia per la divulgazione delle varie attività dell’Ufficio. Abbiamo anche proposto di farci affiancare da professionisti esterni, che abbiamo individuato e da cui abbiamo acquisito delle offerte. In particolare: la consulenza di un legale giuslavorista e di un legale amministrativista che l’Ufficio e gli altri organi associativi potranno consultare in relazione a questioni di interesse generale; la consulenza di un legale specializzato nelle questioni retributive che, tramite l’Ufficio Sindacale, potrà offrire assistenza ai colleghi anche su questioni di interesse individuale (segnalandoci al contempo eventuali criticità di rilievo per tutta la categoria); la consulenza di un legale specializzato in tutela infortunistica e sicurezza sul lavoro che, sempre tramite l’Ufficio Sindacale e in collaborazione con la Commissione sicurezza sul lavoro, potrà predisporre schede informative su questioni di interesse generale e in prospettiva anche monitorare le condizioni di sicurezza negli uffici; una convenzione per poter ottenere da un consulente del lavoro a tariffe agevolate delle consulenze e dei conteggi previdenziali individualizzati. Queste proposte sono state approvate dal CDC e la Giunta provvederà alla loro attuazione nel

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dettaglio, in modo che anche i servizi offerti dai professionisti possano essere attivi. Ovviamente trattandosi di un work in progress saranno stipulate delle convenzioni di breve durata per consentirci di verificare quali servizi siano effettivamente utili e quali debbano invece strutturarsi in modo diverso: per questo, come in realtà per ogni attività dell’Ufficio ed in genere dell’Associazione, avremo bisogno di sentire la voce degli iscritti, tramite suggerimenti, complimenti e critiche. Ascolteremo tutti, ma fatevi sentire: un’Associazione non partecipata non potrà mai funzionare veramente.

Proposte per la miglior tutela della categoria Sappiamo infine che la categoria deve affrontare e risolvere alcuni gravi problemi da troppo tempo in attesa di soluzione.


59 Due tra tutti: la costituzione di forme di previdenza complementare di categoria per tutti i colleghi, ma, soprattutto, per i giovani colleghi cui sarà applicato il noto tetto pensionistico; il superamento di una tripartizione delle voci stipendiali che lascia i colleghi in malattia privi di una parte significativa della retribuzione proprio nei momenti in cui è per loro più necessaria.

L’ANM farà sentire la propria voce a tutela dei magistrati

Nei prossimi mesi, oltre a fornire il nostro supporto al tavolo tecnico per la gestione delle problematiche connesse al tetto pensionistico, elaboreremo per gli organi associativi delle proposte di iniziative da adottare per il superamento di queste problematiche. Ovviamente la soluzione di questi problemi non dipende dalla sola ANM, ma l’Associazione farà tutto quello che è possibile per contribuire alla loro risoluzione e far sentire la propria voce a tutela dei magistrati.

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ordinamento

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Verso il tramonto della giustizia minorile? Tommasina Cotroneo Componente del CDC dell’ANM

Gli studi e i progetti per l’istituzione di un sistema di giustizia minorile risalgono in Italia, come negli altri Paesi europei, agli inizi del secolo scorso, allorquando nel 1908 venne redatto il progetto (c.d. Quarta) di Codice per i minorenni che istituiva un’apposita magistratura specializzata e disegnava un quadro organico di giustizia minorile comprensivo della parte ordinamentale, sostanziale e processuale tanto civile che penale. Il progetto Quarta non riuscÏ a essere presentato al Parlamento. Guerra mondiale prima e avvento del fascismo poi ne impedirono la realizzazione.

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Il sistema di giustizia minorile aveva forti connotazioni di controllo sociale Solamente trentadue anni dopo il sistema italiano di giustizia venne istituito, e ciò accadde il 20 luglio 1934, quando fu promulgato il regio decreto legge n. 1404 recante “Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni”. Quel provvedimento, come il progetto Quarta, non si limitava a creare un organo giudiziario specializzato, ma istituiva un vero e proprio sistema organico di giustizia minorile, comprensivo di norme in materia ordinamentale e penitenziaria, di personale apposito e di servizi ausiliari destinati ai minorenni devianti, disadattati, o bisognosi di protezione. In coerenza con il clima politico dell’epoca il sistema aveva forti connotazioni di controllo sociale. La competenza territoriale era (ed è ancora oggi) estesa all’intero distretto della Corte d’appello. Il Tribunale per i minorenni aveva dunque in quel periodo un ruolo di giudice controllore, affatto diverso dal giudice immaginato e delineato dal progetto Quarta, di cui ben poco residuava. Quel

residuo tuttavia si rivelò fecondo dopo il secondo conflitto mondiale e la caduta del fascismo, quando ebbe inizio un progressivo sviluppo della giustizia per i minorenni protrattosi per più di mezzo secolo e giunto fino ai nostri giorni, del quale brevemente può essere utile dare conto. Dopo la fase iniziale del giudice controllore, si possono distinguere in questa evoluzione tre fasi caratteristiche. La prima è quella che può chiamarsi del giudice educatore che apriva le porte degli istituti rieducativi a regime chiuso introducendo l’osservazione della personalità e la misura del trattamento in esternato con affidamento al servizio sociale; si trattava di innovazioni mutuate dall’esperienza giudiziaria francese, dove ancora oggi i contenuti educanti dell’intervento del giudice minorile sono oggetto di attenzione e di studio.

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64 Presupposto di quegli interventi era la convinzione che per i minorenni in conflitto con la legge alla sanzione penale dovesse essere preferita una misura educativa. Più che violazione di legge, il fatto-reato era sintomo di disagio relazionale e disadattamento personale, a cui dare risposte non su base punitiva, ma di tipo trattamentale pedagogico o psicologico. Per funzionare decentemente, quell’approccio avrebbe avuto bisogno di giudici minorili preparati, di personale qualificato e di valide strutture. Tutto ciò mancava. Pertanto, senza clamore e senza bisogno di modifiche normative, la figura del giudice educatore insterilì. Iniziò e si sviluppò, quindi, la seconda fase della giustizia minorile italiana: quella del cosiddetto giudice promotore, nato nel 1967 con la legge 5 giugno 1967 n. 431 sull’adozione speciale, a sua volta effetto delle acquisizioni scientifiche sui danni da carenza affettiva e da istituzionalizzazione prolungata, allorquando le competenze civili

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del Tribunale per i minorenni ebbero un forte ampliamento, allargandosi all’adozione dei minori abbandonati ed oltre. Seguì la legge 35/1971 che – trentasette anni dopo la sua istituzione – istituiva la pianta organica dei magistrati minorili. Questa permise alla giustizia minorile italiana di evolvere verso l’aiuto e non verso la coazione, verso il sostegno e non verso il controllo, sulla scia di quanto già in atto in molti Paesi europei dove già a quell’epoca il concetto di potestà dei genitori era stato sostituito da quello di responsabilità. Nasce così in quell’epoca un giudice di tipo nuovo, che impara ad ascoltare le persone e non solo a leggere le carte; che diviene consapevole che altri saperi oltre al diritto gli sono necessari per comprendere i problemi dell’età evolutiva; che gli occorre acquisire una professionalità specifica

Con la legge del 1971 nasce un giudice che ascolta le persone


65 per quel settore e che non basta delegare scelte e valutazioni e decisioni al CTU o ai giudici onorari. È un giudice che venne acutamente paragonato al giudice fallimentare, al quale si richiede di conoscere il mondo dell’economia, di saper leggere un bilancio, di sapersi relazionare con gli operatori economici e di saper indirizzare le situazioni difficili verso soluzioni positive. La riforma del diritto di famiglia (legge 1975 n. 151) e la prima riforma della legge sull’adozione e l’affidamento familiare (legge 1983 n.184) danno una spinta decisiva a quel tipo di giudice, poiché lo obbligano a interagire con i servizi locali che le Regioni e i Comuni più attenti vanno organizzando, con competenze istituzionali loro proprie in materia di protezione dell’infanzia e tesi a un’interazione positiva con i provvedimenti del giudice. Viene così delineato un sistema binario di protezione dei diritti del minore: socio-assistenziale da un lato, giudiziario dall’altro, chiamati quando necessario a interagire tra loro. La diversità del quadro sociale e

politico regionale non consentì tuttavia uno sviluppo omogeneo del sistema e diede luogo al sorgere di prassi locali profondamente differenziate, che a loro volta furono causa di problemi rilevanti. Centrali in questa fase due figure: il giudice tutelare e il pubblico Ministero minorile. Quanto al primo, la riforma del diritto di famiglia del 1975 ne sopprime i poteri ufficiosi di emettere provvedimenti provvisori e urgenti. Quanto al secondo, il suo ruolo nella materia civile viene fortemente sminuito dalla quasi contemporanea attribuzione al Tribunale per minorenni del potere di attivarsi d’ufficio (1983). La scelta del legislatore di quegli anni era motivata dalla lunga inerzia di quegli organi nel campo della protezione dei minori dagli abusi e dall’abbandono e venne parzialmente risolto con la legge 149/2001, che ha tolto al Tribunale per i minorenni ogni potere ufficioso attribuendo al solo pubblico Ministero minorile la legittimazione a proporre ricorso per la dichiarazione di adottabilità, allo scopo di

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67 assicurare la terzietà del giudice. Questa soluzione ha toccato alcuni effetti ma non le cause. Si sgretola in questo contesto la certezza della capacità di tenuta della figura del giudice promotore e forte nasce il bisogno di una riforma d’insieme, in un disegno organico di grande respiro che tenga conto delle connessioni e interazioni tra protezione giudiziaria e protezione socio-amministrativa e rivaluti dal punto di vista pedagogico il contatto tra il minore e il suo giudice. Epperò a questo non può giungersi con il disegno di legge governativo approvato alla Camera per l’efficienza del processo civile. Dichiaratamente limitato al campo processuale, esso in realtà incide profondamente sugli aspetti ordinamentali del sistema di protezione giudiziaria dei soggetti minori di età, scardinandolo senza alcuna visione di insieme e senza tener conto delle ripercussioni sui sistemi che con quello devono interagire. Trascura l’esigenza di urgenti interventi sostanziali in campo penale amministrativo e penitenziario minorile; dimentica il ruolo delle Regioni e le competenze funzionali attribuite loro dall’art. 117 Cost.; riduce il ruolo dei servizi sociali a quello di meri ausiliari del giudice; affida imprudentemente alla discrezionalità del presidente capo del Tribunale la designazione del presidente della sezione specializzata; lascia immutato il pletorico collegio a quattro giudici in primo grado e a cinque in appello; sopprime l’importante figura del pubblico Ministero minorile specializzato, dimenticando i poteri a questo attribuiti dalla legge n. 149 del 2001 in materia di segnalazione di abbandono e di raccordo con i servizi sociali territorialità. L’obiettivo di riunire la materia delle persone, dei minori di età e della famiglia davanti a un unico giudice viene così raggiunto a spese di gravi squilibri e di omissioni ingiustificate, che d’altra parte lasciano in vita pezzi consistenti del vecchio sistema di giustizia minorile risalente agli anni Cinquanta, senza un nuovo “verbo” che tenga conto delle convenzioni e dichiarazioni internazionali, delle nuove esigenze e dei diritti dei giovani d’oggi, del mutamento in atto dei modelli familiari.

Già avere accomunato in un unico ddl la materia delle imprese e quella delle persone minori di età è sintomatico della frettolosità e superficialità dell’approccio del governo a questo complesso settore, che in Italia ha, come detto, più di un secolo di vita e di studi. Lo stesso andamento ondivago e trasformista del disegno di legge nella parte che più specificatamente interessa accredita sospetti circa la presenza, in radice, di un vero e “acculturato” progetto in tal senso, al di là dei consueti intenti di razionalizzazione e miglior utilizzo delle risorse. Si disquisisce di modifiche pensate senza effettiva cognizione della complessità e della particolarità della materia (in particolare, il ruolo delle Procure minorili) e tali da rendere, in definitiva, fragile e a rischio proprio l’essenziale e cioè l’effettività di un sistema di tutela dei minori finora fondato sugli organi giudiziari destinati, secondo la riforma, alla soppressione: i Tribunali e le Procure minorili. Si paventa, in generale, il rischio del venir meno della stessa cultura minorile acquisita negli ultimi decenni, fondata sulla lettura complessiva del disagio dei minori e delle famiglie. Scindendo la visione unitaria della delinquenza minorile dalle sue radici che affondano nell’ambiente familiare e sociale più ampio rispetto al singolo episodio criminoso, il processo penale minorile verrebbe privato della sua funzione rieducativa. L’auspicio è, piuttosto, quello di una riforma anche ordinamentale che, mantenendo le attuali positività di fondo, ne introduca di ulteriori senza compromettere quanto funziona. L’obiettivo primario deve essere quello della creazione di un Tribunale per la persona e la famiglia autonomo e su base distrettuale, con articolazioni territoriali, sul modello del Tribunale di Sorveglianza, che realizzino per quanto possibile il modello della giustizia di prossimità. Un Tribunale, non solo “per i minorenni” e a cui, ovviamente, dovrebbe fare riscontro una Procura della Repubblica parimenti autonoma, con analogo respiro distrettuale e, soprattutto, analogamente attrezzata ad affrontare, come già si è autorevolmente

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68 scritto, «una sommatoria di competenze estese, rilevanti, penetranti, “affacciate” anche su territori nuovi», anche connessi ai fenomeni di immigrazione. Non si può infatti non stigmatizzare la possibile sorte delle Procure minorili destinate non tanto a “cambiare insegne” bensì a una ricollocazione ancor più, concretamente, disagevole e penalizzante: un’autentica riqualificazione in peius. Nei ‘gruppi specializzati’ l’ipotizzato modello delle DDA (pensato per il coordinamento delle indagini per reati di mafia, e, quindi, per una funzione completamente diversa da quella penale e civile del pubblico Ministero minorile) non garantirebbe nemmeno l’esclusività delle funzioni dei magistrati, che – in aggiunta ai compiti di tutela dei bambini e degli adolescenti – dovrebbero svolgere anche funzioni penali ordinarie, in processi contro adulti ispirati a una logica inquirente del tutto diversa nelle finalità e nell’approccio. Oramai i procedimenti a tutela e le adottabilità sono divenuti “processo di parti” e l’affievolimento delle potenzialità della parte pubblica in uno alla impossibilità di agire con urgenza e immediatezza, vagliando, istruendo le centinaia e centinaia di segnalazioni che pervengono all’Ufficio, si riverbereranno sul funzionamento del Tribunale, già privato nella sostanza di poteri officiosi e di iniziativa. Sparirebbe il ruolo del Pubblico Ministero minorile che, dinanzi al Tribunale per i Minorenni, agisce a tutela diretta del minore e ne rappresenta le esigenze e le Procure ordinarie non potrebbero svolgere più questa funzione sia perché il processo di separazione non consente loro alcun potere di iniziativa, sia perché non sarebbe più possibile presentare un ricorso a tutela dei minori slegato da eventuale separazione fra i genitori, sia perché non è prevista alcuna specializzazione nemmeno dei singoli sostituti procuratori. Il trasferimento delle competenze civili a sezioni di Tribunale ordinario prive di effettiva specializzazione interromperebbe, poi, il rapporto diretto fra la giustizia minorile e le numerose istituzioni che promuovono il benessere dei minori. I servizi sociali, i servizi psicologici e di neuropsichiatria infantile, le scuole,

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le comunità per minorenni e tutte le altre istituzioni di promozione scolastica e sociale dei minori hanno sinora trovato nel Tribunale per i Minorenni un interlocutore diretto e disponibile che, con lo svuotamento di competenze, andrebbe smarrito. E tutto ciò quando la complessità delle questioni in materia familiare e minorile impone un’accentuata specializzazione dei magistrati e in un momento storico in cui i minorenni sono fra i primi a pagare le conseguenze drammatiche che derivano dalla crisi economica, dall’immigrazione e dai tagli alla spesa pubblica negli enti locali. E proprio mentre l’Europa assume come propri i valori ai quali si ispira il nostro attuale ordinamento e ribadisce la necessità di potenziare la specializzazione dell’intervento giudiziario minorile, evidenziandone la funzione preventiva e la specificità rispetto alla giustizia ordinaria; proprio mentre è stata varata la Direttiva europea in materia di giustizia minorile destinata a uniformare il


69 processo penale negli Stati dell’Unione, imprimendo una decisa accelerazione alla specializzazione dei giudici, alla realizzazione di principi di garanzia, di assistenza legale e di funzione rieducativa, proprio mentre si impongono agli Stati membri principi per noi scontati, proprio mentre l’Italia si attesta quale autentico modello in campo internazionale. Se obiettiva e chiara è l’inadeguatezza tanto dei “vecchi” Tribunali minorili, parimenti evidente è la logica asfittica della “Sezione”, ancorché distrettuale (che rischia di essere “gonfiata” abnormemente di competenze tanto da rischiare una sorta d’implosione, con paralisi dei tempi e grave impaccio nell’operatività), a tacere delle Sezioni Circondariali (il fronte della riforma più vistosamente sguarnito). Da qui la battaglia comune in funzione di un autonomo Tribunale per la persona e la famiglia, avuto riguardo a un fattore ulteriore decisivo. Negli anni, il mondo della giustizia ordinaria che

tratta la materia familiare, compreso quello delle Corti d’appello in cui operano Sezioni specializzate per i minorenni e la famiglia, ha compiuto rilevanti passi in avanti sul piano di una professionalità sempre più raffinata, ormai avvezza al confronto con la magistratura minorile e ad affrontare questioni complesse. Si pensi alla cruciale tematica dell’ascolto del minore, alla stipulazione di Protocolli d’intesa su numerose materie (degno di nota, da ultimo, è il Protocollo di intesa siglato tra gli uffici giudiziari di Reggio Calabria a tutela dei “minori di ‘ndrangheta” destinatari dei provvedimenti giudiziari civili e penali), alla proficua interazione sia con i magistrati del penale (Gruppi tutela Fasce Deboli nelle Procure; giudici dibattimentali specializzati sui temi dell’abuso e del maltrattamento) che con un’Avvocatura che, parimenti, si è molto specializzata e opera con una sensibilità omogenea, al di là dei diversi riti, sia nelle procedure presso il Tribunale ordinario che in quelle innanzi al Tribunale per i Minorenni. Che magistrati con esperienze diverse, ma professionalità ormai affini, possano operare in una struttura unitaria, in cui si realizzi la confluenza e la fusione sia delle competenze che delle professionalità, comprese quelle della componente onoraria (e superandosi anche le problematiche riguardanti la sorte delle attuali Procure minorili, che anzi dovrebbero essere potenziate), sarebbe una conquista di grande livello su tutti i piani. Da quello dell’effettività della tutela delle persone, in primis di minore età, a quello di una funzionale

Una struttura unitaria nella quale possono operare magistrati con esperienze diverse sarebbe una grande conquista

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70 gestione dei conflitti e dei più generali problemi delle famiglie; di cui, comprese ovviamente quelle monoparentali, i minori fanno comunque parte, al di là della situazione di chi giunge nel nostro Paese non accompagnato. La tensione deve essere, pertanto, per una riforma comunque e significativamente migliorativa di un mondo composito, dove operano sia i magistrati ordinari, sia la cospicua − e numericamente prevalente − componente onoraria, che garantisce l’approccio multi professionale, e in cui convivono varie “anime”,

delle competenze civili e di quelle penali minorili. A tal ultimo riguardo si evidenzia che la genesi delle misure civili indicate è generalmente il processo penale. I provvedimenti civili trovano fondamento e impulso nelle informazioni (accertamenti sulla personalità del minorenne) acquisite ex art. 9 dpr 448 (circa le risorse personali, familiari, sociali e ambientali 1 del minorenne) in correlazione con il fatto storico 1 Art. 9 D.P.R. 22.9.1988 n. 448: ”1. Il pubblico Ministero e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali

L’esperienza della giustizia minorile italiana è un patrimonio inestimabile

nella indiscutibile comune considerazione che l’esperienza della giustizia minorile italiana è un patrimonio inestimabile. E la specializzazione non potrà se non passare attraverso il mantenimento della esclusività delle funzioni sia per i giudici sia per i pubblici ministeri, della composizione mista dei collegi nelle materie in cui è in gioco la valutazione del pregiudizio o dell’abbandono, oltre che nel penale; attraverso l’attribuzione e per intero all’ufficio specializzato gli interventi a tutela dei minori stranieri non accompagnati; attraverso l’attribuzione agli stessi magistrati

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oggetto del processo penale, che così costituisce un’occasione di interventi educativi mirati, che possono favorire lo sviluppo della personalità del giovane e il suo recupero. e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili. 2. Agli stessi fini il pubblico Ministero e il giudice possono assumere informazioni da persone che abbiano avuto rapporti con il minorenne e sentire il parere di esperti, anche senza alcuna formalità”.


71 In altri termini, le indagini sulla personalità, svolte in correlazione al fatto penale contestato al minorenne, sono funzionali non soltanto all’accertamento della sussistenza della capacità di intendere e di volere, alla rilevanza sociale del fatto e al grado di responsabilità, ma anche all’individuazione della risposta giudiziaria più adeguata (che può essere solo penale o mista penale/civile) alle difficoltà personali, familiari e sociali che il minore ha reso evidenti mediante la commissione di un fatto penalmente rilevante. I servizi minorili dell’amministrazione della giustizia sono poi lo strumento privilegiato per svolgere gli

accertamenti; è raro, infatti, che il servizio sociale dell’ente locale o le altre agenzie/istituzioni deputate alla prevenzione segnalino autonomamente condotte irregolari agite da minori appartenenti a determinate “famiglie”. In conclusione, il procedimento penale rappresenta l’unica possibilità per focalizzare la situazione personale del minore e rappresenta per l’indagato/ imputato un’opportunità educativa, un possibile momento – forse l’esclusivo − di cesura rispetto al passato. La specializzazione e l’esclusività delle funzioni,

in una materia delicata che esige conoscenze particolari, è un principio irrinunciabile. E corollario fondamentale è la salvaguardia della struttura unitaria del nuovo organo giudiziario. La frammentazione delle competenze e la correlata impossibilità di una prospettiva unitaria del minore e delle sue dinamiche familiari non consentirebbero di operare il necessario travaso di informazioni e di strumenti di tutela – dal penale al civile e viceversa –, con grave depotenziamento dell’efficacia degli interventi rieducativi. Analogamente, l’autonomia gestionale – profondamente intaccata dal progetto di riforma – rappresenta una condizione imprescindibile per l’esercizio di una giurisdizione mirata e funzionale, che deve necessariamente interloquire − con modalità flessibili e senza vincoli gerarchici − con soggetti esterni, quali l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, la giunta regionale, gli enti locali, le aziende sanitarie e le associazioni di volontariato. Parimenti, la necessità di mantenere un’interlocuzione costante con i minori e di seguire in modo approfondito le singole vicende, al fine di calibrare interventi tempestivi, sostanziano tutti fattori che sconsigliano di appesantire con ulteriori attribuzioni di competenza, a pena di uno scadimento della qualità della risposta giudiziaria, le strutture giudiziarie deputate alla tutela dei minorenni. È un settore di giurisdizione non minoritario, che non può essere mortificato dalla logica dei numeri e dei flussi, in un’ottica aziendale e di limitato orizzonte, perché i minori rappresentano il futuro della nostra società e in loro è riposta la speranza di rinnovamento culturale possibile. Questo e solo questo è il sistema capace di coniugare le esigenze di specializzazione e quelle di prossimità e di salvaguardare il bene prezioso della cultura minorile, ormai uscita dagli argini di una dimensione elitaria e sempre di più valore diffuso anche oltre i confini degli Uffici giudiziari.

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L’indipendenza va conquistata a colpi di diritto* Christophe Régnard Presidente dell’Associazione Europea dei Magistrati

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73 Cari colleghi, è un grande piacere essere qui tra voi per dibattere un tema che è al centro del mio attuale incarico professionale e che si ricollega alle mie due funzioni di presidente dell’Associazione Europea dei Magistrati e membro del Consiglio Superiore della Magistratura in Francia. Mi è stato chiesto di parlarvi del «governo autonomo» della Magistratura e delle problematiche in materia di indipendenza della stessa. La nozione stessa di governo autonomo o autogoverno della Magistratura, che sembra legittima in molti Paesi, è alquanto vituperata in Francia. La scorsa settimana mi è capitato di leggere su un importante quotidiano nazionale, che richiamava le difficoltà della magistratura, che «il governo dei giudici era fonte di paralisi». Non pochi politici, non appena si ritrovano invischiati in vicende giudiziarie, denunciano il «governo dei giudici», la politicizzazione della magistratura e uno spirito di corpo figlio della nostra formazione comune alla Scuola di Magistratura – che taluni vorrebbero, tra l’altro, sopprimere – che attenterebbero alla democrazia. La realtà è ben diversa. Non c’è in Francia governo dei giudici, se non nella testa di coloro che lo lamentano! L’inadeguatezza dei mezzi, l’evidente squilibrio tra i diversi poteri (il potere giudiziario è definito semplice «autorità giudiziaria» nella Costituzione del 1958), vietano un qualunque reale governo dei giudici, tra l’altro non auspicabile e non rivendicato. Queste critiche sistematiche rivolte all’azione della Magistratura, che, con ogni probabilità, si lascia di proposito versare nella penuria, non sono certamente uniche in Europa, ma in Francia sono diventate un leitmotiv, che ha, gradatamente, minato la fiducia che i francesi riponevano nella magistratura. Parlare oggi di autogoverno della Magistratura sembrerebbe a molti dei miei colleghi e ai decisori politici francesi spropositato, quando non addirittura scioccante! E, tuttavia, non è legittimo pensare che l’indipendenza di un corpo sia meglio assicurata dal

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74 corpo stesso? La risposta alla domanda è evidente. Ma deve essere sfumata, come testimoniato dalla situazione cilena che abbiamo avuto modo di richiamare, in occasione dell’ultima riunione annuale dell’Unione Internazionale dei Magistrati, tenutasi ai primi di ottobre a Barcellona. I nostri colleghi cileni auspicavano che prendessimo posizione per denunciare il funzionamento della loro Magistratura e il dominio forte della Corte di Cassazione sul processo di valutazione, nomina, promozione e disciplina dei giudici. In Cile è infatti la corte suprema a gestire la magistratura nel suo complesso, fissando finanche le proprie regole di funzionamento. I nostri colleghi intendevano denunciare attacchi all’indipendenza giurisdizionale e un blocco di una qualunque evoluzione giurisprudenziale, indotta dal fatto che qualunque magistrato prospetti una nuova soluzione, non conforme alle «norme» della corte suprema, veda sfumare la propria carriera. La soluzione immaginata prevedeva la delega delle competenze al Parlamento… Ovvero, come passare dalla padella alla brace… Più che l’autogoverno dei magistrati (sempre meno accettabile nelle nostre democrazie e gravido di rischi), più che una gestione totalmente esterna (e necessariamente politica), è nei Consigli di Giustizia che si delinea la via intermedia da percorrere. È d’altronde questa un’esigenza avvertita in tutti i testi internazionali che fissano le norme di una magistratura indipendente e imparziale. Dall’articolo 1.3 della carta europea sullo statuto dei giudici, adottata nel 1998 dal Consiglio d’Europa, al paragrafo 3 della magna carta dei giudici europei del 2010, passando per gli articoli 26 e successivi della raccomandazione

2010(12) del Consiglio d’Europa su «magistrati, indipendenza, efficacia e responsabilità», tutti i testi invocano la creazione di un «organo indipendente, costituito in base alla Legge o alla Costituzione, che punti a garantire l’indipendenza della magistratura e di ciascun magistrato e a promuovere un efficace funzionamento del sistema giudiziario». Detti testi insistono altresì su due punti essenziali che riguardano la composizione e i poteri di tali organi: - una composizione che assicuri la più ampia rappresentanza dei magistrati (almeno la metà dei magistrati eletti dai propri pari, secondo il Consiglio d’Europa; una presenza esclusiva o una maggioranza sostanziale dei magistrati eletti dai propri pari, secondo il CCJE); - poteri più ampi, ovvero, secondo il CCJE «le più ampie prerogative per qualunque aspetto relativo al loro statuto, nonché all’organizzazione, al funzionamento e all’immagine delle istituzioni giudiziarie» e, per la precisione, con riferimento alla carta europea sullo statuto dei giudici «qualunque decisione relativa a selezione, reclutamento, nomina, progressione di carriera o messa a riposo di un magistrato». È proprio su questi due punti che mi soffermerò, richiamando le problematiche emerse in Francia e allargando lo sguardo ad alcuni esempi europei. Avrei potuto parlarvi di altri aspetti essenziali dell’indipendenza dei magistrati, che si situano non tanto a livello istituzionale, quanto a livello funzionale in ciascuna giurisdizione. Mi riferisco, in particolare, all’assegnazione dei fascicoli, alla ripartizione dei magistrati nelle diverse sezioni e, più in generale, a un principio essenziale che è quello del giudice naturale. Avrei anche potuto accennare alla

In Cile è la corte suprema a gestire la magistratura

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gestione delle giurisdizioni, suscettibile di ripercuotersi sull’operato dei magistrati, e prefigurare altrettanti potenziali attacchi alla loro indipendenza giurisdizionale. Ma il limitato tempo a mia disposizione mi obbliga a operare delle scelte. Mi atterrò, quindi, nel mio intervento alle questioni di ordine istituzionale.

Quale composizione per il Consiglio di Giustizia Istituire un Consiglio di Giustizia, incaricato di gestire la magistratura, ha un significato unicamente laddove lo stesso possa agire in piena indipendenza. Perché ciò accada, la qualità e le modalità di designazione dei suoi componenti rivestono un ruolo di primo piano.

Non togati? In quale proporzione e con quali garanzie? La presenza di non togati in seno ai Consigli di Giustizia è spesso vista come il miglior modo di contrastare il «presunto» corporativismo e un nefasto gioco interno. In Europa, come ricordavo poc’anzi, il dibattito sembra orientarsi a favore di una composizione mista, a maggioranza di togati. L’espressione «non meno del 50%» di magistrati è essenzialmente una scelta diplomatica, pensata per consentire a Belgio e Portogallo di mantenere le rispettive composizioni paritarie. Il recente dibattito aperto in seno alla rete europea dei Consigli di Giustizia, su iniziativa dei paesi anglosassoni e del Nord Europa, per i quali la presenza di membri non togati nel processo di nomina

e promozione dei magistrati sembrava costituire un grave attentato all’indipendenza, è la conferma di quanto la questione resti sensibile. In Francia, la presenza di una componente non togata è sancita dai testi sin dal 1994 e, occorre riconoscerlo, fino al 2008, quanto meno, con soddisfazione di tutti. La riforma costituzionale del 2008, entrata in vigore nel 2011, introducendo una maggioranza di non togati (8 contro 7 per formazione – 4

La qualità e le modalità di designazione dei componenti di un Consiglio di Giustizia rivestono un ruolo di primo piano

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contro 6, in precedenza), è venuta a sbilanciare un già fragile edificio. Oltre a violare deliberatamente le indicazioni europee, genera potenzialmente per la magistratura un rischio di politicizzazione. In effetti, 6 degli 8 membri non togati sono ormai designati dal Presidente della Repubblica e dai presidenti delle due assemblee (due membri ciascuno). Soltanto un veto, molto improbabile, del Parlamento a maggioranza qualificata può impedire una

nomina. Non è richiesto nessun criterio di competenza. Anche se i colleghi che si sono succeduti dal 2011 non hanno in realtà provocato un’eccessiva politicizzazione, grazie alla presenza di personalità davvero indipendenti; sussiste tuttavia il rischio che questi 6 membri (nell’ipotesi in cui fossero nominati da autorità politiche appartenenti alla stessa maggioranza) costituiscano un blocco compatto, capace di «tenere» in mano tutte le nomine e quindi l’intera magistratura.

Una maggioranza di non togati può generare un rischio di politicizzazione per la magistratura

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Magistrati. Quali modalità di nomina? Quale che sia la proporzione di magistrati in seno al Consiglio, occorre comunque che vi siano assicurazioni sulle condizioni di nomina o, volendo attenersi alle indicazioni europee, sulle condizioni di elezione dei suoi componenti. In Francia, se 6 dei 7 magistrati del CSM sono eletti dai propri pari, il sistema privilegia chiaramente la gerarchia giudiziaria. Infatti, al di là dei vertici della Corte di Cassazione, membri di diritto, vengono eletti in ciascuna sezione competente del Consiglio: un magistrato che si colloca fuori dalla gerarchia della Corte di Cassazione, un primo presidente della Corte d’appello e un presidente di Tribunale o un


77 procuratore. Gli ultimi tre membri vengono eletti dai grandi elettori, a loro volta eletti dall’insieme dei magistrati, a scrutinio proporzionale di lista, a livello regionale. In sintesi, circa 300 magistrati, che rappresentano la gerarchia giudiziaria, designano tanti membri quanti quelli designati dalle migliaia di Corti e Tribunali! Ma, quantomeno, il sistema si fonda realmente su elezioni libere e democratiche. Il che non è sempre vero in tutta Europa. In Spagna, è il sistema elettivo a essere stato di recente rimesso in discussione. I componenti togati sono ormai scelti dal Parlamento, in base a una rosa di candidati patrocinati da altri magistrati. Il numero di questi padrini è stato notevolmente ridotto. Ne consegue che le organizzazioni rappresentative dei magistrati sono state bypassate e la scelta finale resta del Parlamento, senza controllo alcuno ad opera dell’apparato giudiziario. Il secondo esempio riguarda la Turchia, Paese in cui i magistrati sono ampiamente maggioritari ed eletti dai propri pari, conformemente alle indicazioni europee. Ma, nell’autunno del 2014, in occasione del rinnovo dell’Alto Consiglio dei Giudici e dei Procuratori, il governo ha, molto semplicemente, truccato le elezioni per far eleggere magistrati a lui vicini. Questi candidati, che si sono presentati sotto un’etichetta pseudoindipendente, hanno beneficiato, diversamente dalle altre associazioni professionali di magistrati, di tutti i mezzi dello Stato per fare campagna elettorale (conferenze e incontri ai quali venivano condotti in autobus, disponibilità di indirizzi di posta elettronica e di cellulari a fini della propaganda elettorale…). Inoltre, il governo ha fatto promesse in materia salariale e di sospensione di eventuali procedimenti giudiziari a carico dei candidati da lui sostenuti, ove fossero stati eletti. L’esito delle elezioni è stato, ahimé, in linea con le attese del governo. Da un anno a questa parte, i magistrati sono, per volontà del Presidente della Repubblica, trasferiti d’ufficio e sanzionati da un Consiglio chiaramente subordinato, in spregio a qualunque garanzia minima chiesta dall’Europa!

Quale presidenza per il Consiglio Non meno importante è la questione relativa alla presidenza del Consiglio (e in Francia della presidenza delle diverse sezioni competenti dello stesso). Per lungo tempo è stato il Presidente della Repubblica, in qualità di garante costituzionale dell’indipendenza dell’autorità giudiziaria, a presiedere il CSM. Il Ministro della Giustizia fungeva da vice presidente. A detta di alcuni equivaleva ad affidare la guardia del gregge al lupo… In realtà, né il Presidente della Repubblica, né il Guardasigilli, partecipavano regolarmente alle sedute e, per lo più, quando ciò accadeva, la loro competenza non era vincolante. In occasione della riforma del 2008, la presidenza del Consiglio è passata al primo presidente della Corte di Cassazione (presidente della sezione in composizione plenaria e della sezione competente per la magistratura giudicante), il procuratore generale presso la Corte di Cassazione presiede invece la sezione competente per la magistratura requirente – il cosiddetto “parquet”. Positiva sotto il profilo simbolico, tale presidenza pone tuttavia non poche difficoltà. Innanzitutto, Il Consiglio Costituzionale ha fatto divieto ai vertici della Corte d’appello di presiedere sedute nelle quali si dibattano nomine di magistrati della Corte di Cassazione, il che indebolisce ulteriormente il numero dei magistrati in seno al CSM per queste posizioni di rilievo. Inoltre, nella pratica, quando il Consiglio si riunisce tre giorni a settimana (due per la sezione competente per la magistratura giudicante e uno per la sezione competente per la magistratura requirente), il carico di lavoro è tutt’altro che trascurabile. E questo incide sulle altre attività dei presidenti delle Corti. Infine, benché si dibatta del fatto che i ricorsi avversi le decisioni del Consiglio (in materia di nomine e di disciplina) siano esaminati dal Consiglio di Stato e non dalla Corte di Cassazione nella sua composizione plenaria, il fatto che il CSM (e dunque

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78 la sua sezione disciplinare) sia presieduto dal presidente della Corte di Cassazione rappresenta una delle argomentazioni che vengono fatte valere per impedire un’evoluzione che appare, per altri versi, legittima. Si potrebbero immaginare altri sistemi, in particolare, la designazione del presidente del Consiglio da parte dell’autorità politica, tra i non togati, o un’elezione del Presidente tra i suoi membri. Se la prima soluzione appare inaccettabile, in quanto darebbe, agli occhi dell’opinione pubblica, l’idea di una politicizzazione del Consiglio, la seconda lo sarebbe unicamente ove la scelta non fosse limitata a un non togato, come avevano teorizzato alcuni in Francia, a difesa di un CSM composto in modo paritario. In presenza di una voce preponderante, in caso di parità, in sede di voto, i magistrati finirebbero per essere messi in minoranza! In diversi Paesi, la natura dei poteri esercitati dal CSM influisce sulla composizione del Consiglio, e, in particolare, sul numero della componente non togata. In Francia, non è così. Non solo la composizione è squilibrata, ma i poteri sono limitati!

Quali poteri per il Consiglio di Giustizia? Ho citato in apertura le norme europee che invocano più ampie prerogative per il Consiglio di Giustizia. In Francia, le prerogative del Consiglio sono tra le più limitate.

Nomine: potere di proposta o di parere e quale tipo di parere? In materia di nomine, il CSM, nel 90% dei casi, si esprime su una proposta del Ministro della Giustizia. È così per tutti i magistrati requirenti e per la quasi totalità dei magistrati giudicanti, eccezion fatta per i componenti della Corte di Cassazione, i primi presidenti e i presidenti dei Tribunali. Il Consiglio, esaminato l’incartamento dei magistrati

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79 proposti, visti i nominativi degli altri candidati e raccolte, eventualmente, le «osservazioni» di questi ultimi, ovvero la contestazione della scelta del Ministro, esprime un parere. Detto parere è conforme per i magistrati giudicanti, vale a dire che il Ministro è tenuto ad attenervisi, mentre è semplice per la magistratura requirente; il Ministro può quindi «passare oltre» e procedere alla nomina di un proprio candidato, a dispetto di un parere negativo espresso dal Consiglio. Questa eventualità, che fino a qualche anno fa era un semplice caso di scuola, è scomparsa di recente, essendosi i ministri impegnati pubblicamente a rispettare il parere espresso dal Consiglio. Tuttavia, le pratiche interne al Consiglio, le pressioni amichevoli su taluni componenti perché votino a favore di un candidato, piuttosto che di un altro, sono ben lungi dall’essere scomparse… Il potere del CSM si esercita realmente soltanto per l’alta gerarchia della magistratura giudicante. Per i membri della Corte di Cassazione, i primi presidenti e i presidenti dei Tribunali, il CSM assicura infatti gli inviti a presentare candidatura, seleziona i candidati utili, tiene le audizioni e ne propone la nomina al Presidente della Repubblica, la cui competenza non è vincolante. Eccezion fatta per quest’ultimo caso, il quadro è chiaramente insoddisfacente, anche se il Consiglio ha ottenuto, in questi ultimi anni, dal Ministero, nell’interesse dei magistrati, maggiore trasparenza e riesce, tramite la pratica delle raccomandazioni e delle segnalazioni, a pesare sempre più sulle proposte del Ministero. Esaminando i dossier dei candidati proposti dal Ministro, ma anche quelli degli «osservanti», ovvero dei magistrati che hanno presentato regolare candidatura, ma non sono stati scelti, il Consiglio si autorizza a segnalare situazioni personali che ritenga meritevoli di attenzione, come nel caso dei magistrati che versino in difficoltà familiari o di salute. Inoltre, esprimendo un parere negativo sulla proposta che gli viene avanzata, il Consiglio raccomanda al Ministro taluni candidati, in vista di una nomina successiva. Queste raccomandazioni positive sono

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80 ampiamente seguite dal Ministero. Occorre dire che il messaggio indirizzato alla cancelleria è chiaro: se non nominate il candidato che vi raccomandiamo, esprimeremo sistematicamente parere non conforme ai candidati che fossero nominati al posto suo! Le evoluzioni attese sono molteplici. A lungo termine, l’auspicio espresso in modo maggioritario dalla magistratura è di creare uno stretto collegamento tra l’attuale direzione dei servizi giudiziari e il CSM, perché quest’ultimo possa godere di piena competenza nella gestione della carriera dei magistrati, dal reclutamento alla pensione. A breve, si auspica, invece, un allineamento totale delle competenze della sezione del CSM per la magistratura requirente alle competenze della sezione per la magistratura giudicante e quindi la possibilità non soltanto esprimere pareri vincolanti per il Ministro, ma anche, e soprattutto, il riconoscimento del potere di proposta per tutte le posizioni della gerarchia giudiziaria del “parquet”. Non dovendo più la propria proposta al Ministro, c’è motivo di ritenere che molti procuratori si sentirebbero più sereni e liberi di agire in piena indipendenza!

Disciplina: quali poteri e quali mezzi d’indagine? Quali ricorsi e dinanzi a chi? In materia di disciplina, il quadro non è dissimile da quello delle nomine. Non appena il CSM viene investito, un membro del Consiglio viene designato quale rapporteur. Non dispone però di alcun mezzo di indagine. Può unicamente procedere di persona alle audizioni, ai confronti e alle perizie. Nei casi complessi, soprattutto quando il Consiglio è interpellato a seguito di una lagnanza di una parte in causa, può risultare molto difficile, tenuto conto dell’attività che il Consiglio svolge in parallelo sul fronte delle nomine, condurre il lavoro istruttorio in tempi ragionevoli. Istituire un collegamento, parziale o totale, con l’ispettorato generale dei

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servizi giudiziari, o, quanto meno, distaccare degli ispettori presso il CSM, tutelando l’indipendenza del Consiglio, appare a molti indispensabile, ma... ahimé non all’ordine del giorno… Altro problema in materia di disciplina è la natura della decisione resa dal Consiglio. Se nella sezione competente per la magistratura giudicante il CSM decide da solo in merito all’eventuale colpa e alla sanzione da irrogare, nella sezione competente per la magistratura requirente, le cose non stanno così. Il CSM si limita a esprimere un parere, mentre la decisione finale spetta al Ministro. Il fatto che il Ministro – che nel 95% dei casi sia all’origine del procedimento e che assicuri attraverso il proprio direttore dei servizi giudiziari l’accusa all’udienza – abbia la facoltà di pronunciarsi su una sanzione, supera ogni immaginazione! L’ultima difficoltà ha infine a che vedere con i ricorsi. Non previsti dai testi. La pratica ha portato il Consiglio di Stato a pronunciarsi, quale istanza d’appello o di cassazione, sulle decisioni del


81 Consiglio. Un dato questo che può sorprendere, tenuto conto del particolare posto che occupa in Francia il Consiglio di Stato, incaricato dei ricorsi contro atti amministrativi, ma anche consigliere del governo e incaricato di formulare pareri su tutti i progetti di legge! A garanzia di maggiore indipendenza, si fa strada l’idea di un possibile ricorso in Cassazione. L’idea circolata soprattutto nella magistratura... Dubito fortemente che possa vedere la luce a breve!

Difesa dell’istituzione giudiziaria: indipendenza e deontologia Il CSM francese è ormai muto! Fino al 2008, gli era capitato di esprimersi, quando la magistratura o singoli magistrati venivano tirati in causa dai politici, per ricordare un certo numero di regole in materia di rispetto dei giudici e di difesa

dei grandi principi di indipendenza. Il nostro ex presidente della Repubblica, lui stesso richiamato all’ordine a seguito di dichiarazioni infelici, ha fatto adottare il principio secondo il quale il CSM non possa esprimersi pubblicamente su un argomento, salvo il caso in cui non sia stato investito della questione … dal Presidente della Repubblica o dal Ministro della Giustizia … In altri termini, mai quando gli attacchi provengano dalla maggioranza! Certamente, il CSM, pubblicando ogni anno, nel suo rapporto annuale di attività, studi approfonditi su argomenti di attualità che lo stesso sceglie, elude tale divieto costituzionale. Ma il quadro resta insoddisfacente, in quanto il CSM non può reagire nell’immediato, ove siano in gioco l’indipendenza di un magistrato o della magistratura tutta. Nell’ambito dell’abortita riforma costituzionale del 2012, si era parlato di riconoscere un tale potere al Consiglio e permettergli di esprimersi spontaneamente sulle questioni di indipendenza e deontologia. Una riforma, ahimé, nata morta...

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Consultazioni sui progetti di legge e sul budget Un CSM dai poteri ristretti in materia di nomine e disciplina, un CSM muto e un CSM mai consultato, né associato alle grandi questioni organizzative del Ministero. Il CSM francese non è padrone del suo budget, che gli viene stanziato nell’ambito di dialoghi gestionali con il Ministero della Giustizia, preliminarmente alla presentazione della Finanziaria al Parlamento. Il CSM francese non viene mai consultato riguardo al budget allocato al funzionamento del sistema giudiziario. Solo di recente ha ottenuto che gli fosse comunicata la politica relativa alle risorse umane in capo alla cancelleria e che ci fosse trasparenza quanto al numero di posizioni vacanti in seno alle giurisdizioni. Il CSM francese non era mai stato consultato ufficialmente prima della presentazione dei testi di legge aventi ripercussioni sul funzionamento della magistratura, né tanto meno sui progetti di modifica dello statuto della magistratura. Sottoposte al suo parere erano unicamente modifiche di testi disciplinanti il funzionamento del Consiglio stesso. Questa situazione inverosimile evolve lentamente nella giusta direzione, soprattutto perché il CSM si è di recente spontaneamente investito di tali questioni, ha reso un parere sull’ultimo progetto di legge organica, ne ha garantito la diffusione presso il Parlamento ed è stato, tutt’a un tratto, invitato, in occasione dei dibattiti parlamentari, a illustrare la propria posizione. Una prima assoluta!

Conclusione: verso un vero Consiglio di Giustizia L’avete capito, il CSM francese non è in nulla conforme alle norme internazionali: composizione sbilanciata, poteri limitati, divieto di comunicare. Viene da sempre mantenuto, come tutta la magistratura, con un peggioramento impresso nel 2011, sotto una forma di tutela dal potere esecutivo. Una riforma costituzionale, destinata a correggere

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quella del 2008, è stata avviata nel 2012 da François Hollande. Ristabiliva una maggioranza di togati, sopprimeva la nomina dei non togati ad opera dei politici, a beneficio di una scelta collegiale a cura di una commissione composta dai rappresentanti delle più alte cariche del mondo della giustizia costituzionale, amministrativa e finanziaria e allargava le competenze del CSM alla magistratura requirente (senza tuttavia spingersi fino a un allineamento completo della magistratura giudicante e requirente). La riforma, sostenuta malvolentieri dal Ministro della Giustizia, è stata in gran parte svuotata della sua sostanza all’Assemblea Nazionale, poi abbandonata, dopo l’esame al Senato, quando il governo si è reso conto che non avrebbe mai raggiunto la maggioranza per riformare la Costituzione, anche su un testo ridotto all’osso. Tuttavia, l’attuale CSM, su impulso del suo Presidente, evolve e s’impadronisce gradatamente di competenze, di cui non necessariamente dispone per legge.


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In materia di nomine, quando gli viene unicamente sollecitato un parere, lo correda di segnalazioni e raccomandazioni che stanno dando i loro effetti. In materia disciplinare, il CSM si forgia una giurisprudenza che impone il rispetto di garanzie per i magistrati interessati. Lo stesso dicasi per i diritti dei magistrati in tutte le fasi del procedimento disciplinare (rispetto del contraddittorio, accesso al fascicolo, possibilità di essere assistito da un avvocato a propria scelta). Parimenti, non potendo investire direttamente l’ispettorato generale dei servizi giudiziari, designa magistrati della Corte di Cassazione perché procedano alle necessarie indagini. Ha anche introdotto, di recente, sul modello canadese, un servizio di supporto alla deontologia, una sorta di numero verde che consente a ciascun magistrato di richiedere consulenza in materia di deontologia. Attraverso riflessioni globali e studi pubblicati nel proprio rapporto annuale di attività (sulla parità in magistratura o sul ruolo dei capi giurisdizione),

il CSM, malgrado il divieto di prendere posizione quando non ne sia stato sollecitato dal Presidente della Repubblica o dal Guardasigilli, solleva principi di cui assicura la divulgazione. Ha d’altronde ottenuto di recente dal Ministero (il che può apparire aneddotico, ma è in realtà essenziale) la possibilità di rivolgersi direttamente ai magistrati, tramite l’invio di informazioni ai rispettivi indirizzi email professionali. In ultimo, il CSM, partecipando alle reti europea e francofona dei Consigli di Giustizia, si apre all’istituzione e applicazione degli standard internazionali. Garantire realmente l’indipendenza della magistratura, nell’interesse dei cittadini, come esplicitato nei testi internazionali, è una lotta permanente. L’indipendenza non ci sarà mai data. Spetta a noi magistrati conquistarla, a colpi di diritto. Per questo, in qualità di presidente dell’Associazione Europea dei Magistrati, non posso che rallegrarmi di vedere questa lotta proseguire sullo sfondo della solidarietà internazionale. Il lavoro dovrà portarlo avanti ciascuno nel proprio Paese. Ma dobbiamo anche portarlo avanti insieme a livello europeo. Fare sentire la nostra voce perché regole chiare siano fissate a livello europeo, non soltanto all’atto dell’ingresso nell’Unione Europea, ma anche e soprattutto dopo. Imporre queste norme, pena il ricorso innanzi alle giurisdizioni europee. Ecco la battaglia che dobbiamo portare avanti. L’Associazione Europea dei Magistrati e l’Unione Internazionale Magistrati, che hanno intrapreso l’aggiornamento della carta universale sullo statuto dei giudici, intendono fare la propria parte negli anni a venire. Grazie *Traduzione dell’intervento al XXXII Congresso nazionale dell’ANM – Bari, 24 ottobre 2015.

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Innovazione degli Uffici giudiziari e Ufficio del processo

Rossella Marro Componente del CDC dell’ANM

L’istituzione dell’Ufficio del processo, che attraverso la recente adozione dei decreti attuativi risulta arrivato alla fase terminale, può rappresentare un’importante opportunità per tutti gli Uffici giudiziari, in costante e ormai endemica carenza di organico sia di personale della magistratura che di quello amministrativo. Perché ciò accada, è necessario che si verifichino due condizioni. Innanzitutto, l’immissione negli Uffici giudiziari delle nuove energie lavorative deve essere significativa

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e costante, in quanto qualsiasi velleità di organizzazione è destinata evidentemente a fallire al di sotto di un determinato standard di risorse umane. Ed è responsabilità della politica, sotto tale profilo, fare in modo che la riforma non resti un vuoto simulacro, ma contribuisca effettivamente al miglioramento dell’efficienza degli Uffici. D’altro canto, la riforma non deve trovarci impreparati, dovendo essere adeguatamente approntato sia un sistema di formazione omogenea e permanente dei componenti l’Ufficio del processo – oggi


85 l’esperienza maturata in relazione ai tirocinanti ex art. 73 d.l. 69/13 vede prassi molto diverse, in considerazione dell’ampia discrezionalità lasciata ai capi degli Uffici nella determinazione dei contenuti, dei modi e dei tempi della formazione – sia moduli organizzativi che garantiscano l’ottimizzazione delle risorse. Sotto tale ultimo profilo occorre senza dubbio fare tesoro, non solo delle esperienze europee, nelle quali lo staff di stretta collaborazione del magistrato è già una realtà, ma anche della recente esperienza italiana dei tirocini, ex art. 73 d.l. 69/13, che secondo la previsione di un recente censimento della Direzione generale dei magistrati del Ministero della Giustizia ha visto nel corso del 2015 la presenza di ben 2.288 giovani laureati negli Uffici giudiziari. Preziosi potranno risultare, ancora, i progetti di modernizzazione del sistema giudiziario, finanziati con i fondi europei, che vedono il Ministero della Giustizia per la prima volta accreditato – con decisione datata 23 febbraio 2015 della Commissione Europea n. C(2015)1343, che, nell’ambito della Programmazione dei fondi strutturali 2014-2020, ha individuato il Ministero della Giustizia italiano come Organismo intermedio di gestione del Programma Operativo Nazionale Governance e Capacità Istituzionale – nella gestione diretta degli stessi con la finalità, tra le altre, proprio di garantire un supporto all’Ufficio del processo.

Solo con queste premesse l’Ufficio del processo potrà fornire un concreto supporto alle attività degli uffici giudiziari, andando a costituire innanzitutto lo staff del magistrato, in grado di supportarlo nell’esercizio della funzione giurisdizionale, ma anche uno strumento di forte innovazione, che assicuri un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informatizzazione e della comunicazione, con conseguente ristrutturazione dei moduli organizzativi delle cancellerie e delle segreterie. Il Ministero della Giustizia con il d.m. 1 ottobre 2015 ha dettato le linee guida per l’uniforme organizzazione dell’Ufficio del processo, lasciando ai singoli uffici giudiziari ampia discrezionalità organizzativa, che si realizzerà attraverso lo strumento tabellare. È proprio ai capi degli uffici giudiziari che sarà, pertanto, attribuito il compito, attraverso lo strumento tabellare, di dare concreta attuazione all’Ufficio del processo.

L’Ufficio del processo può rappresentare un’importante opportunità per tutti gli Uffici giudiziari

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L’organizzazione del lavoro dei componenti l’Ufficio del processo dovrà in particolare tenere conto che dello stesso fanno parte professionalità molto diverse tra loro, in quanto nell’impianto dell’art. 50 d.l. 24 giugno 2014 nr.90, che ha istituito l’Ufficio del processo presso gli uffici dei Tribunali ordinari e delle Corti d’appello, faranno parte del medesimo i tirocinanti (in specie quelli di cui all’art. 73 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv. con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n.98 e quelli di cui all’art. 37, comma 5, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con modificazioni in legge 15 luglio 2011, n. 111), i magistrati onorari, il personale amministrativo e, per le strutture di Ufficio per il processo presso la Corte d’appello, i magistrati ausiliari (introdotti dall’art. 62 d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv. con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n.98). In relazione a tale aspetto il d.m. 1 ottobre 2015, che ha dettato le linee guida per l’uniforme organizzazione dell’Ufficio del processo, ha chiarito che i compiti specifici dei soggetti assegnati all’Ufficio per il processo sono svolti nell’ambito e con riferimento alle competenze, attività e mansioni attribuite dalle rispettive normative di riferimento e per il personale amministrativo anche dalla contrattazione

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L’efficienza del servizio giustizia non deve sminuire la centralità della funzione del giudice collettiva. Per quanto riguarda la magistratura onoraria, in particolare, nell’ambito dell’intervento normativo che specificamente la riguarda (cfr. Disegno di legge recante “Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace” – ddl S.1738, XVII Leg.), è previsto l’inserimento nelle strutture dell’Ufficio per il processo per i primi quattro anni del mandato. Le attività svolte dai soggetti assegnati all’Ufficio del processo potranno essere varie nel contenuto e nelle modalità di esplicazione: ricerca dottrinale e dei precedenti giurisprudenziali, stesura di relazioni e di bozze di atti, collaborazione diretta con il magistrato per compiti strettamente ancillari all’attività di udienza e di preparazione della stessa, controllo della corretta gestione dei registri informatizzati e ogni altro compito di supporto al processo civile telematico e all’informatizzazione del processo penale. Accanto alla previsione di destinazione di alcuni componenti dell’Ufficio del processo all’affiancamento del singolo magistrato, potrà, inoltre, ipotizzarsi la previsione all’interno


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degli uffici giudiziari di strutture organizzative centrali con specifici compiti, che potranno operare sulla base di protocolli condivisi e con l’ausilio degli strumenti informatici. Particolare attenzione dovrà essere assegnata all’impulso nell’utilizzazione delle risorse informatiche e allo sviluppo delle tecnologie e dei progetti di innovazione negli uffici giudiziari, secondo la precisa indicazione fornita dallo stesso legislatore, ad esempio attraverso l’istituzione di servizi di massimazione delle sentenze della sezione, presidi unici di una o più sezioni per la gestione di alcune attività connesse al processo telematico e all’informatizzazione del penale, servizi unificati di rilevazione statistica. La sfida dell’Ufficio del processo è aperta. Il successo della riforma, date le risorse umane, dipenderà dalla volontà e capacità di partecipazione diffusa di tutti gli attori del comparto giustizia alla riorganizzazione che ne deriverà. Lo stesso CSM, nella delibera del 17 giugno 2015 sulle Best practices, ha, del resto, evidenziato la necessità di apertura verso “saperi diversi” da quelli tradizionali del giurista, come quello della scienza dell’organizzazione. Il mondo del lavoro è in continua metamorfosi e il magistrato

non può ritenersi immune. È necessario però che il cambiamento sia quanto più partecipato da parte di tutti i magistrati e non “subìto”, nella forte determinazione che l’efficienza del servizio giustizia non debba sminuire la centralità della funzione del giudice. È proprio nella capacità di mantenere un giusto equilibrio tra centralità della giurisdizione ed efficienza del servizio che si gioca la partita.

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L’eterno dibattito tra magistratura e politica in tema di intercettazioni

Riassunto dell’ultima puntata in attesa della prossima* Eugenio Albamonte Sostituto procuratore a Roma

Che le intercettazioni telefoniche siano tra i temi “caldi” della dialettica tra magistratura e politica non è certo una novità. Periodicamente l’argomento si ripropone nel dibattito pubblico, soprattutto in occasione di vicende di cronaca giudiziaria che riguardano politici e pubblici amministratori, poi il clamore si sopisce, a prescindere dal fatto che siano state o meno intraprese iniziative di riforma. E questo andamento è ormai diventato ciclico. La ragione di tanta attenzione riposa, certamente, sull’efficacia probatoria dello strumento in relazione allo svolgimento delle vicende giudiziarie. Le intercettazioni telefoniche, infatti, consentono di acquisire elementi fondamentali di prova, provenienti dalla viva voce dei protagonisti. Sono quindi risultanze difficilmente confutabili che, nella maggior parte dei casi, pongono l’indagine al riparo da ogni critica strumentale, che faccia leva sull’opinabilità della ricostruzione investigativa quando non sulla sua infondatezza e strumentalità a non mai precisati disegni oscuri perseguiti dagli organi inquirenti. Le intercettazioni, quindi, proprio per l’oggettività della prova che consentono di acquisire sono strumento assai temuto anche soltanto in relazione agli effetti che producono sul piano strettamente processuale. Ecco la ragione dei ripetuti tentativi di ridurne l’utilizzabilità o renderla comunque più difficoltosa. Ma quello processuale non è l’unico piano sul quale le intercettazioni delle conversazioni esplicano i loro effetti. C’è poi un piano politico e sociale conseguente al

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91 disvelamento all’opinione pubblica dei contenuti delle conversazioni quando ciò è compatibile con la fase processuale in cui versa l’indagine. In questo campo gli effetti sono ancor più immediati e dirompenti, atteso che le conversazioni intercettate spesso contengono, oltre alla prova dei reati commessi, anche il riscontro di atteggiamenti e linguaggi che non di rado si rivelano incompatibili con l’immagine pubblica ed il ruolo istituzionale dei protagonisti, evidenziando, al di la delle singole condotte penalmente rilevanti, un atteggiamento che, agli occhi dell’opinione pubblica, appare eticamente criticabile. L’intera immagine personale dei protagonisti ne viene travolta, mettendo in moto ondate di riprovazione che sempre più spesso mettono in discussione, almeno nel breve periodo, la possibilità di poter proseguire nell’impegno politico pubblico e nell’esercizio delle cariche istituzionali al momento rivestite dai protagonisti. Ciò determina, in ragione di dinamiche meramente politiche, medianiche e di opinione, l’anticipazione degli effetti sociali che la vicenda giudiziaria porrebbe solo all’esito del suo, lunghissimo, decorso. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che queste dinamiche siano esecrate da quanti fondano sull’immagine pubblica il loro percorso di politici e di amministratori della cosa pubblica. A cavallo della scorsa estate si è svolta l’ultima puntata di questo confronto. Il riscontro che ne rinveniamo oggi leggendo le iniziative legislative che ha prodotto è ben poca cosa rispetto all’attenzione che ha suscitato tra i protagonisti e nell’opinione pubblica; tanto che per ricostruirne puntualmente i temi e le rispettive posizioni appare molto più utile partire dalle cronache giornalistiche piuttosto che dai lavori parlamentari. In questo caso le occasioni che hanno riacceso l’attenzione sull’argomento sono state più di una e hanno riguardato leader politici con incarichi istituzionali di primissimo livello, non coinvolti nelle indagini, ma comunque coinvolti in intercettazioni telefoniche relative ad altre persone. In tutti i predetti casi, i contenuti delle

intercettazioni che li riguardano hanno prodotto imbarazzo politico per i soggetti interessati e per i relativi partiti politici, conducendo, in uno dei casi, alle dimissioni di un Ministro. Il tema dei limiti alle intercettazioni, quindi, si è posto in relazione a una sua inedita declinazione, che riguarda l’utilizzazione negli atti giudiziari e la successiva pubblicazione da parte degli organi di informazione di intercettazioni relative a conversazioni dal contenuto non incriminante e intercorse con persone non indagate. Solo in un primo momento e per un breve lasso di tempo il dibattito pubblico è sembrato orientarsi verso la possibilità di prevedere interventi legislativi volti a fissare limiti formali di inutilizzabilità per le intercettazioni che coinvolgono i “terzi”. Ma le reazioni critiche, non solo della magistratura ma di ampi settori del mondo politico hanno sconsigliato di proseguire nell’iniziativa vagheggiata attraverso dichiarazioni pubbliche estemporanee.

Le intercettazioni sono uno strumento molto temuto proprio per l’oggettività delle prove che consentono di acquisire

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92 In verità appaiono condivisibili le considerazioni da più parti svolte circa l’assoluta impraticabilità di tale soluzione se non a costo di un consistente depotenziamento dello strumento investigativo. Per almeno due ragioni. In primo luogo la spesso difficile definibilità dei ruoli dei diversi soggetti nel corso delle indagini preliminari non consentirebbe di operare una distinzione tra soggetti coinvolti e soggetti terzi se non in una fase prossima all’esercizio dell’azione penale, con l’effetto di ritardare di molto

Anche le conversazioni con soggetti estranei alle indagini possono avere un significativo valore probatorio

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l’operatività di un eventuale filtro, che rischierebbe di operare ex post. Per altro verso è quasi subito sembrato chiaro che anche le conversazioni intrattenute con soggetti estranei alle indagini possono avere un significativo valore probatorio o in quanto contengano dichiarazioni auto accusatorie rese al “terzo” dall’autore del reato o in quanto comunque utili a ricostruire il c.d. “contesto” in cui si svolge l’azione criminale, che tanto rilievo può assumere sia in chiave indiziante e, soprattutto, in chiave cautelare. Per “contesto” si intende, prevalentemente, quell’insieme di elementi che, pur non essendo direttamente e univocamente indizianti, evidenziano quale sia l’ambiente in cui opera il soggetto criminale, le sue entrature e i suoi rapporti relazionali, gli atteggiamenti personali e culturali nei quali si inseriscono le condotte illecite. In tal senso non è privo di interesse, ad esempio, evidenziare se e in che misura un imprenditore che opera nell’illegalità abbia conoscenze e


93 rapporti, anche del tutto leciti, con soggetti che rivestono cariche pubbliche; se dimostri di avere un atteggiamento insofferente al rispetto delle regole e dei principi di legalità, se dimostri spregiudicatezza nella gestione dei propri affari anche quando rimane in un’area di liceità, se vanti relazioni influenti per conseguire risultati ancorché leciti etc. Questo patrimonio di informazioni non può certamente definirsi a priori irrilevante. Spetta all’autorità giudiziaria in modo esclusivo stabilire, in relazione alla singola indagine, in che misura ed a che fine darne riscontro nel contesto degli elementi acquisiti e utilizzati a sostegno del quadro indiziario o probatorio propriamente detto. In questo campo spetta al magistrato e soltanto ad esso individuare il punto di equilibrio, nel caso concreto, tra l’esigenza di suffragare adeguatamente il quadro accusatorio in vista di un miglior risultato dell’accertamento giudiziario e l’esigenza di tutelare la privacy dei terzi estranei all’indagine

che, comunque, in nessun caso può essere illimitatamente e arbitrariamente pregiudicata. È certo che la vicenda giudiziaria che riguarda altre persone non può costituire l’occasione per dare rilievo pubblico a condotte o comportamenti di terzi che, per quanto “compromettenti”, siano del tutto estranei all’indagine e vengano inseriti in provvedimenti giudiziari al solo fine di renderli pubblici. Gli abusi che dovessero essere perpetrati in materia tradiscono l’essenza stessa della giurisdizione e la funzione del giudice quale custode dei diritti di tutti i soggetti, anche occasionalmente, attinti dall’indagine giudiziaria. La materia, per la sua delicatezza, non si presta di certo, però, a ulteriori interventi del legislatore e sul punto deve essere garanzia sufficiente quella costituita dalla professionalità del magistrato, eventualmente ulteriormente rafforzata da indicazione di criteri e linee guida come quelle adottate dal alcuni uffici requirenti. Il dibattito si è poi concentrato sul diverso tema della pubblicabilità di tali contenuti da parte degli organi di informazione. In particolare, il problema posto riguarda le intercettazioni dei “terzi” che, legittimamente effettuate, vengano poi utilizzate per la motivazione dei provvedimenti giudiziari. Per queste ultime si è sostenuta l’opportunità di introdurre limiti alla loro pubblicazione al fine di salvaguardare la privacy (meglio sarebbe dire la reputazione) dei soggetti intercettati ma estranei alle indagini. La discussione pubblica sull’argomento è stata caratterizzata da accenti e soluzioni differenti: da parte di alcuni si è sostenuto si dovesse introdurre un divieto assoluto di pubblicazione delle intercettazioni, anche di quelle riportate nei provvedimenti giudiziari, a prescindere dal fatto che riguardino gli indagati o i terzi; altri hanno ipotizzato di rafforzare il filtro costituito dalla c.d. udienza di stralcio delle intercettazioni irrilevanti; altri ancora hanno ipotizzato un limite alla pubblicazione delle sole intercettazioni dei terzi ancorché inserite nelle motivazioni dei provvedimenti. C’è anche chi ha evidenziato che nei diversi momenti nei quali

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Intervenire senza criterio in questa materia rischia di alterare gli equilibri democratici fissati dalla Costituzione

avviene la discovery degli atti di indagine vengono messi a disposizione delle parti (e fatalmente poi degli organi di informazione) i contenuti di intercettazioni non utilizzate per la motivazione dei provvedimenti giudiziari e ciò determinerebbe una loro diffusione del tutto ingiustificata. È evidente che il tema della pubblicazione delle intercettazioni interferisce più con la libertà di informazione che con la funzionalità del processo; non a caso da parte di numerosi giornalisti ed intellettuali che hanno partecipato al dibattito si è lanciato un allarme contro il rischio che venisse imposto un “bavaglio all’informazione”. Non vanno però sottovalutati i profili di intersezione tra il mondo giudiziario e quello dell’informazione né i valori sottesi al pieno esercizio della libertà di stampa in tema di cronache giudiziarie. In particolare la piena e corretta conoscibilità e pubblicabilità degli esiti dell’attività giudiziaria costituisce un presidio a garanzia delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione repubblicana ai cittadini. Non può definirsi Stato di diritto quello nel quale non siano pienamente conoscibili, controllabili e quindi criticabili le motivazioni poste a fondamento di una condanna o peggio della limitazione della

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libertà dei cittadini. Ridurre la conoscibilità diffusa dei provvedimenti giurisdizionali attraverso la loro pubblicazione determina un minor controllo sociale e politico sull’azione della magistratura e aumenta la possibilità dell’arbitrio o, all’opposto, consente di operare critiche non adeguatamente motivate e, soprattutto, non verificabili che rischierebbero di ridurre ingiustificatamente la credibilità del sistema giudiziario. Ciò è tanto più inevitabile quando si persegue un modello di magistratura che si tenga lontana dalla esternazione massmediatica delle proprie determinazioni e che parli all’opinione pubblica soltanto attraverso le argomentazioni inserite nelle motivazioni dei provvedimenti. Intervenire senza criterio in questa materia rischia, quindi, di alterare gli equilibri democratici fissati dalla Costituzione e di produrre storture e devianze ancor più dannose degli effetti che si intende prevenire. Peraltro, anche dal punto di vista meramente pratico appare assai difficile svolgere correttamente la funzione dell’informazione zigzagando tra contenuti motivazionali ostensibili e contenuti non pubblicabili, determinando inevitabilmente l’incompletezza e quindi l’apoditticità e la scarsa comprensibilità delle informazioni offerte al pubblico.


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Per questo dovrebbero essere evitate le soluzioni che selezionano all’interno dei contenuti inseriti nei provvedimenti giudiziari ciò che è pubblicabile da ciò che non lo è. Più condivisibili appaiono invece le soluzioni che consentirebbero di pubblicare tutto ciò che viene inserito nei provvedimenti, comprese le intercettazioni che coinvolgono i terzi, ma non ciò che pur essendo stato acquisito nel corso delle indagini non venga in tale modo utilizzato. L’effetto di tale limitazione sarebbe quello di salvaguardare la conoscibilità dei contenuti delle decisioni giudiziarie e, al contempo, salvaguardare la privacy di quei soggetti, anche indagati, rispetto alla diffusione di loro conversazioni non utilizzate dall’autorità giudiziaria. Si eviterebbe, pertanto, quel surplus nella diffusione di comportamenti e di fatti, non utili alle indagini, anche personalissimi, che quasi sempre segue alla piena discovery del materiale raccolto in fase di indagini. Le lunghe settimane di dibattito pubblico, che sono state ricostruite per i loro tratti salienti, hanno alla fine prodotto una norma, l’art. 30 lett. a) della proposta di legge delega al Governo per la modifica del codice penale e di procedura penale, che è stata approvata alla Camera ed ora giace al

Senato. A riprova del fatto che la supposta urgenza era, nei fatti, dettata esclusivamente dalle cronache giudiziarie dei giorni nei quali è stata prodotta. Il contenuto della norma in questione è sufficientemente generico e ambiguo da lasciar prevedere che, in futuro, il tema dovrà essere nuovamente dibattuto. Si prevede che in materia di intercettazioni debbano essere adottate dal Governo, nel provvedimento normativo delegato, disposizioni “dirette a garantire la riservatezza delle conversazioni telefoniche, attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento”. Una formulazione sibillina che lascia libero il Governo di intraprendere ogni soluzione normativa, comprese quelle, subito escluse dal dibattito politico, di ridurre o escludere del tutto l’utilizzabilità delle intercettazioni dei “terzi” nei provvedimenti che chiedono o adottano misure cautelari. Appuntamento alla prossima puntata. *Intervento scritto nel febbraio del 2016.

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linee guida sulle intercettazioni

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Armando Spataro - Procuratore della Repubblica Paragrafo 6: Anna Cefaliello - Dirigente

LINEE GUIDA su: MODALITÀ Dl DEPOSITO E RILASCIO DI COPIE SU SUPPORTO MAGNETICO O IN CARTACEO (INCLUSI I C.D. “BROGLIACCI” REDATTI DALLA POLIZIA GIUDIZIARIA) DI REGISTRAZIONI E/O TRASCRIZIONI Dl CONVERSAZIONI tELEFONICHE o AMBIENTALI, NONCHé DI COMUNICAZIONI INFORMATICHE E TELEMATICHE. ATTIVAZIONE NECESSARIA DELLA PROCEDURA PREVISTA DALL’ART. 268 co. 5, 6, 7 e 8 CPP, A TUTELA DELLA RISERVATEZZA DI CONVERSAZIONI TELEFONICHE o AMBIENTALI, NONCHé DI COMUNICAZIONI INFORMATICHE E TELEMATICHE, IN QUANTO INUTILIZZABILI O SENSIBILI AI SENSI DEL CODICE DELLA PRIVACY. SPESE RELATIVE AL RILASCIO DELLE COPIE RICHIESTE DALLE PARTI PRIVATE INDICE: l) Premessa generale: distinzione delle fasi processuali che prevedono deposito e rilascio di copie su supporto magnetico o in cartaceo (inclusi i c.d. “brogliacci” redatti dalla Polizia Giudiziaria) di registrazioni e/o trascrizioni di comunicazioni telefoniche, ambientali, informatiche e telematiche; 2) Necessità di deposito degli atti posti a base delle richieste di misure cautelari personali di cui al Titolo I del Libro IV del CPP (anche in vista di possibili richiese di riesame ex art. 309 cpp o di appello ex art. 310 cpp avverso le misure cautelari emesse); 3) Fase di attivazione della procedura di trascrizione peritale di conversazioni e comunicazioni, nonché di stralcio di quelle manifestamente irrilevanti e di cui è vietata la utilizzazione, ai sensi dell’art. 268 cpp, co. 6, 7 e 8 e dell’art. 269 cpp.; 4) Deposito degli atti relativi alle intercettazioni (trascrizioni su “brogliacci”, registrazioni di conversazioni e scambi di comunicazioni informatiche o telematiche) a seguito di chiusura delle indagini preliminari, avviso ex art. 415 bis cpp e in vista di promovimento dell’azione penale; 5) Attivazione della procedura di cui all’art. 268 cpp, co. 6, 7 e 8 e dell’art. 269 co. 3 cpp., contestualmente all’avviso ex art.415 bis cpp, al fine di ottenere lo stralcio e la secretazione di verbali o supporti audio/informatici relativi a conversazioni e comunicazioni informatiche e telematiche, inutilizzabili, nonché irrilevanti e contenenti dati sensibili, in vista della loro distruzione; 5.a) Attivazione della procedura in caso di giudizio immediato richiesto dal PM; 6) Modalità del rilascio su supporto magnetico di copie di comunicazioni telefoniche, ambientali, informatiche o telematiche e relative spese; 7) Dispositivo; 8) Facsimile di avviso ex art. 268 cpp da notificarsi contestualmente all’avviso ex art. 415bis cpp

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98 Va preliminarmente precisato che la necessità di emanare le presenti linee guida trae occasione dalle considerazioni depositate da uno studio legale di Torino, in merito al rilascio di copie di DVD contenenti registrazioni di conversazioni telefoniche o tra presenti, nonché di comunicazioni informatiche telematiche ed in merito al pagamento dei relativi diritti. Tale problematica, però, ha indotto il Procuratore ad estendere il contenuto del presente provvedimento, dando indicazioni anche in ordine alle modalità di deposito e rilascio di copie su supporto magnetico o in cartaceo (inclusi i c.d. brogliacci redatti dalla Polizia Giudiziaria) delle suddette registrazioni. Per quanto si tratti - infatti - di argomenti oggetto di comune esperienza e di recenti pronunce delle SS. UU. e di varie Sezioni Penali della Corte di Cassazione, le linee guida oggetto di questo provvedimento appaiono utili sia a seguito di alcuni quesiti prospettati da magistrati e dal responsabile dell’Ufficio Intercettazioni di questa Procura, sia in relazione al rilievo della materia che - pur considerando l’importanza delle intercettazioni come strumento d’indagine - presenta indubbi collegamenti con i temi della tutela della riservatezza e del diritto d’informazione, entrambi di rilevanza costituzionale. Il presente documento è sottoscritto dal Procuratore della Repubblica e, per la parte relativa alle spese conseguenti al rilascio di copie su supporto magnetico di intercettazioni telefoniche, ambientali, informatiche e telematiche (par. 6), anche dal Dirigente Amministrativo.

1) Premessa generale: distinzione delle fasi processuali che prevedono deposito e rilascio di copie su supporto magnetico o in cartaceo (inclusi i c.d. “brogliacci” redatti dalla Polizia Giudiziaria) di registrazioni e/o trascrizioni di comunicazioni telefoniche, ambientali, informatiche

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e telematiche In ordine al deposito e al rilascio di copie in questione ed ai fini che qui interessano, si devono distinguere le seguenti fasi processuali: a) quella conseguente alla presentazione al Giudice competente di una richiesta di misura cautelare personale, con necessità di deposito, dopo l’eventuale accoglimento della richiesta, degli atti posti a base della medesima, anche in vista di possibile richiesta di riesame (ex art. 309 cpp) o di appello (ex art. 310 cpp) avverso le misure cautelari emesse; b) quella della procedura di trascrizione in forma peritale di conversazioni e comunicazioni, nonché di stralcio di quelle manifestamente irrilevanti e di cui è vietata l’utilizzazione, ai sensi dell’art. 268 cpp, co. 6, 7 e 8; c) quella conseguente al deposito previsto al termine delle indagini preliminari, a seguito di avviso ex art. 415 bis cpp e in vista di promovimento dell’azione penale (anche con richiesta di giudizio immediato).

2) Necessità di deposito degli atti posti a base delle richieste di misure cautelari personali di cui al Titolo I del Libro IV del CPP (anche in vista di possibile richiesta di riesame ex art. 309 cpp o di appello ex art. 31O cpp avverso le misure cautelari emesse) Come è noto (limitando le citazioni alle disposizioni che qui interessano):

»»l’art.

291, co. 1 c.p.p, (“Procedimento applicativo’’), prevede che le misure cautelari personali, coercitive ed interdittive, cui la norma si riferisce sono disposte “su richiesta del pubblico Ministero che presenta al giudice competente gli


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100 trasmette al Tribunale gli atti presentati a norma dell’art. 291, comma 1, nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini”.

»»l’art. 310 cpp (“Appello”), prevede che:

elementi su cui la richiesta si fonda, nonché tutti gli elementi a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive”;

»»l’art. 293 cpp (“Adempimenti esecutivi”) a sua

volta prevede che: • “...l’ufficiale o l’agente incaricato di eseguire l’ordinanza che ha disposto la custodia cautelare consegna all’imputato copia del provvedimento unitamente ad una comunicazione ...con cui lo informa ...omissis ...e) del diritto di accedere agli atti sui quali si fonda il provvedimento” (co. 1, lett. “e”) ...omissis; • “le ordinanze che dispongono misure diverse dalla custodia cautelare sono notificate all’imputato” (co. 2); • “le ordinanze previste dai commi 1 e 2, dopo la loro notificazione o esecuzione sono depositate nella cancelleria del giudice che le ha emesse, insieme alla richiesta del pubblico Ministero e agli atti presentati con la stessa. Avviso del deposito è notificato al difensore” (co. 3);

»»l’art. 309, co. 5 cpp (“Riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva”), prevede che ‘’Il presidente (ndr.: del Tribunale del Riesame) cura che sia dato immediato avviso all’autorità giudiziaria procedente la quale, entro il giorno successivo, e comunque non oltre il quinto giorno,

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• “Fuori dei casi previsti dall’art. 309 co. 1, il pubblico Ministero, l’imputato e il suo difensore possono proporre appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali enunciandone contestualmente i motivi” (co. 1); • “...omissis... Dell’appello è dato immediato avviso all’autorità giudiziaria procedente che, entro il giorno successivo, trasmette al Tribunale l’ordinanza appellata e gli atti su cui la stessa si fonda” .... omissis ... “Fino al giorno dell’udienza gli atti restano depositati in cancelleria con facoltà per il difensore di esaminarli e di estrarne copia”. Omissis ...

IIn base al disposto delle predette norme, per quanto ciò appaia scontato, va dunque ribadito che tutti gli atti inoltrati al Giudice competente, a sostegno di richieste di misure cautelari personali, saranno - in caso di accoglimento della richiesta - oggetto di dovuto deposito per indagati, imputati e loro difensori i quali, dunque, potranno chiedere ed ottenere il rilascio di copiasu supporto magnetico e/o in cartaceo - di tutte le registrazioni e di tutti i documenti trasmessi al Giudice stesso (compresi i brogliacci realizzati dalla PG con le sintesi o le trascrizioni delle conversazioni registrate, nonché le informative riproducenti lo scambio di comunicazioni informatiche o telematiche), senza possibilità di selezione alcuna ai fini del rilascio stesso. Tale selezione dovrà essere eventualmente compiuta dal P.M in un momento precedente, in quanto spetta al PM selezionare, prima dell’invio al Giudice competente degli atti posti a sostegno della richiesta di misura cautelare, il materiale acquisito (tra cui le trascrizioni o sintesi delle intercettazioni normalmente redatte della P.G sui c.d. “brogliacci”


101 ed i relativi supporti audio o informatici) di cui ritenga di dover tutelare la riservatezza per una delle seguenti ragioni:

»»per necessità di prosecuzione di indagini, nello

stesso procedimento o anche in altri procedimenti (quando ricorrano le condizioni previste dall’art. 270 cpp);

»»per inutilizzabilità a qualunque titolo, come

- ad es. - nei casi di cui agli artt. 103 co. 5 cpp (ovviamente quando l’avvocato non sia indagato e, ove lo sia, per conversazioni con suoi assistiti attinenti alle sue attività professionali), 270 bis cpp (salvo che non ricorrano le condizioni di cui al co. 3 o il Presidente del Consiglio ne abbia autorizzato l’utilizzo o siano decorsi i termini di cui al co. 4 dell’art. 270 bis cpp), art. 6 della L. 20 giugno 2003, n. 140 contenente “Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato” (ovviamente considerando quanto deciso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 390 del 19 novembre 2007) o art. 271 cpp;

»»perché non pertinente all’accertamento delle responsabilità per i reati per cui si procede e contemporaneamente rientrante nella tipologia dei “dati sensibili” previsti dall’art. 4 lett. d) D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. “Codice della Privacy”), in particolare dati personali relativi a opinioni politiche o religiose, sfera sessuale; stato di salute;

conversazioni e/o scambio di comunicazioni informatiche o telematiche astrattamente, anche se indirettamente, favorevoli all’indagato. La selezione del materiale da non inviare al Giudice a sostegno della richiesta di misura cautelare deve quindi essere operata con criteri restrittivi ed, anzi, tendenzialmente, sarebbe auspicabile che i magistrati procedenti avessero esaurito tutte le indagini necessarie e conseguenti alle conversazioni registrate e/o a scambio di comunicazioni informatiche o telematiche prima dell’inoltro al giudice competente delle eventuali richieste di misure cautelari in modo da non precludere ai difensori I’accesso effettivo e la conoscenza - nella misura più ampia possibile - dei contenuti di tutte le comunicazioni acquisite agli atti del procedimento.

La selezione del materiale da non inviare al Giudice a sostegno della richiesta di misura cautelare deve essere operata con criteri restrittivi

»»per assoluta non pertinenza rispetto ai reati per

cui viene richiesta la misura cautelare, specie se si tratti di materiali riguardanti terze persone non indagate o non direttamente intercettate.

Tale scelta, tranne nei casi di assoluta inutilizzabilità, non potrà mai portare in questa fase al mancato inoltro al Giudice, ai fini del successivo deposito, di trascrizioni e/o registrazioni di

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102 Non sarà possibile, inoltre, trasmettere al Giudice competente sulla misura richiesta solo trascrizioni in cartaceo su “brogliacci” non accompagnate dai files audio: ciò anche in ossequio alla sentenza della Corte costituzionale 8-10 ottobre 2008, n. 336, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 268 cpp. nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico. delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate. Il rilascio di tali trasposizioni su nastro magnetico, dunque, potrà avere luogo, in questo unico caso, anche prima dell’attivazione della procedura di trascrizione peritale di cui all’art. 268, co. 6 e segg. cpp. Ai fini del completo deposito di atti a sostegno di richieste misure cautelari, nonché del tempestivo successivo rilascio delle copie o dei duplicati di supporto audio e informatici eventualmente richiesti dai difensori, i pubblici ministeri, dunque, avranno cura di realizzare - e trasmettere al Giudice competente a valutare le richieste stesse - copia in tutto fedele agli originali trattenuti presso i propri uffici - attivandosi nelle conseguenti operazioni, materiali e tecniche, eventualmente anche prima di procedere all’esecuzione del provvedimento cautelare emesso. A tal proposito, va anche citata, tra le altre, la recente sentenza n. 50452 della Corte di Cassazione - Sez. III, deliberata il 10 novembre 2015 e depositata il 23 dicembre 2015 in cui si legge che: “facendo seguito alla sentenza n. 335 del 2008 della Corte Costituzionale, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito (sent. n. 20300/2010, Lasala, Rv 246906) che il diniego o I’ingiustificato ritardo da parte dell’Ufficio del PM nel consentire al difensore l’accesso alle conversazioni intercettate e trascritte (e dunque anche la duplicazione delle registrazioni su

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supporto magnetico, di cui il difensore possa, poi, autonomamente disporre) dà luogo a nullità di ordine generale e regime intermedio - ex art. 178 cpp, lett. “c) - in quanto determina vizio nel procedimento di acquisizione della prova, vizio che tuttavia non inficia l’attività di ricerca in sé ed il relativo “risultato”, ma che si riverbera, se la nullità è stata tempestivamente dedotta, nella fase cautelare, atteggiandosi come circostanza che indebitamente ha compresso - limitatamente al sub procedimento “de libertate” - l’esercizio del diritto di difesa, con la conseguenza che le trascrizioni delle captazioni di cui non è stata resa disponibile la registrazione non possono essere utilizzate nel giudizio “de libertate” (Cass. S.U Lasala, cit., Rv 246907)”. La stessa sentenza della Corte di Cassazione - Sez. III, n. 50452 deliberata il 10 novembre 2015 e depositata il 23 dicembre 2015 prosegue affermando quanto segue: “Ovviamente la giurisprudenza è concorde nel ritenere necessario che la difesa formuli una esplicita richiesta di rilascio di copia dei supporti medesimi” (...omissis..) e che “il diritto di difesa consiste nell’ottenere copia del documento informatico e non coincide con l’esame in cancelleria dei files informatici, né vi è obbligo da parte dell’Ufficio giudiziario di disporre di un siffatto software, né dell’Ufficio del PM di assicurarsi di tale disponibilità, considerato che causa della violazione del diritto

I PM avranno cura di realizzare copia in tutto fedele agli originali


103 di difesa è l’omessa discovery di atti posti a fondamento della ordinanza cautelare, che si realizza per mancata consegna dei supporti contenenti la riproduzione dei files, a prescindere dalla possibilità di avere il programma necessario ad “aprire” e “leggere” i files stessi (in tal senso, Sez. 6, n. 41530 del 10.10.2012, De Paolis e altri, Rv. 253741). Infatti, “la giurisprudenza ha già segnalato la necessità che la difesa predisponga i propri supporti tecnologici per acquisire la fonte conoscitiva, rappresentata dalle risultanze dei mezzi di prova esperiti, mediante operazioni tecnologiche (sul punto, si veda la parte motiva della sentenza Sez. 6^, n. 53425 del 22.10.2014 PM, in proc. B., Rv 262334). Il principio deve essere qui ribadito, atteso che il dato informatico rileva con riguardo al patrimonio informativo in esso contenuto e la dottrina ha da tempo evidenziato che il concetto stesso di copia perde significato

nel caso del documento informatico, dovendosi più propriamente parlare di operazione di duplicazione.” In sostanza, conclude la sentenza, non sussiste violazione di legge per la eventuale impossibilità della difesa di accedere ai supporti magnetici contenenti le conversazioni captate, purchè sia disposto il deposito e consentita l’estrazione dei documenti informatici versati alla discovery. Peraltro, compatibilmente con le disponibilità tecnologiche, per agevolare la difesa nelle specifiche esigenze di intelligibilità delle prove di natura “informatica” - acquisite nel corso delle operazioni di intercettazione dei flussi di comunicazione -, l’Ufficio Intercettazioni di questa Procura assicura la messa a disposizione di documenti informatici, duplicati degli originali, fruibili con applicazioni o software di uso comune. Concludendo sul punto, dunque, quando vi sia stata impugnazione de libertate di un provvedimento coercitivo fondato in tutto o in parte su intercettazioni, nessun dubbio sussiste circa il diritto della difesa di ottenere copia della traccia fonica (e, se richiesta, della trascrizione operata dalla PG sui c.d. “brogliacci”) delle conversazioni e comunicazioni trasmesse dal PM al giudice competente, dopo la eventuale selezione prima specificata. E (praticamente) nessuna giustificazione può addurre il pubblico Ministero in caso di mancata ottemperanza alla richiesta difensiva. Peraltro, va ribadito che non può essere opposta al difensore che richiede copia della traccia fonica (o della trascrizione su brogliaccio) la irrilevanza della conversazione in relazione alla posizione del proprio assistito e ciò in quanto la difesa ha il diritto di “rileggere”, controllare e valutare il significato delle intercettazioni che l’accusa ha posto a fondamento del provvedimento cautelare alla luce del contenuto di tutte le conversazioni captate in sede di indagine. Ciò allo scopo di proporre una ricostruzione o una interpretazione

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104 dei fatti eventualmente diversa da quella accolta nell’ordinanza coercitiva, includente la conoscenza del contenuto delle conversazioni concernenti anche gli altri intercettati in sede di indagine.

3) Fase di attivazione della procedura di trascrizione peritale di conversazioni e comunicazioni, nonché di stralcio di quelle manifestamente irrilevanti e di cui è vietata l’utilizzazione, ai sensi dell’art. 268 cpp, co.6, 7 e 8. È questa una fase teoricamente intermedia (naturalmente relativa ai soli procedimenti in cui siano state autorizzate intercettazioni di conversazioni e comunicazioni), tra la eventuale richiesta di misure cautelari che impongono la discovery di cui s’è trattato nel paragrafo precedente e la chiusura delle indagini preliminari. Ma non può essere ignorata la prassi largamente diffusa in ogni Procura della Repubblica, secondo cui la richiesta delle parti di acquisizione e trascrizione ai sensi dei co. 6 e 7 dell’art. 268 cpp delle conversazioni e comunicazioni registrate ritenute rilevanti viene formulata in genere nelle udienze dibattimentali relative alla discussione sull’ammissione di prove ex art. 493 cpp. o, meno spesso, in quelle preliminari dinanzi al GUP (nonostante tale ultima scelta appaia per molte ragioni consigliabile). Non è questa la sede per analizzare a fondo le ragioni di tali prassi tra cui possono individuarsi, ad esempio, la previsione di richieste di giudizio abbreviato (con conseguenti possibilità di utilizzo dei “brogliacci” redatti dalla polizia giudiziaria e notevoli riduzioni delle spese connesse alle trascrizioni peritali) o la sopravvenuta perdita di importanza probatoria delle intercettazioni, conseguente alla piena confessione degli imputati o - ancora - le sopravvenute richieste di applicazione concordata della pena ex art. 444 cpp.

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Ma è comunque evidente che non sarebbe possibile negare alle parti private il diritto di accesso all’ascolto delle conversazioni o comunicazioni depositate in vista dell’attivazione della procedura in questione. È utile comunque riportare di seguito il contenuto delle previsioni di cui all’art. 268 cpp. L’art. 268 cpp (Esecuzione delle operazioni) disciplina - nei commi 1, 2, 3, 4 e 5 - l’esecuzione delle operazioni di intercettazione di comunicazioni telefoniche o tra presenti, di comunicazioni informatiche o telematiche, la redazione dei relativi verbali, le modalità di inoltro al pm dei verbali stessi e delle registrazioni, nonché la possibilità per il PM - largamente praticata - di richiedere ed ottenere dal Giudice competente l’autorizzazione al ritardato deposito di tali materiali (co. 5). Nei commi successivi, la citata norma prevede quanto segue: • Co. 6. Ai difensori delle parti è immediatamente dato avviso che, entro il termine fissato a norma dei commi 4 e 5, hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero


105 di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche. Scaduto il termine, il giudice dispone l’acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti, che non appaiano manifestamente irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione. Il pubblico Ministero e i difensori hanno diritto di partecipare allo stralcio e sono avvisati almeno ventiquattro ore prima. • Co. 7. Il giudice dispone la trascrizione integrale delle registrazioni ovvero la stampa in forma intellegibile delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche da acquisire, osservando le forme, i modi e le garanzie previsti per l’espletamento delle perizie. Le trascrizioni o le stampe sono inserite nel fascicolo per il dibattimento. • Co. 8. I difensori possono estrarre copia delle trascrizioni e fare eseguire la trasposizione della registrazione su nastro magnetico. In caso di intercettazione di flussi di comunicazioni informatiche o telematiche i difensori possono richiedere copia su idoneo supporto dei flussi

intercettati, ovvero copia della stampa prevista dal comma 7. Non si deve dimenticare, inoltre, che - come già specificato nel precedente paragrafo - l’articolo 268 cpp è stato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale, con sent. 8-10 ottobre 2008, n. 336, nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate. L’art. 269 cpp (Conservazione della documentazione) prevede quanto segue: • Co. 1. I verbali e le registrazioni sono conservati integralmente presso il pubblico Ministero che ha disposto l’intercettazione • Co. 2. Salvo quanto previsto dall’articolo 271 comma 3 , le registrazioni sono conservate fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione. Tuttavia gli interessati, quando la documentazione non è necessaria per il procedimento, possono chiederne la distruzione, a tutela della riservatezza, al giudice che ha autorizzato o convalidato l’intercettazione. Il giudice decide in camera di consiglio a norma dell’articolo. • Co. 3. La distruzione, nei casi in cui è prevista, viene eseguita sotto controllo del giudice. Dell’operazione è redatto verbale. Si può affermare, prima di passare al paragrafo successivo, che la procedura di trascrizione peritale di conversazioni e comunicazioni ai sensi dell’art. 268 cpp, co. 6, 7 e 8 e dell’art. 269 cpp, pur non sempre attivata durante le indagini preliminari per le ragioni già indicate, non presenta particolari problemi: i difensori delle parti

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106 hanno il diritto di esaminare gli atti ed ascoltare le registrazioni ma non possono ottenere copia dei files audio (o la loro trascrizione in cartaceo) se non - dopo l’esaurimento della procedura prevista dai co. 6 e 7 dell’art. 268 cpp. - di quelli ritenuti rilevanti dal Giudice e conseguentemente trascritti nella forma peritale. Il richiamo a quanto previsto dall’art. 268 cpp è tuttavia utile anche in vista di quanto sarà specificato nei successivi paragrafi nn. 4 e 5.

di quelle manifestamente irrilevanti e di cui è vietata la utilizzazione, ai sensi dell’art. 268 co. 6 e 7 cpp.

4) Deposito degli atti relativi alle intercettazioni (trascrizioni su brogliacci, registrazioni di conversazioni e scambi di comunicazioni informatiche o telematiche) a seguito di chiusura delle indagini preliminari, avviso ex art. 415 bis cpp e in vista di promovimento dell’azione penale. 1

Va ricordato, allora, che l’art, 415 bis cpp prevede quanto segue: 1. Prima della scadenza del termine previsto dal comma 2 dell’articolo 405, anche se prorogato, il pubblico Ministero, se non deve formulare richiesta di archiviazione ai sensi degli articoli 408 e 411, fa notificare alla persona sottoposta alle indagini e al difensore nonché, quando si procede per i reati di cui agli articoli 572 e 612 bis del codice penale, anche al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa avviso della conclusione delle indagini preliminari.

A ben riflettere, è questa l’unica fase che pone A ben riflettere, è questa l’unica fase che pone problemi in ordine al tema che qui interessa, in quanto, nei procedimenti in cui siano state disposte intercettazioni di conversazioni o comunicazioni: a) potrebbe non essere mai stata richiesta ed ottenuta alcuna misura cautelare personale; b) potrebbe essersi verificato che, pur dopo una misura cautelare emessa dal giudice competente e pur dopo il dovuto deposito, siano state disposte nuove intercettazioni telefoniche o siano proseguite quelle non “svelate”, con conseguente provvedimento autorizzativo del ritardato deposito ai sensi dell’art. 268 co. 5 cpp; c) potrebbe non essere mai stata avviata la procedura di trascrizione peritale nonché di stralcio 1 Trattasi delle ipotesi di inutilizzabilità cui segue la distruzione dell’intercettazione stessa

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In ognuna di tali ipotizzabili situazioni, dunque, gli atti relativi alle intercettazioni da depositare a seguito di avviso ex art. 415 bis cpp (preesistenti o successivi ad una richiesta di misura cautelare accolta) potrebbero non essere mai stati depositati in precedenza o potrebbero non coincidere in toto con quelli già depositati in occasione di eventuale misura cautelare.

2. L’avviso contiene la sommaria enunciazione del fatto per il quale si procede, delle norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo del fatto, con l’avvertimento che la documentazione relativa alle indagini espletate è depositata presso la segreteria del pubblico Ministero e che l’indagato e il suo difensore hanno facoltà di prenderne visione ed estrarne copia. “omissis” E va pure citato l’art. 139 Norme Attuazione al CPP che a sua volta prevede quanto segue. Durante i termini previsti dall’art. 458 del codice, le parti e i difensori hanno facoltà di prendere visione ed estrarre copia, nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari, del fascicolo trasmesso a norma dell’art. 454 comma 2 del codice”.


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E’ dunque indiscutibile che indagati e difensori abbiano, al termine delle indagini preliminari, il diritto pieno e tendenzialmente non limitabile di conoscere l’intero contenuto del fascicolo del pubblico Ministero e - conseguentemente - quello di estrarne copia integrale (il che significa copia dei documenti in cartaceo e di ogni altro supporto audio, informatico o magnetico esistente in atti, anche se attinenti alle intercettazioni): solo in tal modo può assicurarsi l’esercizio pieno del diritto di difesa essendo ben noto che, in maniera assolutamente frequente e come già si è detto, la ricostruzione della

responsabilità o dell’estraneità dell’accusato rispetto al fatto delittuoso attribuitogli dipenderà, con riferimento alla prova per intercettazione, dalla lettura (e dall’ascolto) di una pluralità di conversazioni, alcune delle quali apparentemente non riferibili al singolo imputato della cui posizione si discute. Diversamente, si finirebbe con il limitare in modo inaccettabile l’esercizio del diritto di difesa.

È indiscutibile che indagati e difensori abbiano al termine delle indagini preliminari il diritto pieno di conoscere l’intero contenuto del fascicolo del PM

Tuttavia, anche all’atto del deposito post avviso ex art. 415 bis cpp o in vista della richiesta del giudizio immediato ex artt. 453 e segg. cpp., il PM potrebbe trovarsi nella condizione di

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dover garantire la riservatezza del materiale acquisito (tra cui anche le trascrizioni o sintesi delle intercettazioni normalmente redatte della PG sui c.d. “brogliacci” ed i relativi supporti audio o informatici), non più per necessità di prosecuzione di indagini in altri procedimenti in quanto in tal caso avrà certamente provveduto a separazione e nuova iscrizione, ma (come in precedenza ipotizzato):

»»per

inutilizzabilità a qualunque titolo, come - ad es. - nei casi di cui agli artt. 103 co. 5 cpp (ovviamente quando l’avvocato non sia indagato e, ove lo sia, per conversazioni con suoi assistiti attinenti alle sue attività professionali), 270 bis cpp (salvo che non ricorrano le condizioni di cui al co. 3 o il Presidente del Consiglio ne

abbia autorizzato l’utilizzo o siano decorsi i termini di cui al co. 4 dell’art. 270 bis cpp), art. 6 della L. 20 giugno 2003, n. 140 contenente “Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato” (ovviamente considerando quanto deciso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 390 del 19 novembre 2007) o art. 271 cpp;

»»perché

non pertinente all’accertamento delle responsabilità per i reati per cui si procede e contemporaneamente rientrante nella tipologia dei “dati sensibili” previsti dall’art. 4 lett. d) D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. “Codice della Privacy” ), in particolare dati personali

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relativi a opinioni politiche o religiose, sfera sessuale, stato di salute. Senonché, depositati gli atti ex art. 415 bis cpp o richiesto dal PM il giudizio immediato, i difensori interessati possono presentare istanza per ottenere copia di documentazione e supporti relativi a intercettazioni di conversazioni e comunicazioni varie. Di fronte a tale possibilità, non può essere riconosciuto al Pubblico Ministero, né la possibilità di secretazione di tali atti (ad eccezione dell’ipotesi di cui all’art. 270 bis cpp - “Comunicazioni di servizio tra appartenenti al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza e ai servizi di informazione per la sicurezza” e salvo che, come si è detto, non ricorrano i casi previsti nel co. 3


109 e co. 4 della stessa norma), né quella di respingere direttamente la richiesta di rilascio copie formulata dal difensore. In tale ultima eventualità, infatti, non pare possibile che una parte processuale, sia pure pubblica, possa limitare l’espansione del diritto di difesa degli imputati. D’altro canto, con il deposito oggetto dell’avviso di cui all’art. 415 bis cpp, verrebbe meno il divieto di pubblicazione per riassunto degli atti in questione, come previsto dall’art. 114 co. 2 cpp: anche questo rilievo rimanda alla necessità di un intervento giurisdizionale (con esclusione di una mera decisione del PM) per la decisione in ordine al rilascio o meno, nella fase successiva alla chiusura delle indagini preliminari e su istanza dei difensori, delle copie di documenti o supporti audio/ informatici relativi a conversazioni e comunicazioni inutilizzabili, nonché irrilevanti e contenenti dati sensibili, come sopra schematizzati.

5) Attivazione della procedura di cui all’art. 268 cpp, co. 6, 7 e 8 e dell’art. 269 co. 3 cpp., contestualmente all’avviso ex art. 415 bis cpp, al fine di ottenere lo stralcio e la secretazione di verbali o supporti audio/informatici relativi a conversazioni e comunicazioni informatiche e telematiche, inutilizzabili, nonché irrilevanti e contenenti dati sensibili, in vista della loro distruzione. Il rilievo che precede rimanda alla necessità di attivare la già illustrata procedura di cui all’art. 268 cpp, co. 6, 7 e 8 e art. 269 co. 3 cpp, non direttamente (o non solo) al fine di ottenere la trascrizione peritale di conversazioni e comunicazioni utilizzabili, ma a quello opposto - pure praticabile in base alla lettera ed alla ratio della norma - di ottenere separazione e secretazione processuale (con divieto di rilascio di copie alle parti richiedenti) di conversazioni e comunicazioni inutilizzabili, nonché irrilevanti e contenenti dati sensibili ai sensi del citato Codice della Privacy, in vista della successiva distruzione.

In sintesi, rilevata la presenza in atti di tali conversazioni o comunicazioni, contestualmente all’avviso di cui all’art. 415 bis cpp (e sempre che non vi abbia provveduto in precedenza, cioè durante le indagini preliminari, secondo la procedura di cui al precedente paragrafo 3), il Pubblico Ministero:

»»darà

ai difensori l’avviso di cui al co. 6 dell’art. 268 cpp, con facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, espressamente precisandovi (ove non ritenga di dovere anche richiedere al giudice competente la trascrizione peritale delle conversazioni-comunicazioni utilizzabili) che intende richiedere al giudice competente lo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata la utilizzazione e di quelli contenenti dati sensibili ai sensi del Codice della Privacy (purchè irrilevanti);

»»darà

disposizioni alla propria segreteria perché siano indicizzati separatamente gli atti da depositare ai sensi dell’art. 268 cpp ed includerà nel relativo avviso, da notificarsi contestualmente a quello di cui all’art. 415 bis cpp (come da modulo qui allegato a titolo di esempio), l’elenco delle registrazioni o delle comunicazioni informatiche o telematiche di cui si intenda chiedere lo stralcio, con mera indicazione degli estremi del provvedimento autorizzativo della intercettazione di interesse, nonché della data della acquisizione di registrazione o comunicazione e dell’eventuale numero progressivo della medesima, senza alcuna sintesi dei contenuti: in tal modo sarà facilitata per avvocati e giudice competente la individuazione delle conversazioni o comunicazioni inutilizzabili o irrilevanti con dati sensibili, nonché i flussi di comunicazioni informatiche o telematiche di cui il PM intenda chiedere lo stralcio;

»»darà

disposizioni all’Ufficio Intercettazioni e/o di segreteria competente perché gli avvocati

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110 richiedenti abbiano accesso a registrazioni, flussi e relativi verbali senza diritto di ottenerne alcuna copia;

»»scaduto

il termine di 5 giorni, entro cui i difensori potranno avervi accesso, inoltrerà al Giudice competente la richiesta di stralcio delle registrazioni, dei suddetti flussi e dei relativi verbali e, qualora non intenda o non possa chiederne subito la distruzione, di invio di tali atti al proprio ufficio per la conservazione ai sensi dell’art. 269 cpp fino alla sentenza non più soggetta ad impugnazione.

Di conseguenza, attivata tale procedura e fino al suo esaurimento, non verranno meno i divieti di cui ai co. 1 e 2 dell’art. 114 cpp e gli atti rimarranno processualmente segreti fino al momento in cui il Giudice competente - e non il Pubblico Ministero assumerà doverosamente, da un lato, le decisioni relative ad inutilizzabilità di atti o a manifesta irrilevanza di registrazioni e flussi di comunicazioni informatiche o telematiche contenenti dati sensibili di cui il PM stesso abbia richiesto lo stralcio e, dall’altro, quelle relative ad eventuali richieste difensive di estrazione di copie dei medesimi.

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Naturalmente, ove il Giudice competente dovesse respingere in tutto o in parte la richiesta di stralcio (e quella eventuale di distruzione), anche i suddetti atti e registrazioni saranno oggetto di deposito al termine delle indagini preliminari, con conseguente diritto per le parti di richiederne ed ottenerne copia Tale direttiva appare peraltro praticabile facilmente e senza particolare aggravio per i magistrati e le segreterie dell’Ufficio perché i casi in cui durante la fase delle indagini preliminari si verifica l’acquisizione di conversazioni o comunicazioni inutilizzabili o irrilevanti e contemporaneamente

contenenti dati sensibili sono numericamente esigui e perché gli organi di polizia giudiziaria cui il presente provvedimento viene pure inviato provvederanno (o continueranno a provvedere ove si tratti di prassi già attuata) ad indicare - nei brogliacci o nei verbali delle operazioni da loro redatti - l’avvenuta registrazione di tali conversazioni o comunicazioni, indicandone data ed ora, nonché gli apparati su cui la registrazione è intervenuta, senza alcuna sintesi delle conversazioni e comunicazioni e senza indicazione delle persone tra cui le stesse siano intervenute.


111 Nei casi dubbi, la polizia giudiziaria procedente potrà ovviamente consultare il PM assegnatario del procedimento nell’ambito del quale la intercettazione di conversazioni e comunicazioni sia stata autorizzata. Va infine ribadito, ad ulteriore chiarimento delle disposizioni di cui al presente paragrafo che, per non aggravare l’impegno dei magistrati e delle relative segreterie, essere devono intendersi riferite (vedi pag. 9) solo a registrazioni di conversazioni o a comunicazioni informatiche o telematiche:

»»inutilizzabili a norma di legge; »»irrilevanti per i reati per cui

si procede e contemporaneamente contenenti “dati sensibili” previsti dall’art. 4 lett. d) D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. “Codice della Privacy”), in particolare dati personali relativi a opinioni politiche o religiose, sfera sessuale, stato di salute.

In relazione a registrazioni o comunicazioni informatiche o telematiche semplicemente irrilevanti, ma non contenenti dati sensibili, la scelta del momento in cui attivare la procedura prevista in questo paragrafo resta rimessa alla valutazione del magistrato titolare del procedimento, pur se i dati irrilevanti riguardino terze persone non indagate o non indirettamente intercettate.

5.a) Attivazione della procedura descritta in caso di giudizio immediato richiesto dal P.M La procedura finalizzata alla richiesta del predetto stralcio, ove ne ricorrano gli estremi (presenza nel procedimento di registrazioni o comunicazioni informatiche o telematiche rientranti nelle due predette categorie) dovrà essere osservata anche in caso di richiesta di giudizio immediato ex artt. 453 e segg. cpp.

In tal caso, non essendo per tale rito previsto l’avviso di cui all’art. 415 bis cpp, il pubblico Ministero dovrà comunque disporre il deposito di cui all’art. 268 co. 4 e 5 cpp, preferibilmente, almeno 5 giorni prima della scadenza dei termini rispettivamente previsti dagli articoli 453 co. 1 bis e 454 co 1 cpp., e comunque non oltre gli stessi, in modo da poter inoltrare al Giudice la richiesta di stralcio contemporaneamente alla richiesta di giudizio immediato e così consentendo al Giudice, che pure potrà assumere le decisioni di competenza in tempi diversi, di conoscere tempestivamente anche il materiale di cui il PM non ritenga di potersi avvalere. Riassumendo: effettuato il deposito predetto, il pubblico Ministero inoltrerà al Giudice sia la richiesta di giudizio immediato ex art. 453 co. 1 bis o 454 co 1 cpp., sia - ove non inoltrata in precedenza - quella di stralcio di conversazioni e comunicazioni informatiche o telematiche (con relativi verbali) rientranti nelle due categorie indicate nella pagina precedente.

6) Modalità del rilascio su supporto magnetico di copie di comunicazioni telefoniche, ambientali, informatiche o telematiche e relative spese Si è già detto in premessa che la necessità di emanare le presenti direttive trae origine dalle considerazioni depositate dallo studio legale “Cappelletto e Malerba” di Torino, in merito al rilascio di copie di DVD contenenti registrazioni di conversazioni telefoniche e telematiche ed in merito al pagamento dei relativi diritti. In proposito va innanzitutto ricordato che il T.U. sulle Spese di Giustizia 115/2002 prevede, all’allegato 8 riguardante i diritti di copia su supporto diverso dal cartaceo, l’importo di € 320,48 per ogni CD (importo così aggiornato con Decreto 7/5/2015 pubblicato su G.U. del 30/06/2015).

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112 La problematica consiste nello stabilire il significato reale di quel “per ogni compact disc”, che può essere interpretato o nel senso di “ogni CD depositato agli atti”, o di ogni CD rilasciato alla parte che chiede la copia, o di ogni richiesta avanzata dall’interessato. Nel primo caso, infatti, qualora i CD in atti fossero numerosi e i diritti fossero quantificati in base al loro numero, l’importo potrebbe raggiungere cifre esorbitanti. Il che potrebbe addirittura essere configurato come lesione del diritto di difesa. In proposito il T.A.R. del Lazio, con sentenza (rif. 04871/2014) in data 12/03/2014, confermata dal Consiglio di Stato (rif. 04408/2015) il 07/07/2015, accogliendo il ricorso proposto dal Codacons Associazione Utenti Giustizia, e dai Sigg. ...omissis ... , i quali invocavano l’annullamento degli atti applicativi del diritto di copia previsto per il rilascio su supporto informatico, nel processo del naufragio della Costa Concordia laddove per acquisire il materiale probatorio alla difesa è stata chiesta la corresponsione di € 295,16 per ognuno degli 82 supporti informatici presenti in Cancelleria, per un totale di € 24.203,12, ha stabilito che “gli Uffici Giudiziari possano chiedere, ai fini della copia della documentazione in atti utile alla difesa mediante l’utilizzo di tutti gli strumenti informatici e telematici diversi da floppy e CD (secondo la scelta del supporto su cui riversare i dati da parte del richiedente e non secondo la scelta dell’Amministrazione circa le loro modalità di archiviazione), esclusivamente e per una sola volta l’importo forfettario di € 295,16.” (oggi € 320,48) sul presupposto che” ...i costi del servizio di copia e certificazione dei dati utili alla difesa in giudizio non possono essere riferiti alla insindacabile scelta dell’Amministrazione giudiziaria circa il tipo ed il numero di supporti da utilizzare.” Infine, anche il Ministero della Giustizia, in uno schema del Regolamento previsto dall’articolo 40 del Testo Unico in materia di spese di giustizia 115/2002, pubblicato sul Sito Giustizia, pare orientato a operare “una nuova determinazione degli importi dei diritti di copia e di certificato anche

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con riferimento a nuovi mezzi tecnologici, e sulla base dei costi del servizio e dei costi per l’incasso” e prevedendo “un limite massimo del costo dei diritti di copia, al fine di non gravare eccessivamente sugli utenti nel caso di richieste aventi per oggetto un numero molto elevato di documenti”. In realtà, con nota del 20 ottobre 2015, solo recentemente pervenuta all’Ufficio, il Dipartimento degli Affari Civili del Ministero della Giustizia ha disposto che “in attesa dell’emanazione del regolamento di cui all’art. 40 D.P.R. n. 115 del 2005”.... “gli uffici giudiziari dovranno uniformarsi a quanto stabilito dal Consiglio di Stato nella citata sentenza”. Pertanto, si dispone quanto segue:

»»l’Ufficio SIDIP e/o le Segreterie dei Pubblici Ministeri (l’uno e le altre in relazione al deposito dei “fascicoli dematerializzati”, cioè informatici), nonché l’Ufficio Intercettazioni (per il solo materiale di competenza), richiederanno, ai fini del rilascio della copia di tale documentazione su supporti informatici (anche diversi da floppy e CD), esclusivamente e per una sola volta l’importo forfettario di euro € 320,48. In base alla succitata


113 c) rilascio su richiesta dei difensori delle parti private di copie di trascrizioni operate dalla PG nei c.d. “brogliacci” e rilascio di duplicazione dei suddetti supporti; d) istanze di stralcio ed invio al proprio ufficio di conversazioni o comunicazioni inutilizzabili o irrilevanti con dati sensibili, da inoltrarsi al Giudice competente, prima o contestualmente all’invio dell’avviso ex art. 415 bis cpp, nonché in caso di richiesta di giudizio immediato; a quanto previsto: nel paragrafo 2), in relazione alla fase processuale connessa alla richiesta di misure cautelari personali (e delle eventuali connesse fasi di richiesta di riesame ex art. 309 cpp e di appello ex art. 310 cpp);

»»

nota l’importo si applicherà per ogni singola richiesta presentata dalla medesima parte: di conseguenza, se quest’ultima, dopo aver chiesto ed ottenuto le copie informatiche in questione, decidesse di presentare una ulteriore richiesta per ottenere copia di altri documenti informatici, dovrà corrispondere nuovamente il dirit to di copia;

»»restano ferme le disposizioni in materia di rilascio di copie quantificabili in pagine anche se presenti in supporti informatici.

P.Q.M. Con decorrenza immediata, i magistrati dell’ufficio, dando - ove necessario - indicazioni alle rispettive segreterie, si atterranno, per quanto riguarda: a) deposito di decreti autorizzativi di intercettazioni di comunicazioni telefoniche e tra presenti, nonché di comunicazioni informatiche e telematiche e relativi verbali; b) deposito di trascrizioni su brogliacci redatti dalla polizia giudiziaria e supporti audio, magnetici ed informatici;

»»nel

paragrafo 3), in relazione alla fase di eventuali richieste ai sensi dell’art. 268 co. 6, 7 e 8 cpp (antecedenti alla conclusione di indagini preliminari) di trascrizione in forma peritale di conversazioni e comunicazioni registrate;

»»nei paragrafi 4) e 5), allorché, concluse le

indagini preliminari e contestualmente all’avviso di cui all’art. 415 bis cpp, si manifesti la necessità di mantenere la riservatezza su conversazioni o comunicazioni inutilizzabili o irrilevanti e contenenti dati sensibili, attivando a tal fine la procedura di stralcio pure prevista dall’art. 268 co. 6 e 7 cpp. La procedura relativa sarà attivata utilizzando il fac-simile di richiesta di stralcio di atti e di registrazioni qui allegato;

»»nel paragrafo 5.a), in relazione ai tempi e

modalità di attivazione della procedura prevista dall’art. 268 co. 4, 5, 6 e 7 cpp in caso di richiesta di giudizio immediato.

L’Ufficio SIDIP e/o le Segreterie dei Pubblici Ministeri, nonché l’Ufficio Intercettazioni, si atterrano, quanto a modalità del rilascio su supporto magnetico di

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copie di comunicazioni telefoniche, ambientali, informatiche o telematiche, nonché alla riscossione dei relativi diritti, anche a quanto previsto nel par. 6 del presente provvedimento. Si comunichi il presente provvedimento a tutti i magistrati dell’Ufficio, alla Dirigente del personale amministrativo, all’Ufficio SIDIP, al Responsabile dell’Ufficio Intercettazioni, ai Responsabili delle Segreterie di PM e Centralizzate, nonché - per la diffusione presso Uffici e comandi di P.G territorialmente dipendenti ed in relazione a quanto previsto sub par. 5, pag. 11 - al Sig. Questore, al Sig. Comandante Provinciale dell’ Anna dei Carabinieri, al sig. Comandante Provinciale della Guardia di Finanza, al Capo del Centro Operativo DIA Torino e ai Sig.ri Responsabili delle Aliquote della Sezione di Polizia Giudiziaria di questo Ufficio. Si comunichi al Sig. Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino per le sue determinazioni in ordine alla diffusione del documento tra i professionisti iscritti.

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Si comunichi, per conoscenza, al Presidente del Tribunale e al Presidente f.f. della Sezione GI.P. del Tribunale, nonché al Presidente della Corte d’Appello ed al Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello. Si comunichi, infine, per ogni possibile eventuale valutazione, al Sig. Presidente dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali. IL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA (Armando Spataro) per quanto riguarda il par. 6: IL DIRIGENTE (Anna CEFALIELLO)


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Facsimile di avviso ex art. 268 cpp da notificarsi contestualmente all’avviso ex art. 415 bis cpp N. R.GN.R. mod. 21

Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Torino ________________________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________ AVVISO AL DIFENSORE DI DEPOSITO DI INTERCETTAZIONI DI COMUNICAZIONI TELEFONICHE O TRA PRESENTI E/O DI COMUNICAZIONI INFORMATICHE O TELEMATICHE ART. 268, Co. 6 CPP ________________________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________

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116 Il Pubblico Ministero visti gli atti del procedimento penale indicato in epigrafe nei confronti di: 1) ....( generalità dell’indagato o degli indagati) difeso (o difesi) di fiducia/di ufficio <lall’avv.... (indicazioni relative al difensore di fiducia o di ufficio di ogni indagato) AVVISA il predetto difensore che nella segreteria del PM dr. …… /presso l’Ufficio SIDIP della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Torino, C.so Vittorio Emanuele II n. 130, piano ____, stanza ____, si trovano depositati per giorni 5 dalla data di notifica del presente avviso: - decreti autorizzativi e/o di convalida e proroga di intercettazioni di comunicazioni telefoniche o tra presenti e/o di comunicazioni informatiche o telematiche; - verbali delle operazioni compiute, sintesi operata dalla PG delle conversazioni o comunicazioni intercettate nel procedimento; AVVISA Inoltre, il predetto difensore: - che ha facoltà di esaminare tali atti e di ascoltare le• registrazioni ovvero di prendere cognizioni dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche; - che relativamente alle seguenti comunicazioni telefoniche o tra presenti e/o di comunicazioni informatiche o telematiche che risultano : a) inutilizzabili; b) irrilevanti e contemporaneamente contenenti dati sensibili ai sensi dell’ art. 4 lett. d) D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. “Codice della Privacy”): .... (Segue indicazione solo degli estremi del provvedimento autorizzativo, della data, ora e utenza intercettata o degli estremi identificativi di comunicazioni informatiche o telematiche oggetto del deposito) ... il sottoscritto intende formulare al giudice competente richiesta di stralcio ed invio alla propria segreteria dei citati atti, registrazioni e flussi o richiesta di distruzione e che, di conseguenza, il difensore non ha allo stato facoltà di chiederne copia; - che il difensore potrà, invece, richiedere copia, in cartaceo e/o su supporto audio di ogni altro atto, di registrazione e di flussi di comunicazioni informatiche o telematiche non elencati nel presente avviso. Si notifichi al predetto difensore nella seguenti modalità (si veda casella barrata): - - - -

posta certificata: via fax (con assicurazione della avvenuta ricezione); a mezzo di Ufficiali Giudiziari territorialmente competenti; a mezzo di personale di Polizia Giudiziaria.

Torino,

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IL SOST. PROCURATORE DELLA REPUBBLICA


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Intercettazioni, repressione dei reati e garanzie: una convivenza difficile Matilde Brancaccio Magistrato addetto al Massimario della Cassazione

Sono lo strumento verso il quale si indirizzano maggiormente critiche e dubbi di costituzionalità

Le questioni sul tappeto Tra i mezzi di ricerca della prova, le intercettazioni rappresentano senza dubbio lo strumento nei confronti del quale maggiormente si indirizzano critiche e dubbi di costituzionalità, per la loro innata “vocazione” a violare la sfera privata degli individui e la frizione continua cui sottopongono diritti e garanzie individuali in nome della tutela di beni dotati pure di rilevanza costituzionale e coperti da protezione penale. Ma vi è di più. Molto spesso, prassi scorrette di diffusione mediatica del loro contenuto o vere e proprie violazioni delle norme di segretezza degli atti procedimentali mettono in discussione modalità, tempi e ipotesi della loro autorizzazione,

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119 scatenando accesi dibattiti politici, che sfociano, oramai periodicamente, in proposte o progetti di riforma parlamentare dell’attuale regolamentazione, sulle cui difficoltà di obiettiva realizzazione − constatata la necessità dello strumento investigativo per la repressione dei reati e l’attuazione degli scopi di prevenzione generale e speciale dell’ordinamento penale − si infrangono le perplessità di coloro i quali vorrebbero maggiori limiti al loro ricorso da parte di magistratura e organi di polizia. Eppure, nessuno può mettere in dubbio l’importanza delle intercettazioni nella lotta anzitutto alla criminalità organizzata e, in generale, nella repressione dei reati negli ultimi decenni di storia italiana. Esse sono state e rimangono tuttora, probabilmente, il più formidabile degli strumenti di ricerca della prova e di individuazione degli autori di delitti a disposizione degli organi inquirenti. La rapidità di attuazione e le caratteristiche di affidabilità probatoria dei risultati di accertamento da esse derivanti, grazie anche ai sempre più innovativi strumenti tecnici disponibili, rendono le intercettazioni, oramai da tempo, uno dei principali pilastri su cui si fondano numerose inchieste, soprattutto per reati di mafia. Il tutto, in un contesto sociale in cui, da un lato, le infiltrazioni delle associazioni criminali nella pubblica amministrazione e nel mondo economico rendono necessario uno strumento che sveli “patti” delinquenziali altrimenti di difficilissima emersione, dall’altro il deficit di consapevolezza collettiva riguardo alla necessità della denuncia dei reati e le elevate difficoltà a raccogliere prove dichiarative provenienti da persone offese o testimoni rendono il ricorso alle intercettazioni, sovente, il mezzo migliore e più utile a raggiungere soddisfacenti livelli di contrasto al crimine. Ciò accade nonostante il sempre maggiore e più efficace ricorso a indagini di diversa natura – informatiche, economiche, bancarie – che, pure, rappresentano una valida modalità per arrivare a individuare autori di reati e stabilire i contorni delle responsabilità penali in determinati contesti criminali.

Le ragioni di tale “efficacia” probatoria dello strumento captativo si ritrovano, peraltro, anche, senza dubbio, nel riconoscimento, pacifico oramai, da parte della giurisprudenza di legittimità, della piena valenza di prova autonoma delle conversazioni oggetto delle intercettazioni. E difatti, il contenuto di un’intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di una persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiari di aver partecipato, non è equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se anch’esso deve essere attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto, in tale valutazione, ai canoni di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p. (cfr. tra le molte pronunce in tal senso, Cass., sez. 5, n. 21878 del 26/3/2010, CED Cass. n. 247447; Cass., sez. 2, n. 47028 del 3/10/2013, CED Cass. n. 257519; Cass., sez. 2, n. 4976 del 12/1/2012, CED Cass. n. 251812; Cass. sez. 6, n. 25806 del 20/2/2014, CED Cass. n. 259673, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità proposta proprio in relazione alla mancata equiparazione tra conversante e chiamante in correità quanto alla necessità di altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità); resta esclusa, secondo un’opzione interpretativa, da tale valenza di prova piena solo l’ipotesi in cui il conversante-chiamante in correità sia consapevole di essere sottoposto a intercettazione, poiché, in tal caso, è necessario il ricorso ai criteri di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 192 c.p.p. per la loro utilizzabilità (Cass., sez. 6, n. 45065 del 2/7/2014, CED Cass. n. 260838). Così, anche, le dichiarazioni captate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata, con le quali un soggetto si autoaccusa della commissione di reati, hanno integrale valenza probatoria, non trovando applicazione al riguardo gli artt. 62 e 63 c.p.p. (tra le molte, Cass., sez. 6, n. 16165 del 19/2/2013, CED Cass. n. 256008; Cass. sez. 4, n. 34807 del 2/7/2010, CED Cass. n. 248089). Le affermazioni giurisprudenziali richiamate hanno recentemente ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, nella sentenza

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121 n. 22471 del 26/2/2015, CED Cass. n. 263714, hanno ribadito come le dichiarazioni auto ed etero accusatorie registrate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata hanno piena valenza probatoria e, pur dovendo essere attentamente interpretate e valutate, non necessitano degli elementi di corroborazione previsti dall’art. 192, comma terzo, c.p.p. In questo contesto, appare evidente l’importanza riservata dall’interprete, così come da imputati e difensori, alle questioni relative alla legittima autorizzabilità delle intercettazioni e, quindi, alla loro utilizzabilità. Altrettanto chiaro risulta l’interesse della magistratura a evitare che un così efficace strumento di acquisizione della prova di reati e di individuazione dei loro autori, capace di portare elementi di certezza nel processo, possa risentire negativamente di prassi distorte, spesso verificatesi più che nel momento della sua realizzazione, piuttosto nella fase in cui, acquisiti i risultati dichiarativi, questi vengono diffusi, a volta anche attraverso i media, in modo irrituale e inopportuno. Con ciò non si vuole certo negare l’importanza che la cronaca giudiziaria riveste in un ordinamento democratico, quale stimolo al controllo dei cittadini sulle vicende di interesse collettivo e pubblico, contribuendo alla libertà di pensiero “diffusa”, attraverso un’informazione completa di fatti di rilievo sociale, politico o economico. Piuttosto, si vuole richiamare l’attenzione su alcuni dei punti critici principali del difficile rapporto di coesistenza tra l’interesse a disporre e servirsi delle intercettazioni per la tutela di beni di rilievo costituzionale, lesi o messi in pericolo dal reato, e, da un lato, l’interesse individuale al rispetto della privacy di chi è coinvolto, magari casualmente, nell’intercettazione, dall’altro, l’interesse sociale a una corretta e completa informazione su vicende, emergenti dal contenuto delle conversazioni intercettate, di rilevanza pubblica. Sul difficile crinale del contemperamento e del bilanciamento di tali, spesso contrapposti, interessi, si gioca la partita della tenuta dell’attuale sistema di regolamentazione procedimentale

delle intercettazioni e, d’altra parte, quella delle prospettive di riforma frequentemente prospettate e altrettanto spesso accantonate.

Il problema della divulgazione del contenuto delle intercettazioni Le istanze di riforma della disciplina delle intercettazioni di comunicazioni attengono senza dubbio soprattutto, negli ultimi anni, al momento (eventuale) di diffusione del loro contenuto da parte dei media, momento successivo al procedimento di autorizzazione vero e proprio e all’acquisizione del dato probatorio. Spesso, la diffusione interviene nella fase procedimentale delle indagini preliminari, dopo l’emissione di un provvedimento conoscibile dalle parti, ed in molti casi proprio in ragione di essa: tale circostanza determina ancor più perplessità per il rispetto dei diritti individuali dei soggetti coinvolti, in considerazione dell’instabilità fisiologica del dato di accertamento, tutto ancora da verificare nella fase processuale vera e propria. La divulgazione del contenuto delle intercettazioni rappresenta senza dubbio il punto di crisi del sistema: alle indagini non è necessaria la divulgazione delle notizie in esse contenute,

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122 anzi, a volte, per la loro prosecuzione, essa può essere deleteria; per il soggetto coinvolto nelle conversazioni diffuse, senz’altro la loro divulgazione rappresenta un evento lesivo della sfera individuale privata; ma con riguardo all’interesse dell’opinione pubblica, la conoscibilità di dati e vicende personali può avere un interesse di ordine generale, per situazioni e soggetti coinvolti, nella consapevolezza che la cronaca giudiziaria riveste un ruolo fondamentale per la funzione di controllo democratico da parte dei cittadini di quanto accade nella res publica. Pertanto, desta perplessità la prospettiva di alcuni progetti di riforma, susseguitisi negli anni sull’onda di spinte derivanti dal clamore mediatico suscitato dalla diffusione dei contenuti di intercettazioni del procedimento penale, riferita alla previsione di un totale o parziale “silenzio” giornalistico, imposto per legge, sugli esiti delle intercettazioni fino alla chiusura delle indagini stesse o addirittura, sotto certi aspetti, tout court. Una simile soluzione potrebbe risultare in conflitto con i diritti e le libertà garantiti in uno Stato democratico e, al tempo stesso, non essere risolutiva nel senso di evitare che siano violati divieti di pubblicazione già in parte esistenti (G. Giostra, Limiti alla conoscibilità dei risultati delle intercettazioni: segreto investigativo, garanzie individuali, diritto di cronaca, in Le intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni. Un problema cruciale per la civiltà e l’efficienza del processo e per le garanzie dei diritti, p. 405). Nel Disegno di legge C.2798, presentato il 23 dicembre 2014 alla Camera dei Deputati – Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena –, approvato dalla Camera dei deputati il 23 settembre 2015 e trasmesso al Senato, ove ha assunto il n. S2067, sono previsti (art. 30), in materia di intercettazione di comunicazioni o conversazioni, criteri di delega del seguente tenore: «a) prevedere disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle

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conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione, in conformità dell’articolo 15 della Costituzione, attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni e che diano una precisa scansione procedimentale all’udienza di selezione del materiale intercettativo, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, in particolare dei difensori nei colloqui con l’assistito, e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale; b) prevedere che costituisca delitto, punibile con la reclusione non superiore a quattro anni, la diffusione, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente. La punibilità è esclusa quando le registrazioni o le riprese sono utilizzate nell’ambito di un procedimento amministrativo o

La cronaca giudiziaria riveste un ruolo fondamentale per la funzione di controllo democratico da parte dei cittadini


123 giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca; c) prevedere la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione». Il disegno di legge, come si vede, in particolare, all’art. 30, prevede il conferimento di una delega al Governo per l’adozione di un decreto legislativo recante disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni in conformità all’art. 15 Cost. Le nuove disposizioni non attengono a modifiche del procedimento autorizzativo e incidono soltanto sulle modalità di utilizzazione in fase cautelare dei risultati delle intercettazioni, stabilendo una scansione procedimentale per la selezione in contraddittorio in udienza del materiale registrato, segnalando un particolare riguardo alla tutela della riservatezza delle persone occasionalme nte coinvolte, in particolare dei difensori nel delicato momento dei colloqui con il proprio assistito-indagato. Il legislatore sembra partire dalla constatazione che i problemi connessi alla divulgazione dei risultati delle intercettazioni non possano essere risolti attraverso il ricorso a un’interpretazione della disciplina esistente secondo un più equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto, occorrendo nuove forme normative di contemperamento del diritto collettivo

all’informazione con la sfera di riservatezza (e la presunzione di innocenza) degli indagati e dei terzi eventualmente coinvolti nelle intercettazioni. Da tempo, peraltro, si assiste al monito anche dei giudici costituzionali, diretto allo stesso legislatore, affinché individui “diversi e migliori equilibri” tra i valori costituzionali coinvolti nel “sistema” intercettazioni, constatando “un dilagante e preoccupante fenomeno di violazione della riservatezza, che deriva dalla incontrollata diffusione mediatica di dati e informazioni personali, … provenienti da attività di raccolta e intercettazione legalmente autorizzate…” (Corte cost. n. 173 del 2009). Il disegno di legge n. S2067, invece, non prevede modificazioni delle disposizioni sull’ammissibilità e sull’utilizzabilità delle intercettazioni, ad eccezione di una novità, prospettata in termini, per la verità, poco dettagliati, riferita a migliorare il regime di “impiego” dei risultati delle intercettazioni nei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione; tale constatazione costituisce riprova del fatto che, secondo quella che è l’opinione diffusa anche in dottrina, la disciplina vigente rappresenta, tutto sommato, un’equilibrata regolamentazione di un sistema normativo così delicato per i differenti e contrapposti interessi in gioco (mentre risulta essere un evidente segnale della elevata percezione del rischio di intrusione nella sfera privata dei mezzi di ascolto o di videoripresa di moderna diffusione la prospettata previsione di un nuovo delitto di intercettazione “fraudolenta”, realizzata al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui).

La previsione di un ‘silenzio’ giornalistico sarebbe in conflitto con i diritti e le libertà garantiti in uno Stato democratico

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124 In verità, è stato pure sostenuto (così E.M. Catalano, Prassi devianti e prassi virtuose in materia di intercettazione, in Processo penale e Giustizia, n. 1 del 2016) che la questione della divulgazione indiscriminata dei risultati delle operazioni di captazione nel procedimento penale attraverso i media coinvolge una prospettiva di mutamento culturale non più eludibile, in cui dovrebbero svolgere un ruolo nuovo magistratura e giornalismo. La prima, tentando di migliorare la tecnica di motivazione dei provvedimenti basati sulle intercettazioni telefoniche quali fondamentali elementi indiziari e probatori, tenendo fuori da essi informazioni e dati personali irrilevanti, poiché spesso il problema divulgativo si pone in relazione ad atti procedimentali suscettibili di pubblicazione in quanto non più coperti da segreto; il secondo, modificando la propria tecnica di diffusione della notizia in senso più coerente a quanto previsto dagli artt. 2, 136 e 137 del Codice sulla privacy (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e successive modifiche), che impongono al giornalista di rispettare i principi dell’essenzialità dell’informazione, dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato. Proprio con riferimento al modo di “fare informazione”, lo stesso Garante per la protezione dei dati personali, in uno dei molti interventi dell’Autorità sul tema – il provvedimento “Pubblicazione di intercettazioni telefoniche e dignità della persona” del 21 giugno 2006 – rileva come «l’indiscriminata pubblicazione di trascrizioni di intercettazioni di numerose conversazioni telefoniche, specie quando finisca per suscitare la curiosità del pubblico su aspetti intimi e privati senza rispondere integralmente a un’esigenza di giustificata informazione su vicende di interesse pubblico, possa configurare anche una violazione delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo». Del resto, è stata acutamente messa in risalto in dottrina la «stretta interdipendenza tra la professionalità del cronista» e la conservazione di

un rapporto equilibrato tra media e giustizia (così G. Giostra, Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007, p.57).

Il ruolo della giurisprudenza per l’equilibrio del sistema In tale contesto e con l’attuale stato normativo, l’interpretazione giurisprudenziale, in particolare quella della Corte di Cassazione, gioca una funzione fondamentale di bilanciamento tra i diritti individuali, la sfera di riservatezza personale e le esigenze investigative, essendole sostanzialmente rimessa l’individuazione dei livelli di equilibrio tra i diversi interessi in gioco. La giurisprudenza di legittimità, spesso in questa materia intervenendo attraverso le pronunce del massimo collegio di nomofilachia – le Sezioni Unite –, da anni svolge tale delicato compito, contribuendo a delineare principi e indirizzi al passo con i tempi

La Cassazione gioca una funzione fondamentale di bilanciamento tra i diversi interessi

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125 e le evoluzioni della società e della tecnologia, che tanto influenzano le questioni in questo ambito. Attraverso i suoi arresti possiamo dire che è stato costruito un sistema coerente in cui, pur in presenza di spazi ancora aperti nella definizione di aspetti di regolamentazione per ipotesi peculiari, l’interprete può muoversi consapevole dei contorni autorizzativi e attuativi dell’istituto, oltre che dei caratteri e dei limiti all’utilizzabilità dei risultati. Ovviamente sarebbe illusorio pensare di offrire in poche battute un quadro esaustivo, seppur di estrema sintesi, del lavoro svolto negli anni dalla giurisprudenza nelle molteplici questioni sorte dall’applicazione pratica della disciplina delle intercettazioni. Deve, quindi, necessariamente optarsi per mettere in luce il ruolo “sistematico” e di ricomposizione ordinata della legislazione vigente, per sua natura inidonea a coprire nel dettaglio una regolamentazione che si presenta fisiologicamente complessa per le implicazioni tecniche ad essa

connesse e le ricadute processuali alle quali già si è, peraltro, fatto riferimento. Deve, pertanto, in tale ottica, sottolinearsi come si debba alla giurisprudenza di legittimità (ma anche, molto, a quella costituzionale di cui la Cassazione costituisce l’interlocutore naturale) l’elaborazione stessa di una nozione condivisa di “intercettazione”, in mancanza di una definizione esplicita a livello normativo. Essa viene individuata in quell’atto del procedimento, effettuato mediante strumenti tecnici di percezione, che tende a captare il contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone, da parte di chi nasconda la sua presenza e sia estraneo alla conversazione stessa (Cass. Sez. U, n. 36747 del 2003, Torcasio, CED Cass., n. 225465, coerentemente a Corte cost. n. 81 del 1993 ed alla giurisprudenza costituzionale successiva); si è esclusa dal genus intercettazione, invece, la registrazione effettuata da uno degli interlocutori della conversazione all’insaputa anche di uno solo di essi, che, in quanto atto formato al di fuori del procedimento e proveniente da soggetto partecipe della conversazione stessa o autorizzato ad assistervi, rientra nella categoria delle prove documentali ex art. 234 c.p.p. (cfr. ancora Sez. U Torcasio e, inoltre, Sez. U, n. 26795/2006, Prisco CED Cass., n. 234267, con riferimento alle videoriprese effettuate non dalla polizia giudiziaria, queste ultime essendo invece “prove atipiche”). Si registra tuttora un contrasto nella giurisprudenza di legittimità circa il regime delle registrazioni effettuate d’intesa con la polizia giudiziaria e, ovviamente, la conseguente utilizzabilità dei risultati di esse; in tal caso, pur concordandosi sul fatto che non si tratta di intercettazioni in senso tecnico, tuttavia la giurisprudenza è divisa circa la necessità che per tale registrazione occorra un’autorizzazione dell’autorità giudiziaria (anche solo con decreto del pubblico Ministero) ovvero tale autorizzazione non sia necessaria (cfr. per la tesi che nega la necessità di autorizzazione Cass., sez. 6, n. 16986 del 2472/2009, CED Cass., n. 243256; Cass. sez., 2, n. 42486 del 5/11/2002, CED Cass., n. 233351; per la tesi che ne ritiene l’obbligo,

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126 Cass. sez. 2, n. 19158 del 20/3/2015, CED Cass., n. 263526; Cass. sez. 2, n. 7035 del 29/1/2014, CED Cass., n. 258551). Egualmente, non rientra tra le attività di intercettazione l’attività di indagine volta a seguire i movimenti di un soggetto e a localizzarlo, controllando a distanza la sua presenza in un dato luogo in un determinato momento attraverso il sistema di rilevamento satellitare (cosiddetto GPS), che, invece, costituisce una forma di pedinamento eseguita con strumenti tecnologici, non assimilabile in alcun modo all’attività di intercettazione prevista dagli artt. 266 e ss.; essa non necessita, quindi, di alcuna autorizzazione preventiva da parte del giudice per le indagini preliminari poiché, costituendo mezzo atipico di ricerca della prova, rientra nella competenza della polizia giudiziaria (così Cass., sez. 2, n. 21644/2013 e conformi in precedenza, tra le molte, Cass. sez. 6, n. 15396/2008; Cass., sez. 4, n. 3017/2008; Cass. sez. 4, n. 8871/2007); anche l’acquisizione di tabulati del traffico telefonico è stata costantemente ritenuta attività di ricerca della prova atipica, non assimilabile alla categoria delle intercettazioni: sul punto sono intervenute le Sezioni Unite nella sentenza n. 6 del 23/2/2000, D’Amuri, CED Cass., n. 215841, che hanno chiarito come, per la loro autorizzazione, sia sufficiente il decreto motivato dell’autorità giudiziaria, non essendo necessaria, per il diverso livello di intrusione nella sfera di riservatezza che ne deriva, l’osservanza delle disposizioni relative all’intercettazione di conversazioni o comunicazioni di cui agli articoli 266 e ss. (Cass. Sez. U, n. 16 del 21/6/2000, Tammaro, CED Cass., n. 216247 hanno confermato tale arresto). Recentemente, poi, è emerso un ulteriore problema riferito all’autorizzabilità come intercettazione, intesa in senso classico,

delle intercettazioni telematiche, tramite agente intrusore (virus informatico), di tutto il traffico dati degli apparecchi cellulari in uso ai soggetti sottoposti a intercettazione, nonché di tutte le conversazioni tra presenti, mediante attivazione attraverso il virus informatico, del microfono e della videocamera dei relativi smartphone. La giurisprudenza di legittimità sta cominciando a interrogarsi sulle questioni riferibili a tale innovazione tecnologica: Cass., sez. 6, n. 27100 del 2015, si è trovata a doversi pronunciare in merito alla lamentata violazione, da parte delle intercettazioni effettuate con tale modalità tecnica, dell’art. 8 CEDU, ritenuta l’invasione della sfera privata degli utilizzatori degli apparecchi cellulari intercettati oltre le operazioni consentite dalle disposizioni in materia di intercettazioni, nonché la possibile indiscriminata apprensione “in ambientale” anche delle conversazioni che si svolgono nel domicilio privato, senza possibilità di verifica preventiva della sussistenza delle condizioni di legge per disporle. La Cassazione ha ritenuto illegittima tale modalità per differenti aspetti e ha scisso il problema sotto due profili tecnici: l’attivazione, da remoto, mediante virus informatico, del microfono e quella della telecamera. Quanto alla prima, partendo dall’osservazione che l’attivazione del microfono dà luogo a un’intercettazione ambientale, si afferma che la norma di cui all’art. 15 Cost. impedisce di attribuire all’art. 266, comma 2, c.p.p. una latitudine operativa così ampia da ricomprendere intercettazioni ambientali effettuate “in qualunque luogo”, dovendo essa avvenire in luoghi ben circoscritti e individuati ab origine. Con riferimento alla seconda questione, relativa all’attivazione da remoto e tramite virus informatico, della telecamera del telefono cellulare e

Si deve alla giurisprudenza di legittimità la nozione condivisa di “intercettazione”

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quindi all’effettuazione di videoriprese, si cita Cass., sez. U, n. 26795/2006, Prisco, che ha stabilito che le videoregistrazioni in luoghi pubblici o aperti o esposti al pubblico, non effettuate nell’ambito del procedimento penale, vanno incluse nella categoria dei documenti, ex art. 234 c.p.p.; mentre le predette registrazioni, se vengono effettuate dalla polizia giudiziaria, anche d’iniziativa, vanno incluse nella categoria delle prove atipiche, soggette alla disciplina dettata dall’art. 189 c.p.p., sicché non si possono realizzare ovunque, e sicuramente non in ambito dei luoghi di privata dimora, ai fini

del procedimento penale, pena la loro illiceità e inutilizzabilità. Deve, tuttavia, rappresentarsi come a tale impostazione si sia ribattuto che l’attivazione tramite virus informatico (comunemente si tratta di c.d. “Trojan”) del microfono del telefono cellulare consente l’ambientale solo in presenza di specifico input “da remoto” e, dunque, non in modo continuativo e costante, ma solo quando la polizia giudiziaria, necessariamente impegnata parallelamente all’intercettazione in servizi “dinamici” di osservazione, ritenga utile procedere a tale attivazione: con ciò attenuandosi alquanto i dubbi di legittimità

Quello dei luoghi di privata dimora è stato uno dei problemi più dibattuti nella giurisprudenza

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proposti dalla Corte di Cassazione e riferiti all’assenza di parametri di riferimento autorizzatori. Quello dei luoghi di privata dimora è stato anche uno dei problemi più dibattuti nella giurisprudenza con riferimento alle intercettazioni ambientali effettuate con gli strumenti tradizionalmente utilizzati a tale scopo (microspie ed altro). Dispone, infatti, l’art. 266 comma 2, c.p.p. che valgono i medesimi limiti di ammissibilità per intercettazioni ambientali e

telefoniche, salvo che le prime avvengano nei luoghi indicati nell’art. 614 c.p., nel qual caso vi è necessità di un ulteriore requisito di ammissibilità: “il fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”. Pertanto, non vi può essere intercettazione tra presenti nel domicilio privato per accertare reati già commessi in passato. Appare di immediata evidenza la maggiore problematicità delle ipotesi di intercettazione ambientale nei

Non vi può essere intercettazione tra presenti nel domicilio privato per accertare reati già commessi in passato

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luoghi di cui all’art. 614 c.p. per lo stretto collegamento che lega libertà di domicilio e libertà personale. Sul punto la citata pronuncia delle Sezioni Unite Prisco del 2006 ha chiarito ambiti e confini di applicabilità del concetto di privata dimora e domicilio, seguita dalla giurisprudenza successiva. Oggi il quadro che si presenta è idoneo a configurare una serie di criteri sufficientemente definiti per orientarsi nel decidere se in un determinato luogo possano individuarsi o meno un domicilio o una dimora privati. La casistica, ovviamente, si presenta poco incline alla delimitazione definitiva, tuttavia alcune ipotesi maggiormente frequenti risultano oramai oggetto di orientamenti precisi, per quanto non tutti unanimi. Mentre sui bagni pubblici e sui privè dei locali intervennero,


129 escludendoli dal novero dei luoghi di cui all’art. 614 c.p., le stesse Sezioni Unite Prisco (tuttavia nella giurisprudenza successiva, le differenti ipotesi concrete sono state spesso declinate con accenti specifici in relazione alla fattispecie trattata), tra i contrasti maggiormente sintomatici dei diversi orientamenti presenti nella giurisprudenza di legittimità sulla possibilità di individuare in luoghi fisici il concetto di “privata dimora”, deve segnalarsi quello sulla possibilità di riconoscere un domicilio anche nell’abitacolo di un’autovettura, contrasto che, recentemente, sembra avviato nel senso di negare tale qualità (cfr. da ultimo ex multis Cass. sez. 5, n. 45512 del 22/4/ 2014, CED Cass. n. 260760). Si sono, invece, costantemente esclusi la cella e gli ambienti penitenziari (cfr. ex multis Cass, sez. 1, n. 32851/2008; Cass. sez. 6, n. 36273/2004; Cass. sez. 6, n. 3541/1999; Cass., sez. 2, n. 2103/1996) dalla nozione di privata dimora, non essendo tali luoghi nel “possesso” dei detenuti, ai quali non compete alcuno “ius excludendi alios”; tali ambienti, infatti, si trovano nella piena e completa disponibilità dell’amministrazione penitenziaria, che ne può farne uso in ogni momento per qualsiasi esigenza d’istituto. Tralasciando i più recenti eventi storico-politici, nei quali le intercettazioni hanno mostrato tutto il loro ruolo di disciplina a rischio di elevata conflittualità tra diritti contrapposti, addirittura andando a toccare i rapporti tra poteri dello Stato (il riferimento è alla nota vicenda della c.d. “trattativa Statomafia”), deve operarsi una riflessione conclusiva: la previsione di un mezzo di ricerca della prova così invasivo come l’intercettazione, capace di minare profondamente il diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni garantito a livello costituzionale dall’art. 15 Cost., trova la sua legittimazione normativa solo nella considerazione che, mediante le intercettazioni, vengono tutelati beni giuridici altrettanto rilevanti, quali quelli posti a fondamento del sistema ordinamentale di prevenzione e repressione dei reati. Tale strumento, peraltro, si giustifica ed è consentito dall’ordinamento solo in presenza del

rispetto dei limiti e criteri autorizzativi previsti dalla legge e dell’intervento motivato di un giudice che le disponga. La magistratura, pertanto, è chiamata ad essere garante e artefice della inevitabile, sebbene non certo facile, convivenza tra gli interessi contrapposti coinvolti dalla disciplina delle intercettazioni. Per assicurare l’effettività del controllo e prevenire abusi sono poi richieste ulteriori garanzie di natura tecnica, relative agli impianti di captazione e alla stessa materiale realizzazione delle operazioni; infine, è necessario garantire il controllo sulla legittimità del provvedimento autorizzativo e stabilire i limiti dell’utilizzabilità nel processo del materiale raccolto attraverso le intercettazioni. Individuati dalla stessa Corte Costituzionale come destinatari di tale compito (assicurare il rispetto delle regole normative previste per garantire la legittimità delle intercettazione e attuare, in tal modo, il corretto bilanciamento tra valori in gioco: cfr. le sentenze nn. 34 del 1973, 135 del 2002, 149 del 2008 e 320 del 2009), i giudici e i pubblici ministeri hanno mostrato di avere consapevolezza della complessità del percorso, attenzione alle novità tecnologiche con le quali doversi confrontare e capacità di gestirle; la Corte di Cassazione e i giudici costituzionali hanno approfondito i rapporti tra i valori fondamentali che si fronteggiano nell’attuazione pratica della disciplina normativa. L’auspicio è di trovare un punto di equilibrio “permanente”, idoneo a soddisfare nel tempo, allo stesso modo, le esigenze di difesa della collettività dai reati, di informazione dell’opinione pubblica e, non ultime, quelle di garanzia dei diritti individuali.

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LA PRESCRIZIONE DEL REATO: PRINCIPI EUROPEI E ANOMALIE ITALIANE Antonio Balsamo Balsamo Antonio

Sostituto Procuratore Procuratore Generale Generale presso presso la la Corte Corte di di Cassazione Cassazione Sostituto

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131 È assai diffusa l’insoddisfazione, non solo nel mondo giudiziario ma in tutta la realtà sociale e istituzionale, per l’attuale disciplina della prescrizione del reato, considerata spesso come un fattore che impedisce un’efficace tutela di interessi primari dello Stato e diritti fondamentali dei singoli. Molte critiche si fondano sulla considerazione degli effetti deformanti che questa disciplina produce sull’intero sistema penale, sia sostanziale che processuale, determinando, ad esempio, un’innaturale moltiplicazione delle impugnazioni, o soluzioni ermeneutiche contrassegnate da una precisa valenza limitativa dell’operatività dell’estinzione del reato per il decorso del tempo. La considerazione degli effetti della prescrizione rispetto a fenomeni criminali particolarmente allarmanti è stata sviluppata in modo assai significativo nel rapporto di valutazione elaborato dal GRECO (“Gruppo di Stati contro la corruzione”, operante nell’ambito del Consiglio d’Europa) nel luglio 2009, che raccomandava di prendere in considerazione l’introduzione di forme di confisca in rem, sganciate dal presupposto di una sentenza di condanna, destinato frequentemente a mancare per effetto del meccanismo della prescrizione del reato. Sotto questo profilo, l’attuale tendenza a estendere l’ambito applicativo delle misure di prevenzione patrimoniali, includendovi i reati di corruzione, appare come un passaggio necessario per porre rimedio a uno dei più rilevanti aspetti critici del sistema italiano di lotta alla corruzione, rappresentato dall’insufficienza del sistema di confisca dei proventi di questo fenomeno criminale. Ma anche in termini più generali, al di là del problema di garantire che “la corruzione non paghi”, la disciplina italiana della prescrizione è contrassegnata da rilevanti deviazioni rispetto agli standard europei. Per accorgersene è sufficiente, anzitutto, prendere in considerazione le soluzioni accolte dai principali ordinamenti dell’Europa continentale nel disciplinare il rapporto tra termine di estinzione del

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132 reato e tempi del processo: in tutti i sistemi giuridici di interesse sul piano comparatistico si stabilisce che il compimento di determinati atti processuali fa decorrere ex novo il termine di prescrizione, senza limiti oppure entro un limite complessivo molto ampio, pari all’originario termine di prescrizione ovvero a un suo multiplo. Ad esempio, il codice penale spagnolo stabilisce che l’effetto estintivo non può maturare nel periodo impiegato dall’ordinamento per l’esercizio della giurisdizione. Precisamente, secondo l’art. 132 di tale testo normativo, la prescrizione (articolata in varie fasce a seconda del livello della pena astrattamente irrogabile per il reato) si interrompe quando il procedimento si dirige contro il colpevole, e ricomincia a decorrere dal momento in cui lo stesso procedimento si paralizza o si conclude con un esito diverso dalla condanna. Mentre nel sistema spagnolo la prescrizione è inclusa tra le cause di estinzione della responsabilità penale, lo stesso istituto assume una natura processuale nell’ordinamento francese, che colloca nel codice di rito la disciplina della prescription de l’action publique; tale normativa prevede l’estinzione dell’azione penale qualora questa non venga esercitata entro un determinato tempo dalla consumazione del reato. In ogni caso, nel sistema francese, il termine di prescrizione dell’azione pubblica per i crimini, la cui durata è pari a dieci anni, si interrompe con il compimento di qualsiasi atto di istruzione o di indagine, e riprende a decorrere per un uguale periodo; le interruzioni, inoltre, possono essere illimitate. Nell’ordinamento tedesco, il § 78 StGB, che articola l’istituto della prescrizione sulla base della gravità dei reati, disciplina anche l’interruzione della prescrizione, prodotta non solo da atti compiuti dal giudice ma anche da atti della polizia o della Procura della Repubblica, come il primo interrogatorio dell’accusato. Dopo l’interruzione, il

La disciplina italiana della prescrizione è contrassegnata da rilevanti deviazioni rispetto agli standard europei

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termine di prescrizione riprende a decorrere ma non 1 può superare il doppio della sua durata originaria . Vi è, poi, un ulteriore “lato oscuro” del sistema italiano di prescrizione, che è stato posto in luce da alcune recenti pronunce della Corte di Strasburgo: precisamente, la sua incompatibilità con gli obblighi scaturanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo in tema di tutela di determinati diritti fondamentali di particolare rilevanza. La prima pronuncia ad affrontare la questione è stata la sentenza emessa il 29 marzo 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Alikaj contro 2 Italia , che ha ravvisato una violazione dell’aspetto procedurale del diritto alla vita, sancito dall’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quando la condanna di un agente dello Stato per un omicidio illegale (anche se commesso per colpa, e non con dolo) sia impedita dalla prescrizione, per effetto della durata del processo penale. Tale sentenza ha fornito una precisa indicazione sull’incoerenza del modello italiano di prescrizione 1 Sul tema dell’analisi comparatistica si rinvia a BALSAMO – TRIZZINO, La prescrizione del reato nel sistema italiano e le indicazioni della Corte europea: fine di un equivoco?, in Cass. Pen., 2011, pag. 2804 ss. 2 In Cass. Pen., 2011, pag. 2804, con nota di BALSAMO – TRIZZINO, cit.


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con gli standard internazionali di protezione dei diritti umani; essa ha individuato la vera anomalia del sistema penale italiano non tanto nella lunghezza dei tempi del processo, quanto nell’effetto estintivo che ne consegue in relazione a un comportamento lesivo del diritto alla vita, posto in essere da un “agente dello Stato”. In quest’ottica, la sentenza Alikaj è giunta a includere la prescrizione nella categoria delle “misure” inammissibili in quanto produttive dell’effetto di impedire una condanna nonostante l’accertamento della responsabilità penale dell’accusato. La portata sistemica e innovativa della sentenza Alikaj è stata ben colta dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, che nella relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2012 ha sottolineato come da essa possa trarsi il principio di diritto dell’incompatibilità con gli artt. 2 e 3 della Convenzione di un meccanismo di prescrizione che, per effetto della durata del processo, impedisca ogni reazione sanzionatoria con funzione dissuasiva rispetto ai comportamenti posti in essere da soggetti investiti di autorità pubblica, in violazione del diritto alla vita e del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti. Il problema è stato ulteriormente focalizzato dalla

sentenza emessa il 1° luglio 2014 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Saba c. Italia, proprio in relazione al divieto che discende dall’art. 3 della Convenzione. La sentenza in questione, accogliendo il ricorso presentato da Valentino Saba, il quale aveva sporto una denuncia nei confronti di alcuni agenti penitenziari per atti di violenza avvenuti il 3 aprile 2000 all’interno del carcere di Sassari, dove egli era detenuto, ha dichiarato la sussistenza di una violazione dell’aspetto procedurale dell’art. 3 della CEDU, rilevando, in primo luogo, che l’eccessiva lunghezza del procedimento penale ha portato a una decisione di non doversi procedere per prescrizione nei confronti di sette imputati, il che non si concilia con l’obbligo delle autorità di condurre l’inchiesta con celerità. Con le suddette pronunce, la Corte di Strasburgo ha fatto applicazione del principio, già affermato con riguardo a varie ipotesi di comportamenti contrari all’art. 2 o all’art. 3 della CEDU denunciati con ricorsi riguardanti altri Stati, secondo cui i relativi procedimenti penali devono necessariamente concludersi con una sentenza che accerti, nel merito, le eventuali responsabilità dei funzionari pubblici coinvolti, e non con una sentenza 3 dichiarativa della prescrizione . Si è in presenza di un vero e proprio deficit strutturale del sistema italiano, che condiziona pesantemente l’efficacia della repressione penale dei comportamenti contrari agli artt. 2 e 3 della CEDU, laddove non si traducano in delitti di gravità assai elevata: nel caso Alikaj l’effetto estintivo si era prodotto per un reato di omicidio colposo, mentre nel caso Saba le condotte degli imputati 3 V. le sentt. 3 giugno 2004, Bati e altri c. Turchia; 2 dicembre 2008, Erdal Aslan c. Turchia; 3 febbraio 2009, Voiculescu c. Romania; 10 marzo 2009, Turan Cakir c. Belgio; 23 giugno 2009, Keser e Komurku c. Turchia; 16 febbraio 2010, Alkes c. Turchia; 16 marzo 2010, Aşici c. Turchia. Sul tema cfr. COLELLA, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU), in Diritto Penale Contemporaneo, 2011, pag. 221 ss.

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134 erano state ricondotte alla fattispecie di cui all’art. 608 c.p. (abuso di autorità contro arrestati o detenuti), per la quale è comminata la pena della reclusione non superiore a trenta mesi. In simili ipotesi, appare particolarmente frequente il rischio di prescrizione, per il vistoso divario tra la complessità degli accertamenti processuali occorrenti e la sostanziale mitezza del trattamento sanzionatorio previsto. Gli aspetti critici del modello italiano di prescrizione sono stati evidenziati anche dal Comitato contro la Tortura (Committee Against Torture) dell’ONU, che già nelle conclusioni e raccomandazioni formulate all’esito della 38^ sessione di lavori, svoltasi nel 2007, ha espresso l’opinione che la repressione penale degli atti di tortura, assicurata mediante le figure delittuose previste dal codice penale italiano, non dovrebbe essere soggetta alla disciplina della prescrizione: si è raccomandata quindi una riforma di tale disciplina per garantirne la piena coerenza con le obbligazioni derivanti dalla Convenzione dell’ONU contro la tortura, in modo da rendere possibili le indagini, i processi e la punizione di simili 4 atti senza limiti di tempo . Apparendo estremamente problematica la strada del ricorso alla Corte costituzionale, che non potrebbe emettere una pronuncia additiva capace di incidere in peius sulla 5 risposta punitiva , la soluzione di questo problema strutturale è rimessa esclusivamente al legislatore. Si tratta di una lacuna di regolamentazione che andrebbe colmata inserendo nell’ultimo comma dell’art. 157 c.p., che sancisce l’imprescrittibilità dei reati per i quali è comminata la pena dell’ergastolo, l’ulteriore riferimento ai fatti delittuosi commessi mediante condotte qualificabili come atti di tortura ovvero trattamenti inumani o degradanti.

Tale integrazione del dettato normativo sarebbe sicuramente coerente con la sua ratio, giacché in entrambe le ipotesi la sottrazione alla prescrizione sarebbe ricollegabile alla gravità del reato, desumibile nel primo caso dal massimo trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore nazionale, e nel secondo caso dalla violazione di valori cui l’ordinamento internazionale garantisce 6 una tutela assoluta e inderogabile . 6 In proposito ci si permette di rinviare a BALSAMO, L’art. 3 della CEDU e il sistema italiano della prescrizione: una riforma necessaria, in Cass. Pen., 2014, pag. 3925 ss.

Le criticità del modello italiano di prescrizione sono state evidenziate anche dal Comitato contro la Tortura dell’ONU

4 Comitato contro la Tortura, Osservazioni Conclusive sull’Italia (CAT/C/ITA/CO/4), 2007, § 19. 5 Sul tema v. però le osservazioni di VIGANÒ, L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela dei diritti fondamentali, in Studi in onore di Mario Romano, Jovene, 2011, pag. 2681 ss.

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Intercettazioni, no a norme che depotenzino lo strumento investigativo

Documento del Comitato Direttivo Centrale 21 maggio 2016 Il progetto di riforma del processo penale approvato dalla Camera dei Deputati nelle forme della Legge delega è ora in discussione al Senato ed è imminente la scadenza dei termini per la presentazione degli emendamenti. Nell’ambito delle norme oggetto di intervento l’art. 30 individua la materia delle intercettazioni telefoniche e ambientali. L’intervento è dichiaratamente orientato non già a ridurre l’ambito di utilizzabilità di questo insostituibile strumento investigativo, quanto a limitare la diffusione dei contenuti delle intercettazioni a tutela della riservatezza delle persone coinvolte. Tuttavia il testo della delega presenta ampi margini di ambiguità, in particolare dove prevede l’adozione di ”prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni”, tali da consentire, di fatto, l’adozione di norme delegate che, nella sostanza, depotenzino ampiezza ed efficacia di questo irrinunciabile strumento investigativo.

Sono indispensabili per individuare i responsabili dei reati di terrorismo, mafia e corruzione

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L’Associazione Nazionale Magistrati ritiene che le intercettazioni telefoniche e ambientali siano indispensabili per l’individuazione dei responsabili dei reati più gravi e insidiosi, quali quelli in materia di terrorismo, di criminalità organizzata e di corruzione. In particolare la corruzione, che si fonda su un patto illecito e occulto tra il pubblico amministratore e il privato, difficilmente può essere


137 disvelata con strumenti diversi dalla captazione delle comunicazioni. Qualsiasi intervento volto a limitare l’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche e ambientali, quindi, determinerebbe un sensibile depotenziamento dell’attività di investigazione e si risolverebbe nella riduzione della capacità di contrasto alle attività criminali. Quanto al tema della tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti, ribadisce che l’individuazione delle comunicazioni non rilevanti ai fini della prova dei reati per i quali si procede non può che essere rimessa alla decisione giurisdizionale, sottoposta alla verifica del contraddittorio tra le parti. In tal senso, soluzioni tecnicamente idonee a raggiungere un nuovo punto di equilibrio tra le

limitative della utilizzabilità dello strumento e che venga comunque assicurato il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini, compreso quello di essere compiutamente informato in merito ai risultati dell’azione giudiziaria.

Limitare l’uso delle intercettazioni ridurrebbe la capacità di contrasto alle attività criminali

esigenze di giustizia e la tutela della privacy delle persone coinvolte devono essere rimesse al legislatore. L’Associazione Nazionale Magistrati, pertanto, richiama la necessità che ogni futuro intervento normativo miri soltanto a una migliore disciplina del tema della divulgazione del materiale intercettato e di contro non sia occasione per introdurre modifiche

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Aspetti positivi e criticità

nel disegno di legge delega per l’efficienza del processo civile presentato alla Camera dei deputati l’11 marzo 2015 Francesco De Santis Professore ordinario di Diritto processuale civile all’Università di Salerno

SOMMARIO: 1. Temi di costituzionalità. – 2. Fase di trattazione e anticipazione delle preclusioni. – 3. Lo scambio degli atti conclusivi in funzione della decisione. – 4. La conciliazione giudiziale “imperiosa”. – 5. L’immediata efficacia di tutte le sentenze. – 6. Il giudizio d’appello: revisio prioris instantiae o anticipazione del giudizio di legittimità? – 7. Nuova enfasi allo jus litigatoris nel giudizio di cassazione. – 8. Quid agendum? 1. - Chi si approssima all’analisi del disegno di legge (ddl) Atto Camera n. 2953 di Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile (presentato dal Ministro della giustizia, di concerto col Ministro dell’economia e finanze, l’11 marzo 2015 e all’esame della Commissione giustizia di quel ramo del Parlamento) potrebbe ricevere la sensazione di un difetto di coordinamento tra la Relazione illustrativa del ddl (da pagina 1 a pagina 24 dello stampato parlamentare), la Relazione tecnica (da pagina 25 a pagina 29), l’Analisi tecnico-normativa (da pagina 30 a pagina 36), l’Analisi dell’impatto della regolamentazione – AIR (da pagina 37 a pagina 52), da un lato; e, dall’altro lato – per chi, ben inteso, fosse pazientemente arrivato alla fine della lettura – tra la Relazione illustrativa del ddl e l’articolato vero e proprio, che occupa soltanto le ultime otto pagine (da 53 a 60) dello stampato parlamentare. Leggendo la Relazione illustrativa (che si dilunga minuziosamente nella descrizione delle criticità del nostro processo civile e degli strumenti per porvi rimedio) ci si attenderebbe di trovare nell’articolato

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141 del ddl non la declinazione di principi e criteri di delegazione legislativa (talvolta formulati in maniera piuttosto generica), bensì la formulazione di un compiuto e organico progetto di legge. Quest’ultimo, però, sembra essere quasi rimasto, se così si può dire … nella penna del proponente! Una risposta all’interrogativo viene dalle prime righe della Relazione illustrativa, ove il Governo si affretta a chiarire che il disegno di legge non è “farina del suo sacco”, ma è stato elaborato e redatto da una Commissione, presieduta dal dott. Giuseppe Berruti, alla quale era stato conferito il mandato di predisporre proposte di interventi in materia di processo civile. Si dichiara al contempo che neppure la Relazione è frutto dell’opus governativa, ma che essa riprende i contenuti del Documento di sintesi sulle fattispecie oggetto di criticità e sulle prioritarie proposte di intervento in materia di processo civile, presentato dalla citata Commissione di studio presieduta dal dott. Berruti (alla quale, d’ora in poi, per comodità faremo riferimento come “Commissione Berruti”). Se abbiamo correttamente inteso, il testo dei principi di cui qui ci occupiamo è, dunque, il distillato di un documento illustrativo molto più analitico; e l’apparente discrasia tra l’articolato del ddl (recante i principi e criteri di delegazione legislativa) e la Relazione illustrativa può essere colmata ritenendo che – se il Parlamento approverà i suddetti principi e criteri – il Governo vi darà esecuzione sulla base di quanto si legge nella Relazione della Commissione Berruti. Una bella e trasparente operazione di anticipazione dei contenuti della legislazione delegata, si direbbe, auspicata da tutti gli operatori del processo, ma di cui andrebbe valutata la conformità al dettato dell’art. 76 cost. Sotto il profilo della legittimità delle norme di delega contenute nel ddl, occorre chiedersi se l’Esecutivo abbia già adeguatamente ponderato la sostenibilità della poco “specifica” formulazione di taluni criteri di delegazione (e della preannunziata attività di “eterointegrazione” dei medesimi con la Relazione illustrativa) in relazione al tema dei

rapporti fra legge delega e norma attuativa, avendo la Consulta in più occasioni affermato che il sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa deve essere svolto attraverso “un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli concernenti, rispettivamente, la norma delegante (al fine di individuarne l’esatto contenuto, nel quadro dei principi e criteri direttivi e del contesto in cui questi si collocano, nonché delle ragioni e finalità della medesima) e la norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con i principi e i criteri direttivi della delega” (v., tra le più recenti, le sentenze n. 75 del 2012, n. 293 del 2010, n. 112 del 2008, n. 341, n. 340 e n. 170 del 2007); e che l’esame del vizio di eccesso di delega impone che l’interpretazione dei principi e dei criteri direttivi sia effettuata in riferimento alla ratio della legge delega, tenendo conto del contesto normativo in cui sono inseriti e delle finalità che ispirano complessivamente la delega, ed in particolare i principi e i criteri direttivi specifici, sicché “i principi posti dal legislatore delegante costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma strumenti per l’interpretazione della portata delle stesse” (sentenza n. 96 del 2001).

Soltanto in sede di approvazione definitiva del ddl se ne potrà, comunque, valutare appieno la legittimità costituzionale, e nella successiva sede di attuazione della delega si verificherà se le realizzazioni saranno pari alle ambiziose promesse.

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142 Il testo all’esame reca infatti principi e criteri di delegazione finalizzati ad assicurare, da un lato, l’integrazione della disciplina del Tribunale delle imprese e l’istituzione del Tribunale della famiglia e delle persone (art. 1, comma 1, rispettivamente sub lett. a) e b); e, dall’altro lato, il “riassetto formale e sostanziale del codice di procedura civile e della correlata legislazione speciale”, in funzione dei sempre declamati obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile (art. 1, comma 2, del ddl). Per ragioni di brevità, limiteremo le presenti riflessioni alle proposte di riforma del processo di ordinaria cognizione. 2. - Quanto al processo di ordinaria cognizione, la Relazione illustrativa individua i due principali obiettivi della delega legislativa: a) nella comprensibilità del processo (che, nella Relazione illustrativa assurge a presupposto della sua eticità), nel senso che “le parti debbono sapere chi, almeno in astratto e con una sensata prognosi, vincerà o perderà” (così a pagina 2 dell’AC 2593, cit.); e b) nella speditezza, nel senso che il processo, in tempi prevedibili, “deve risolvere una lite in atto con una decisione attuale e non con l’epitaffio di una lite che non c’è più”. La realizzazione di questi due obiettivi rimette al centro del sistema “la professionalità più assoluta e più controllabile dei protagonisti”, come a dire che devono essere anzitutto i giudici a farsi carico di studiare la causa da ben prima che essa vada a sentenza, scansando accuratamente “la tecnica della giurisprudenza difensiva, e, pertanto, la ricerca della soluzione puramente processuale”. I principi di delega sponsorizzano “la semplicità, la concentrazione e l’effettività della tutela, al fine di garantire la ragionevole durata del processo”, con particolare riguardo alla fase della trattazione e della rimessione in decisione, e lo strumento principale messo in campo dal ddl per far sì che il giudice si relazioni concretamente con la causa prima che essa vada in decisione è rappresentato dalla rimodulazione dei termini processuali, nonché

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143 “del rapporto tra la trattazione scritta e la trattazione orale” (art. 1, comma 2, lett. a2), del ddl). Nella Relazione si legge che il meccanismo sul quale si punta per garantire maggiore concentrazione ed effettività della tutela consiste nell’anticipazione, rispetto all’udienza di trattazione della causa, dei termini per il deposito degli atti defensionali recanti la definitiva formulazione del thema decidendum e del thema probandum, se del caso assegnando termini sfalsati a vantaggio delle diverse parti del processo, e così ribaltando l’attuale scansione prevista dall’art. 183, comma 6, c.p.c. Si può senz’altro concordare con la Commissione Berruti e con il Governo che il vigente percorso processuale, che conduce al consolidamento delle attività allegative e probatorie svolte dalle parti, sia tortuoso ed a tratti inutile (perché puntellato da tempi autenticamente “morti”). Sono effettivamente pochi i casi in cui all’udienza di trattazione il giudice abbia preventivamente studiato l’incartamento processuale e sia già in condizione di effettuare le verifiche preliminari (con la sola eccezione di quella avente ad oggetto la validità della notifica dell’atto introduttivo se il convenuto non si è costituito, verificabile all’istante), di formulare una proposta transattiva (o soltanto di sondare il terreno per valutare la percorribilità della soluzione bonaria della lite), e di sottoporre al contraddittorio processuale questioni rilevabili d’ufficio. Il tutto sovente si risolve nell’assegnazione dei termini per il deposito delle memorie ex art. 183, comma 6, c.p.c., quando non addirittura nel rinvio della trattazione “nello stato” ovvero “per i medesimi incombenti” (tanto per adoperare lemmi ben noti a chi ha pratica del processo). Il che può accadere (nelle più nobili ipotesi) quando l’attore chiede di poter valutare le difese del convenuto, tardivamente costituitosi, ai fini della formulazione di attività allegative consequenziali; e (nelle ipotesi meno nobili) quando le parti sollevano difficoltà di vario genere (più o meno strumentali) e chiedono il rinvio, oppure quando il giudice dell’udienza interviene in sostituzione del titolare del fascicolo.

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Tutto ciò senza contare le variabili processuali non prevedibili, tanto più “in agguato” quanto maggiore è il numero di parti del processo, spesso determinate dall’allargamento del contraddittorio mercé la chiamata in causa o l’intervento di terzi, specie se effettuata per integrare il contraddittorio. Eventi, questi ultimi, che potrebbero costringere (e che in concreto sovente costringono) il processo a tornare ogni volta sui suoi passi, come in un interminabile gioco dell’oca. Ma siamo davvero certi che la “panacea” dei mali causati dai ritardi che affliggono la fase di trattazione (o anche soltanto un serio contributo alla soluzione del problema) possa essere l’anticipazione dei termini per il deposito delle memorie, fissati direttamente dalla legge in vista dell’udienza di trattazione? Avrei qualche dubbio al riguardo. Nella maggior parte dei casi, oggi accade che, in occasione dell’udienza ex art. 183 c.p.c., il giudice assegna i termini per il deposito delle memorie previste dal comma 6, e fissa una successiva udienza per l’esame delle richieste istruttorie (udienza sicuramente “spuria”, se si ha riguardo all’ordito sistematico del codice e che non è, diversamente da quanto parrebbe leggersi nella Relazione illustrativa, l’udienza per l’assunzione dei mezzi di prova ex art. 184 c.p.c.). Nulla impedirebbe al giudice di valutare il contenuto delle memorie prima di quest’ultima udienza e di effettuare le verifiche preliminari ed ammettere i

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mezzi di prova (o rinviare per la precisazione delle conclusioni) direttamente all’esito dell’udienza, nel corso della quale potrebbe altresì formulare una proposta transattiva. Così come, più a monte, nulla impedirebbe al giudice, anziché di fissare un’udienza successiva alla trattazione, di assegnare i termini ex art. 183, comma 6, c.p.c., al contempo riservando ogni provvedimento finalizzato alla prosecuzione del giudizio. Se così stanno le cose, non sarei del tutto certo che l’anticipazione dei termini per il deposito delle memorie possa servire, come si legge nella Relazione illustrativa, a “eliminare quasi con un tratto di penna” l’udienza per l’esame delle richieste istruttorie, successiva alla prima udienza di trattazione. Tutto ciò senza neppure considerare gli effetti che il nuovo sistema produrrebbe in relazione all’ipotesi della chiamata in causa di un terzo ad istanza di parte, da proporsi a pena di decadenza con la comparsa di risposta (ovvero, se effettuata dall’attore in conseguenza delle difese del convenuto, direttamente all’udienza di trattazione). Poiché la chiamata di terzo è soggetta ad autorizzazione del giudice (il quale deve fissare una nuova udienza per mettere il terzo in condizioni di difendersi), il vigente assetto della fase introduttiva consente che la trattazione scritta si svolga quando il contraddittorio si è già instaurato nei riguardi di tutte le parti, compreso il terzo chiamato. L’integrale anticipazione delle difese scritte alla fase che precede l’udienza di trattazione potrebbe rappresentare, nell’ipotesi di chiamate in causa, un momento di regressione del processo e uno strumento di abuso per la parte che intendesse ritardare i tempi della decisione. Certo, un complesso di nuove e più “stringenti” norme potrebbe sortire l’effetto migliorativo di indurre il giudice a organizzare i suoi tempi di lavoro in modo da arrivare, quando possibile, all’udienza di trattazione già preparato a effettuare le verifiche preliminari, a formulare una proposta transattiva, e, se del caso, ad ammettere i mezzi di prova o rinviare per la precisazione delle conclusioni.


145 Ma al di là di questo effetto “persuasivo” (o “dissuasivo”, a seconda dei punti di vista), è da ritenersi che l’anticipazione delle preclusioni assertive e probatorie non sia tale da assicurare di per sé il raggiungimento dell’obiettivo sperato, per la semplice ragione che essa non incide sul ruolo del giudice, alleviando il numero delle cause ivi pendenti. Il risultato della riforma potrebbe essere perciò che, all’udienza ex art. 183 c.p.c., il giudice − anche al netto di eventuali “incidenti” processuali, per lo più rivenienti dall’estensione del contraddittorio − rinvierà egualmente ad altra udienza, senza prendere alcun provvedimento, e magari assegnando (se del caso su richiesta delle parti) termini per il deposito di note. Nell’ipotesi in cui, poi, il giudice, all’esito delle verifiche preliminari, disponga l’integrazione del contraddittorio, la rinnovazione o l’integrazione della domanda, ovvero ritenga di sottoporre al contraddittorio tra le parti questioni rilevabili d’ufficio, sarà giocoforza che si fissino ulteriori termini per lo svolgimento delle conseguenti attività difensive e per lo scambio di nuove memorie, laddove il vigente sistema consente che, sia pure non con riferimento a tutte le citate ipotesi, si utilizzino all’uopo le memorie di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c. Del resto, anche nel processo del lavoro (che la Relazione illustrativa menziona come esempio virtuoso di modello processuale, in cui il deposito degli atti consolidativi del thema è fissato antecedentemente alla trattazione orale) sovente si registrano meri rinvii dell’udienza di cui all’art. 420 c.p.c., senza che all’esito di quest’ultima sia stato assunto alcun provvedimento in funzione delle prove o della decisione.

prima, anziché dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni (tornandosi, in sostanza, alla situazione anteriore alla legge n. 353 del 1990, allorché gli atti conclusivi dovevano essere depositati prima dell’udienza collegiale, ma pur sempre dopo la precisazione delle conclusioni davanti all’istruttore). Ora, in disparte la contraddizione logica che si genera imponendo di “costruire” atti conclusionali in relazione a conclusioni non ancora precisate (e, dunque, per quanto consentito, ancora “mutevoli”), a me non pare che la previsione di anteporre il deposito delle difese finali all’udienza di precisazione delle conclusioni possa essere risolutiva dei tempi “morti” che affliggono la fase della decisione, in specie la fissazione “a lunga gittata” dell’udienza di precisazione delle conclusioni. Anzi, l’anticipato deposito degli atti conclusivi rischia di risolversi in una doppia e inutile fatica per l’avvocato, le quante volte – a causa del sovraccarico del ruolo del giudice (o anche semplicemente per l’assenza di quest’ultimo) – la

Il deposito anticipato degli atti conclusivi rischia di risolversi in una doppia e inutile fatica per l’avvocato

3. – L’art. 1, comma 2, lett. a2) del ddl annunzia altresì una revisione della fase di decisione del giudizio di primo grado. Nella Relazione illustrativa si preconizza (conformemente a quanto si prevede per la fase introduttiva e di trattazione) che lo scambio degli atti difensivi conclusionali avvenga

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146 causa non venga spedita in decisione. Probabilmente i meccanismi di accelerazione della fase di decisione andrebbero cercati altrove, valorizzando al massimo grado (se non generalizzando) le modalità di decisione oggi previste per le cause davanti al giudice monocratico, a seguito di trattazione orale (art. 281-sexies c.p.c.), ovvero di trattazione “mista” (art. 281-quinquies, comma 2, c.p.c.), magari prevedendo che il giudice debba, già nell’ordinanza di rinvio per la precisazione delle conclusioni, indicare le modalità di decisione che saranno adottate, senza necessità che sia fissata una successiva udienza per la sola trattazione orale. 4. – Non mi dilungo sul contenuto dell’art. 1, comma 2, lett. a1), del ddl, ove si prevede la “valorizzazione dell’istituto della proposta di conciliazione del giudice, di cui all’articolo 185-bis del codice di procedura civile, anche in forma di valutazione prognostica sull’esito della lite, da compiere allo stato degli atti prima della valutazione di ammissibilità e rilevanza delle prove, in particolare in funzione della definizione dell’arretrato e del contenimento delle richieste di indennizzo per irragionevole durata del processo”; né sulla previsione, alla prima teleologicamente collegata, che impone il “potenziamento dell’istituto dell’arbitrato, anche attraverso l’eventuale estensione del meccanismo della translatio iudicii ai rapporti tra processo e arbitrato nonché attraverso la razionalizzazione della disciplina dell’impugnativa del lodo arbitrale” (art. 1, comma 2, lett. e1), del ddl). Fa bene il legislatore a promuovere in ogni maniera (e in ogni occasione) la cultura del componimento bonario della lite. Ciò che lascia un po’ perplessi è che il rafforzamento della soluzione conciliativa viene prefigurato dalla Commissione Berruti non come strumento di miglior realizzazione dell’interesse delle parti (le quali – se non ci inganniamo – sono tuttora i titolari del diritto alla tutela di cui parla l’art. 24 cost.), bensì come protezione dall’“incubo” dell’irragionevole durata del processo, che genera sanzioni a carico

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dell’ordinamento e talvolta dei giudici. Di tanto si riceve conferma dalla Relazione illustrativa che preconizza “l’obbligatoria proposta conciliativa ex articolo 185-bis del codice di procedura civile in tutti i processi pendenti per i quali vi sia rischio di eccedere i termini di ragionevole durata del processo”. Davvero difficile immaginare che, astrattamente parlando, il giudice (il quale, ai sensi dell’art. 101, comma 2, cost., è soggetto soltanto alla legge) possa essere “costretto” a formulare in ogni caso la proposta conciliativa. Più facile, invece, immaginare che i magistrati (soprattutto i più giovani) – sospinti dal senso del dovere e nel timore di andare soggetti a sanzioni disciplinari – si spingano fino a tentare di conciliare l’inconciliabile, formulando altresì valutazioni prognostiche sull’esito della lite, anche laddove la complessità e la controvertibilità dello spettro fattuale prospettato dalle parti impongano che si dia corso a una seria e approfondita discovery processuale. Alla luce di ciò, più equilibrate appaiono le previsioni contenute nel vigente art. 185- bis c.p.c.: occorre piuttosto augurarsi che esse siano applicate un po’ più spesso. 5. – Sebbene non c’entrino nulla con la ragionevole durata del processo (ma possano in molti casi servire, a mio avviso, a implementare l‘effettività della tutela), sono da condividersi le previsioni di cui agli artt. 1, comma 2, lett. a3), e 1, comma 2, lett. b6), del ddl, che impongono di introdurre la “immediata provvisoria efficacia” di tutte le sentenze di primo e di secondo grado. In sede di esecuzione della delega (ovvero in sede di

Fa bene il legislatore a promuovere la cultura del componimento bonario della lite


147 emendamenti al ddl di delega), tale principio dovrà essere assai probabilmente precisato, nel senso di renderlo funzionale (non tanto alle decisioni di mero accertamento o costitutive, per le quali il passaggio in giudicato è il logico precipitato della certezza giuridica a cui esse naturalmente ambiscono, bensì alle pronunzie di condanna sorrette da capi di decisione aventi natura “costitutiva”, tutte le volte in cui – stando agli insegnamenti del diritto vivente – esse dipendano dall’effetto costitutivo (si pensi alla condanna alla restituzione conseguente alla revocatoria fallimentare), e non quando siano a tale effetto legate da un nesso sinallagmatico, ponendosi come parte, talvolta “corrispettiva”, del rapporto giuridico controverso ed oggetto della domanda costitutiva (si pensi, a quest’ultimo riguardo, alla decisione ex art. 2932 c.c. che tiene luogo del contratto definitivo di compravendita e alle connesse statuizioni, tra loro in evidente correlazione sinallagmatica, di condanna al

pagamento del prezzo e alla consegna del bene). 6. – Particolarmente innovative sono le previsioni del ddl relative al giudizio d’appello. Va anzitutto salutata con favore “la soppressione della previsione di inammissibilità dell’impugnazione fondata sulla mancanza della ragionevole probabilità del suo accoglimento” (art. 1, comma 2, lett. b4), del d.d.l.), ossia del c.d. “filtro” di cui agli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., che ha sollevato una miriade di dubbi e discordanti interpretazioni, in numero inversamente proporzionale alla numerosità delle applicazioni concrete. Del pari assai rilevanti sono i principi di delega finalizzati all’introduzione di “criteri di maggior rigore in relazione all’onere dell’appellante di indicare i capi della sentenza che vengono impugnati e di illustrare le modificazioni richieste”, nonché al “rafforzamento del divieto di nuove allegazioni nel giudizio di appello” (art. 1, comma 2, lett. b2-3), del ddl), stante l’esigenza di implementare, da un lato, la specificità delle censure, e, dall’altro lato, il carattere dell’appello tendenzialmente “chiuso” ai nova, ponendolo al riparo da indiscriminati allargamenti dell’intero thema (dovendosi, a mio avviso, intendere il termine “allegazioni” come riferito sia alle attività assertive che a quelle probatorie). Asseconda tale esigenza il richiamo all’“introduzione di criteri di maggior rigore nella disciplina dell’eccepibilità o rilevabilità, in sede di giudizio di appello, delle questioni pregiudiziali di rito” (art. 1, comma 2, lett. b5), del ddl), con ciò ulteriormente attenuando la valenza che in sede di impugnazione assumono le nullità extraformali non censurate, in linea col diritto vivente che negli anni più recenti ha notevolmente espanso l’area del giudicato implicito sulle questioni preliminari di rito. Insomma, l’Esecutivo sembra avere puntato molte carte su un giudizio d’appello strutturato in forma realmente impugnatoria, “anche attraverso la codificazione degli orientamenti giurisprudenziali e la tipizzazione dei motivi di gravame” (art. 1, comma 2, lett. b1), del ddl).

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Nella Relazione illustrativa si legge che ci si dovrà indirizzare verso una forma d’impugnazione a critica vincolata proponibile unicamente per due motivi: la violazione di norme di diritto sostanziale o processuale e l’errore “manifesto” di valutazione dei fatti. Sarebbe pertanto precluso all’appellante “anche solo di introdurre nuove ragioni o deduzioni in diritto per dimostrare la fondatezza giuridica delle domande e delle eccezioni precedentemente proposte, che non siano già state sottoposte al giudice di primo grado”. Se, dunque, l’intenzione è quella di trasformare il giudizio d’appello in una sorta di “anticamera” del giudizio di legittimità (ovvero, in linea estrema, in una duplicazione del giudizio di cassazione), forse giova rammentare che l’appello non gode di alcuna copertura costituzionale e che, probabilmente, è venuto il momento di pensare con realismo alla sua soppressione. L’esperienza ci mostra che le restrizioni del regime preclusivo e l’implementazione delle tecnicalità impugnatorie non dissuadono, se non in minima parte, i contendenti dall’andare fino in fondo, sperimentando (anche a costo di pagare spese sempre più “salate”) ogni grado del processo.

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Vi sono ricorsi che giacciono dimenticati negli archivi del “palazzaccio” anche da più di cinque anni Se, pertanto, non si è in grado di incidere sull’organizzazione delle Corti d’appello, vi è da temere che un’impugnazione ancor più chiusa e selettiva di quella attuale non impedirà quei lunghi (tanto defatiganti, quanto inutili) rinvii pluriannuali dall’udienza di trattazione a quella di precisazione delle conclusioni, aprendo uno iato temporale in cui nulla (ma davvero nulla) accade. 7. – La delega in materia di giudizio di cassazione è contenuta solo in parte (forse la meno interessante) nell’articolato del ddl (art. 1, comma 2, lett. c)), ove si prevede – fermo rimanendo (almeno a quanto è dato di intendere) il “filtro” preliminare – la revisione della disciplina del giudizio camerale, attraverso l’eliminazione del procedimento di cui all’art. 380bis c.p.c., nonché la fissazione di un’udienza in camera di consiglio (alla quale sarebbero assegnati


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i soli ricorsi che, a giudizio del presidente della sezione, appaiono di agevole soluzione), con un contraddittorio tendenzialmente soltanto scritto fra il procuratore generale e gli avvocati delle parti, e con la soppressione della relazione scritta. Il ddl impone altresì: il rafforzamento della funzione nomofilattica della Suprema Corte (che – come si legge condivisibilmente nella Relazione illustrativa – “consenta la formazione di un vero diritto vivente a direzione relativamente costante e accettabilmente prevedibile”); l’adozione di modelli sintetici di motivazione dei provvedimenti, se del caso mediante rinvio a precedenti; una più razionale utilizzazione dei magistrati addetti all’ufficio del massimario, con la possibilità di applicarli ai collegi giudicanti. Ma è nella Relazione illustrativa che si colgono (ancorché disancorate da specifici criteri di delegazione legislativa) le modifiche più incisive al giudizio di cassazione, finalmente – era ora dopo tanti anni di pervicace rafforzamento delle inammissibilità! – più dalla parte dello jus litigatoris che dello jus constitutionis. Se ne segnalano in particolare tre: l’estensione (in linea coi più recenti arresti delle sezioni unite) del

sindacato sulla motivazione alla “grave e insanabile contraddittorietà o insufficienza”; l’attenuazione del principio di auto-sufficienza del ricorso, con la precisazione che il requisito di cui al n. 6 dell’art. 366, comma 1, c.p.c. è rispettato anche attraverso la “localizzazione” del documento nei fascicoli di merito, senza che il suo contenuto debba essere integralmente trascritto nel ricorso; last but not least, la riscrittura (e, noi auspichiamo, l’abrogazione) del n. 2 dell’art. 360-bis c.p.c. (che prevede l’inammissibilità del motivo di ricorso “quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del giusto processo”): un autentico “rompicapo”, fonte di divergenti e mai sopiti dubbi interpretativi. Fin qui il catalogo delle buone intenzioni, che gli addetti ai lavori non possono che accogliere con favore. A voler restare, però, più concretamente dalla parte dello jus litigatoris, non ci si può esimere dal rilevare che le criticità dell’attuale giudizio davanti alla Suprema Corte sono, in qualche caso, più serie di quanto dalla lettura della Relazione illustrativa (che sul punto non è certo “dolce di sale”) si possa arguire. Se è vero, infatti, che in alcuni casi (penso, ad

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esempio, alla terza sezione civile) i tempi di definizione del giudizio si sono sensibilmente ridotti (addirittura entro i due anni con la fissazione dell’udienza pubblica), è anche vero che in altri casi (penso, ad esempio, alla sezione tributaria) vi sono ricorsi che giacciono dimenticati negli archivi del “palazzaccio” anche da più di cinque anni. La Relazione illustrativa propone “che la formazione dei ruoli venga effettuata non tanto e non solo in considerazione dell’anzianità della cause, ma della loro rilevanza economica, sociale e comunque nomofilattica, per evitare che nell’attesa si consolidino correnti giurisprudenziali inutilmente costose”. Ciò vuol dire che chi aspetta da cinque anni ed oltre che la Suprema Corte decida il suo ricorso (specie se avente una modesta consistenza economica) dovrà probabilmente attendere ancora qualche anno.

8. – I ritardi della giustizia civile non si risolvono introducendo preclusioni sempre più restrittive, che affliggono le parti e i loro patroni. Soprattutto non si risolvono a costo zero. Occorre anzitutto recuperare energie giudiziarie, sopprimendo gradi di giudizio inutili e assumendo un numero maggiore di magistrati. Svolgere le funzioni di magistrato non è semplice: occorre al contempo rafforzare la capacità formativa delle facoltà giuridiche, stabilizzandone il legame con la realtà e con le esigenze delle professioni forensi. Occorre, altresì, istituire l’Ufficio del giudice, strumento in grado di accrescere realmente la produttività del magistrato e di offrire ai migliori laureati delle nostre università l’opportunità di formarsi meglio e più rapidamente non solo per superare il concorso in magistratura, ma

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anche per lo svolgimento del difficile “mestiere” di dirigere un processo e di giudicare. L’affinamento normativo delle tecnicalità processuali, se disgiunto dalle opportune modifiche dell’ordinamento giudiziario (e dai necessari investimenti economici), rischia di risolversi – foscolianamente parlando – nell’ineffabile “calore di fiamma lontana”.


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I ritardi della giustizia civile non si risolvono a costo zero Civile


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Documento sulla legge delega per la soppressione delle commissioni tributarie approvato dal Comitato Direttivo Centrale il 21 maggio del 2016 Con la proposta di legge d’iniziativa parlamentare, presentata l’8 aprile 2016 e attualmente assegnata alla II Commissione Giustizia in sede referente, il Governo è delegato ad adottare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi per la soppressione delle Commissioni tributarie provinciali e regionali e l’attribuzione al giudice ordinario dei relativi procedimenti. I suoi aspetti salienti sono:

»»l’istituzione di sezioni specializzate tributarie in ogni Tribunale con sede presso i capoluoghi di Provincia;

»»l’assunzione di 750 magistrati finalizzata a tale scopo; »»il passaggio del personale amministrativo delle Commissioni tributarie all’Amministrazione Giudiziaria; »»la formazione specialistica dei magistrati ordinari nella materia tributaria da parte della SSM; »»un giudizio di primo grado monocratico e uno, in secondo grado, con reclamo al collegio presso il medesimo Tribunale, ma sempre con (altri) componenti della stessa sezione specializzata;

»»la ricorribilità per cassazione della decisione sul reclamo; »»l’applicazione al processo di cognizione e a quello esecutivo delle attuali norme procedurali speciali (d.lgs. 546/1992; d.p.r. 602/1973);

»»il patrocinio in primo grado degli attuali soggetti legittimati (platea molto ampia); in sede di reclamo solo degli avvocati e dottori commercialisti; la difesa personale possibile fino ad € 3.000,00;

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»»la previsione di giudici ausiliari presso la Corte di

indicato dal disegno di legge.

»»un regime transitorio di 2 anni per lo smaltimento

Anche quanto al personale amministrativo, la prevista “migrazione” dalle Commissioni tributarie all’amministrazione giudiziaria ordinaria presenta uno sdoppiamento cronologico (metà subito, metà dopo due anni) che evidentemente lo depotenzia. Il suo inserimento in un organico in sofferenza numerica e qualitativa lo renderebbe inadeguato a soddisfare il correlativo fabbisogno presso i Tribunali.

Cassazione al fine dello smaltimento dell’arretrato attuale con l’istituzione di ruoli per i magistrati in pensione da non più di 2 anni e che abbiano svolto per almeno 5 anni le funzioni di legittimità;

dell’attuale arretrato delle Commissioni tributarie, decorsi i quali le cause non esaurite vengono assegnate alle sezioni specializzate dei Tribunali.

Desta perplessità la scelta di associare, nei modi e nei tempi, interventi che si differenziano per ampiezza e struttura quali, da una parte, le misure per la definizione del grave arretrato di contenzioso tributario, pendente presso la Suprema Corte (pari a circa il 40% dell’arretrato civile complessivo), e, dall’altra, la soppressione della giurisdizione speciale tributaria. In questo modo si ritarderebbe l’adozione delle prime che hanno, invece, l’urgenza più volte segnalata, tra gli altri, dal primo Presidente della Corte.

A queste ragioni di contrarietà più generali se ne assommano altre inerenti alle soluzioni tecniche proposte. Tra queste segnaliamo:

In questo momento storico, lo stato della giustizia civile non può tollerare il ponderoso innesto del contenzioso tributario che si vorrebbe a regime nel breve volgere di un biennio.

punto di difesa tecnica, con l’accesso al patrocinio da parte dei commercialisti davanti a un organo di giustizia ordinario.

»»l’incoerenza

d’una trattazione riservata a una magistratura professionale e di già matura esperienza, laddove altre funzioni non meno complesse sono assegnate anche a magistrati onorari e togati di prima nomina;

»»il sostanziale mantenimento dello status quo in

I dati forniti dal Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria evidenziano una pendenza, a fine 2015, di oltre 530.000 controversie (tra 1° e 2° grado) e sopravvenienze che, nello stesso anno, hanno superato le 256.000. È evidente che un tale flusso non può essere assorbito con l’assunzione di 750 nuovi magistrati, numero che non sarebbe sufficiente neppure a coprire le vacanze attuali, superiori a milletrecento. Tenuto conto del numero di magistrati tributari oggi dedicati alla giustizia del settore (3.253), si renderebbero necessarie l’integrale copertura delle vacanze e la previsione di un aumento di organico di almeno milleduecento unità. Questa operazione richiede una tempistica incompatibile con il biennio

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Ricorsi dei richiedenti asilo, uffici giudiziari in emergenza L’ANM chiede al Ministero misure per far fronte all’aumento esponenziale delle domande

Documento del Comitato Direttivo Centrale 21 maggio 2016 L’ANM intende sottoporre all’attenzione del Ministro della Giustizia la situazione di vera e propria emergenza nella quale versano gli uffici giudiziari civili a causa della crescita esponenziale dei ricorsi dei richiedenti asilo che impugnano le decisioni di diniego delle commissioni territoriali. Il numero dei migranti che fuggono da teatri di guerra, conflitti locali, violenza generalizzata, calamità naturali e miseria, e sbarcano sulle nostre coste è grandemente aumentato negli ultimi anni. A fronte dell’aumentare del numero delle domande, il Ministero dell’Interno ha riorganizzato le commissioni territoriali che sono state dotate di nuovi mezzi, attraverso la creazione di commissioni distaccate e di sottocommissioni, senza che ciò sia stato accompagnato dalla dotazione di maggiori risorse agli uffici giudiziari competenti per le impugnazioni dei provvedimenti delle commissioni.

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155 A titolo esemplificativo: le pendenze della sola Commissione territoriale di Roma e Frosinone (i cui provvedimenti vengono impugnati innanzi al Tribunale di Roma) sono passate da 4.547 domande del 2013 a 7.315 del 2014, cui è conseguito un aumento esponenziale del numero dei ricorsi ex art 35 d.lvo n. 25/2008; si è passati da 1.595 ricorsi iscritti a ruolo nel 2013 a 1.580 ricorsi iscritti a ruolo i primi 7 mesi del 2015, a 1.100 ricorsi iscritti a ruolo nei soli primi tre mesi del 2016. Riteniamo imprescindibile che tale materia resti di competenza della giurisdizione ordinaria, trattandosi di diritti fondamentali delle persone, ma chiediamo che siano stanziate risorse umane e materiali idonee ad affrontare un’emergenza che sarà senz’altro di lungo periodo. I ricorsi ex art 35 d.lvo 25/2008 richiedono adempimenti della cancelleria (onerata della notifica dei ricorsi alle commissioni territoriali, che non sono allo stato fornite di PEC) ai quali, stante il sostanziale dimezzamento del personale, rischia di non essere più in grado di adempiere. La carenza di personale determina ritardi nella lavorazione dei fascicoli, a partire dalla iscrizione a ruolo, che crea gravi disfunzioni e può comportare una gravissima violazione dei diritti delle persone coinvolte. Accade che i ritardi nella lavorazione del fascicolo comportino che esso arrivi al giudice competente a decidere sulla sospensiva dopo alcuni mesi dal deposito del ricorso. È accaduto che il giudice abbia

concesso la sospensiva quando il richiedente asilo era già stato rimpatriato, in casi nei quali era stata poi riconosciuta anche la protezione internazionale. Le misure finora adottate, quali le applicazioni extradistrettuali, a fronte dell’imponente crescita delle impugnazioni, si sono rivelate assolutamente inadeguate, con la conseguenza che la trattazione dei procedimenti è fissata a distanza anche di anni, con grave violazione dei diritti dei richiedenti e con insostenibile aggravio di costi per la collettività. Tale situazione non può essere affrontata imponendo per legge un termine massimo per la definizione dei procedimenti (sei mesi ex art. 27 del d.lvo n. 142 del 2015 che ha modificato il comma 9 dell’art 19 d.lvo 150/2011) che, nell’attuale carenza di risorse, i giudici non sono assolutamente in grado di rispettare. La situazione dei giudici civili è ulteriormente aggravata dall’aumento esponenziale delle tutele per i minori stranieri non accompagnati, il cui numero appare ormai ingestibile con le risorse a disposizione, con un enorme aggravio per gli uffici del giudice tutelare. A ciò si affiancano le disfunzioni create dalla difficoltà di reperire interpreti nella lingua dei richiedenti, sia per la loro scarsità in relazione ad alcune lingue, sia per i compensi irrisori che sono previsti in loro favore.

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Chiediamo:

»»che

il Ministero della Giustizia effettui una circostanziata verifica dell’incidenza di tale contenzioso sui singoli uffici giudiziari e dell’aumento delle relative pendenze negli ultimi quattro anni; in particolare che a partire dal 30.6.2016, il Ministero inserisca nei moduli per le statistiche semestrali civili di ogni distretto il numero dei procedimenti pendenti, pervenuti ed esauriti di protezione internazionale e di tutele per i minori non accompagnati;

»»che

il lavoro della commissione che sta revisionando le piante organiche della magistratura tenga conto della situazione sopra descritta, prevedendo adeguati aumenti di organico per i Tribunali più gravati;

»»che vengano immediatamente reperite le risorse per colmare i vuoti di organico del personale di cancelleria;

»»che vengano riempiti i vuoti di organico della magistratura, ad oggi ammontanti ad oltre mille unità, ulteriormente aggravati dalla diminuzione dell’età pensionabile, attraverso l’indizione di due concorsi all’anno per il reclutamento di magistrati;

»»che vengano costituiti albi di mediatori culturali e interpreti che possano essere utilizzati quali ausiliari del giudice nei procedimenti di protezione internazionale;

»»che

i compensi degli interpreti vengano adeguati alla prestazione professionale svolta.

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