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Aspetti positivi e criticità nel disegno di legge delega per l’efficienza del processo civile presentato alla Camera dei deputati l’11 marzo 2015

di Francesco De Santis - 31 gennaio 2017

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SOMMARIO: 1. Temi di costituzionalità. – 2. Fase di trattazione e anticipazione delle preclusioni. – 3. Lo scambio degli atti conclusivi in funzione della decisione. – 4. La conciliazione giudiziale “imperiosa”. – 5. L’immediata efficacia di tutte le sentenze. – 6. Il giudizio d’appello: revisio prioris instantiae o anticipazione del giudizio di legittimità? – 7. Nuova enfasi allo jus litigatoris nel giudizio di cassazione. – 8. Quid agendum?



  1. - Chi si approssima all’analisi del disegno di legge (ddl) Atto Camera n. 2953 di Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile (presentato dal Ministro della giustizia, di concerto col Ministro dell’economia e finanze, l’11 marzo 2015 e all’esame della Commissione giustizia di quel ramo del Parlamento) potrebbe ricevere la sensazione di un difetto di coordinamento tra la Relazione illustrativa del ddl (da pagina 1 a pagina 24 dello stampato parlamentare), la Relazione tecnica (da pagina 25 a pagina 29), l’Analisi tecnico-normativa (da pagina 30 a pagina 36), l’Analisi dell’impatto della regolamentazione – AIR (da pagina 37 a pagina 52), da un lato; e, dall’altro lato – per chi, ben inteso, fosse pazientemente arrivato alla fine della lettura – tra la Relazione illustrativa del ddl e l’articolato vero e proprio, che occupa soltanto le ultime otto pagine (da 53 a 60) dello stampato parlamentare.


Leggendo la Relazione illustrativa (che si dilunga minuziosamente nella descrizione delle criticità del nostro processo civile e degli strumenti per porvi rimedio) ci si attenderebbe di trovare nell’articolato


del ddl non la declinazione di principi e criteri di delegazione legislativa (talvolta formulati in maniera piuttosto generica), bensì la formulazione di un compiuto e organico progetto di legge. Quest’ultimo, però, sembra essere quasi rimasto, se così si può dire … nella penna del proponente!


Una risposta all’interrogativo viene dalle prime righe della Relazione illustrativa, ove il Governo si affretta a chiarire che il disegno di legge non è “farina del suo sacco”, ma è stato elaborato e redatto da una Commissione, presieduta dal dott. Giuseppe Berruti, alla quale era stato conferito il mandato di predisporre proposte di interventi in materia di processo civile. Si dichiara al contempo che neppure la Relazione è f rutto d ell’opus governativa, ma che essa riprende i contenuti del Documento di sintesi sulle fattispecie oggetto di criticità e sulle prioritarie proposte di intervento in materia di processo civile, presentato dalla citata Commissione di studio presieduta dal dott. Berruti (alla quale, d’ora in poi, per comodità faremo riferimento come “Commissione Berruti”).


Se abbiamo correttamente inteso, il testo dei principi di cui qui ci occupiamo è, dunque, il distillato di un documento illustrativo molto più analitico; e l’apparente discrasia tra l’articolato del ddl (recante i principi e criteri di delegazione legislativa) e la Relazione illustrativa può essere colmata ritenendo che – se il Parlamento approverà i suddetti principi e criteri – il Governo vi darà esecuzione sulla base di quanto si legge nella Relazione della Commissione Berruti.


Una bella e trasparente operazione di anticipazione dei contenuti della legislazione delegata, si direbbe, auspicata da tutti gli operatori del processo, ma di cui andrebbe valutata la conformità al dettato dell’art. 76 cost.


Sotto il profilo della legittimità delle norme di delega contenute nel ddl, occorre chiedersi se l’Esecutivo abbia già adeguatamente ponderato la sostenibilità della poco “specifica” formulazione di taluni criteri di delegazione (e della preannunziata attività di “eterointegrazione” dei medesimi con la Relazione illustrativa) in relazione al tema dei rapporti fra legge delega e norma attuativa, avendo la Consulta in più occasioni affermato che il sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa deve essere svolto attraverso “un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli concernenti, rispettivamente, la norma delegante (al fine di individuarne l’esatto contenuto, nel quadro dei principi e criteri direttivi e del contesto in cui questi si collocano, nonché delle ragioni e finalità della medesima) e la norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con i principi e i criteri direttivi della delega” (v., tra le più recenti, le sentenze n. 75 del 2012, n. 293 del 2010, n. 112 del 2008, n. 341, n. 340 e n. 170 del 2007); e che l’esame del vizio di eccesso di delega impone che l’interpretazione dei principi e dei criteri direttivi sia effettuata in riferimento alla ratio della legge delega, tenendo conto del contesto normativo in cui sono inseriti e delle finalità che ispirano complessivamente la delega, ed in particolare i principi e i criteri direttivi specifici, sicché “i principi posti dal legislatore delegante costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma strumenti per l’interpretazione della portata delle stesse” (sentenza n. 96 del 2001).


Soltanto in sede di approvazione definitiva del ddl se ne potrà, comunque, valutare appieno la legittimità costituzionale, e nella successiva sede di attuazione della delega si verificherà se le realizzazioni saranno pari alle ambiziose promesse.


Il testo all’esame reca infatti principi e criteri di delegazione finalizzati ad assicurare, da un lato, l’integrazione della disciplina del Tribunale delle imprese e l’istituzione del Tribunale della famiglia e delle persone (art. 1, comma 1, rispettivamente sub lett. a) e b); e, dall’altro lato, il “riassetto formale e sostanziale del codice di procedura civile e della correlata legislazione speciale”, in funzione dei sempre declamati obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile (art. 1, comma 2, del ddl).


Per ragioni di brevità, limiteremo le presenti riflessioni alle proposte di riforma del processo di ordinaria cognizione.



  1. - Quanto al processo di ordinaria cognizione, la Relazione illustrativa individua i due principali obiettivi della delega legislativa: a) nella comprensibilità del processo (che, nella Relazione illustrativa assurge a presupposto della sua eticità), nel senso che “le parti debbono sapere chi, almeno in astratto e con una sensata prognosi, vincerà o perderà” (così a pagina 2 dell’AC 2593, cit.); e b) nella speditezza, nel senso che il processo, in tempi prevedibili, “deve risolvere una lite in atto con una decisione attuale e non con l’epitaffio di una lite che non c’è più”.


La realizzazione di questi due obiettivi rimette al centro del sistema “la professionalità più assoluta e più controllabile dei protagonisti”, come a dire che devono essere anzitutto i giudici a farsi carico di studiare la causa da ben prima che essa vada a sentenza, scansando accuratamente “la tecnica della giurisprudenza difensiva, e, pertanto, la ricerca della soluzione puramente processuale”.


I principi di delega sponsorizzano “la semplicità, la concentrazione e l’effettività della tutela, al fine di garantire la ragionevole durata del processo”, con particolare riguardo alla fase della trattazione e della rimessione in decisione, e lo strumento principale messo in campo dal ddl per far sì che il giudice si relazioni concretamente con la causa prima che essa vada in decisione è rappresentato dalla rimodulazione dei termini processuali, nonché


del rapporto tra la trattazione scritta e la trattazione orale” (art. 1, comma 2, lett. a2), del ddl).


Nella Relazione si legge che il meccanismo sul quale si punta per garantire maggiore concentrazione ed effettività della tutela consiste nell’anticipazione, rispetto all’udienza di trattazione della causa, dei termini per il deposito degli atti defensionali recanti la definitiva formulazione del thema decidendum e del thema probandum, se del caso assegnando termini sfalsati a vantaggio delle diverse parti del processo, e così ribaltando l’attuale scansione prevista dall’art. 183, comma 6, c.p.c.


Si può senz’altro concordare con la Commissione Berruti e con il Governo che il vigente percorso processuale, che conduce al consolidamento delle attività allegative e probatorie svolte dalle parti, sia tortuoso ed a tratti inutile (perché puntellato da tempi autenticamente “morti”). Sono effettivamente pochi i casi in cui all’udienza di trattazione il giudice abbia preventivamente studiato l’incartamento processuale e sia già in condizione di effettuare le verifiche preliminari (con la sola eccezione di quella avente ad oggetto la validità della notifica dell’atto introduttivo se il convenuto non si è costituito, verificabile all’istante), di formulare una proposta transattiva (o soltanto di sondare il terreno per valutare la percorribilità della soluzione bonaria della lite), e di sottoporre al contraddittorio processuale questioni rilevabili d’ufficio.


Il tutto sovente si risolve nell’assegnazione dei termini per il deposito delle memorie ex art. 183, comma 6, c.p.c., quando non addirittura nel rinvio della trattazione “nello stato” ovvero “per i medesimi incombenti” (tanto per adoperare lemmi ben noti a chi ha pratica del processo). Il che può accadere (nelle più nobili ipotesi) quando l’attore chiede di poter valutare le difese del convenuto, tardivamente costituitosi, ai fini della formulazione di attività allegative consequenziali; e (nelle ipotesi meno nobili) quando le parti sollevano difficoltà di vario genere (più o meno strumentali) e chiedono il rinvio, oppure quando il giudice dell’udienza interviene in sostituzione del titolare del fascicolo.


Tutto ciò senza contare le variabili processuali non prevedibili, tanto più “in agguato” quanto maggiore è il numero di parti del processo, spesso determinate dall’allargamento del contraddittorio mercé la chiamata in causa o l’intervento di terzi, specie se effettuata per integrare il contraddittorio. Eventi, questi ultimi, che potrebbero costringere (e che in concreto sovente costringono) il processo a tornare ogni volta sui suoi passi, come in un interminabile gioco dell’oca.


Ma siamo davvero certi che la “panacea” dei mali causati dai ritardi che affliggono la fase di trattazione (o anche soltanto un serio contributo alla soluzione del problema) possa essere l’anticipazione dei termini per il deposito delle memorie, fissati direttamente dalla legge in vista dell’udienza di trattazione?


Avrei qualche dubbio al riguardo.


Nella maggior parte dei casi, oggi accade che, in occasione dell’udienza ex art. 183 c.p.c., il giudice assegna i termini per il deposito delle memorie previste dal comma 6, e fissa una successiva udienza per l’esame delle richieste istruttorie (udienza sicuramente “spuria”, se si ha riguardo all’ordito sistematico del codice e che non è, diversamente da quanto parrebbe leggersi nella Relazione illustrativa, l’udienza per l’assunzione dei mezzi di prova ex art. 184 c.p.c.).


Nulla impedirebbe al giudice di valutare il contenuto delle memorie prima di quest’ultima udienza e di effettuare le verifiche preliminari ed ammettere i mezzi di prova (o rinviare per la precisazione delle conclusioni) direttamente all’esito dell’udienza, nel corso della quale potrebbe altresì formulare una proposta transattiva.


Così come, più a monte, nulla impedirebbe al giudice, anziché di fissare un’udienza successiva alla trattazione, di assegnare i termini ex art. 183, comma 6, c.p.c., al contempo riservando ogni provvedimento finalizzato alla prosecuzione del giudizio.


Se così stanno le cose, non sarei del tutto certo che l’anticipazione dei termini per il deposito delle memorie possa servire, come si legge nella Relazione illustrativa, a “eliminare quasi con un tratto di penna” l’udienza per l’esame delle richieste istruttorie, successiva alla prima udienza di trattazione.


Tutto ciò senza neppure considerare gli effetti che il nuovo sistema produrrebbe in relazione all’ipotesi della chiamata in causa di un terzo ad istanza di parte, da proporsi a pena di decadenza con la comparsa di risposta (ovvero, se effettuata dall’attore in conseguenza delle difese del convenuto, direttamente all’udienza di trattazione). Poiché la chiamata di terzo è soggetta ad autorizzazione del giudice (il quale deve fissare una nuova udienza per mettere il terzo in condizioni di difendersi), il vigente assetto della fase introduttiva consente che la trattazione scritta si svolga quando il contraddittorio si è già instaurato nei riguardi di tutte le parti, compreso il terzo chiamato.


L’integrale anticipazione delle difese scritte alla fase che precede l’udienza di trattazione potrebbe rappresentare, nell’ipotesi di chiamate in causa, un momento di regressione del processo e uno strumento di abuso per la parte che intendesse ritardare i tempi della decisione.


Certo, un complesso di nuove e più “stringenti” norme potrebbe sortire l’effetto migliorativo di indurre il giudice a organizzare i suoi tempi di lavoro in modo da arrivare, quando possibile, all’udienza di trattazione già preparato a effettuare le verifiche preliminari, a formulare una proposta transattiva, e, se del caso, ad ammettere i mezzi di prova o rinviare per la precisazione delle conclusioni.


Ma al di là di questo effetto “persuasivo” (o “dissuasivo”, a seconda dei punti di vista), è da ritenersi che l’anticipazione delle preclusioni assertive e probatorie non sia tale da assicurare di per sé il raggiungimento dell’obiettivo sperato, per la semplice ragione che essa non incide sul ruolo del giudice, alleviando il numero delle cause ivi pendenti.


Il risultato della riforma potrebbe essere perciò che, all’udienza ex art. 183 c.p.c., il giudice − anche al netto di eventuali “incidenti” processuali, per lo più rivenienti dall’estensione del contraddittorio − rinvierà egualmente ad altra udienza, senza prendere alcun provvedimento, e magari assegnando (se del caso su richiesta delle parti) termini per il deposito di note.


Nell’ipotesi in cui, poi, il giudice, all’esito delle verifiche preliminari, disponga l’integrazione del contraddittorio, la rinnovazione o l’integrazione della domanda, ovvero ritenga di sottoporre al contraddittorio tra le parti questioni rilevabili d’ufficio, sarà giocoforza che si fissino ulteriori termini per lo svolgimento delle conseguenti attività difensive e per lo scambio di nuove memorie, laddove il vigente sistema consente che, sia pure non con riferimento a tutte le citate ipotesi, si utilizzino all’uopo le memorie di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c.


Del resto, anche nel processo del lavoro (che la Relazione illustrativa menziona come esempio virtuoso di modello processuale, in cui il deposito degli atti consolidativi del thema è fissato antecedentemente alla trattazione orale) sovente si registrano meri rinvii dell’udienza di cui all’art. 420 c.p.c., senza che all’esito di quest’ultima sia stato assunto alcun provvedimento in funzione delle prove o della decisione.



  1. – L’art. 1, comma 2, lett. a2) del ddl annunzia altresì una revisione della fase di decisione del giudizio di primo grado. Nella Relazione illustrativa si preconizza (conformemente a quanto si prevede per la fase introduttiva e di trattazione) che lo scambio degli atti difensivi conclusionali avvenga prima, anziché dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni (tornandosi, in sostanza, alla situazione anteriore alla legge n. 353 del 1990, allorché gli atti conclusivi dovevano essere depositati prima dell’udienza collegiale, ma pur sempre dopo la precisazione delle conclusioni davanti all’istruttore).


Ora, in disparte la contraddizione logica che si genera imponendo di “costruire” atti conclusionali in relazione a conclusioni non ancora precisate (e, dunque, per quanto consentito, ancora “mutevoli”), a me non pare che la previsione di anteporre il deposito delle difese finali all’udienza di precisazione delle conclusioni possa essere risolutiva dei tempi “morti” che affliggono la fase della decisione, in specie la fissazione “a lunga gittata” dell’udienza di precisazione delle conclusioni.


Anzi, l’anticipato deposito degli atti conclusivi rischia di risolversi in una doppia e inutile fatica per l’avvocato, le quante volte – a causa del sovraccarico del ruolo del giudice (o anche semplicemente per l’assenza di quest’ultimo) – la causa non venga spedita in decisione.


Probabilmente i meccanismi di accelerazione della fase di decisione andrebbero cercati altrove, valorizzando al massimo grado (se non generalizzando) le modalità di decisione oggi previste per le cause davanti al giudice monocratico, a seguito di trattazione orale (art. 281-sexies c.p.c.), ovvero di trattazione “mista” (art. 281-quinquies, comma 2, c.p.c.), magari prevedendo che il giudice debba, già nell’ordinanza di rinvio per la precisazione delle conclusioni, indicare le modalità di decisione che saranno adottate, senza necessità che sia fissata una successiva udienza per la sola trattazione orale.


Fa bene il legislatore a promuovere in ogni maniera (e in ogni occasione) la cultura del componimento bonario della lite.


Ciò che lascia un po’ perplessi è che il rafforzamento della soluzione conciliativa viene prefigurato dalla Commissione Berruti non come strumento di miglior realizzazione dell’interesse delle parti (le quali – se non ci inganniamo – sono tuttora i titolari del diritto alla tutela di cui parla l’art. 24 cost.), bensì come protezione dall’“incubo” dell’irragionevole durata del processo, che genera sanzioni a carico dell’ordinamento e talvolta dei giudici.


Di tanto si riceve conferma dalla Relazione illustrativa che preconizza “l’obbligatoria proposta conciliativa ex articolo 185-bis del codice di procedura civile in tutti i processi pendenti per i quali vi sia rischio di eccedere i termini di ragionevole durata del processo”.


Davvero difficile immaginare che, astrattamente parlando, il giudice (il quale, ai sensi dell’art. 101, comma 2, cost., è soggetto soltanto alla legge) possa essere “costretto” a formulare in ogni caso la proposta conciliativa.


Più facile, invece, immaginare che i magistrati (soprattutto i più giovani) – sospinti dal senso del dovere e nel timore di andare soggetti a sanzioni disciplinari – si spingano fino a tentare di conciliare l’inconciliabile, formulando altresì valutazioni prognostiche sull’esito della lite, anche laddove la complessità e la controvertibilità dello spettro fattuale prospettato dalle parti impongano che si dia corso a una seria e approfondita discovery processuale.


Alla luce di ciò, più equilibrate appaiono le previsioni contenute nel vigente art. 185-bis c.p.c.: occorre piuttosto augurarsi che esse siano applicate un po’ più spesso.



  1. – Sebbene non c’entrino nulla con la ragionevole durata del processo (ma possano in molti casi servire, a mio avviso, a implementare l‘effettività della tutela), sono da condividersi le previsioni di cui agli artt. 1, comma 2, lett. a3), e 1, comma 2, lett. b6), del ddl, che impongono di introdurre la “immediata provvisoria efficacia” di tutte le sentenze di primo e di secondo grado.


In sede di esecuzione della delega (ovvero in sede di emendamenti al ddl di delega), tale principio dovrà essere assai probabilmente precisato, nel senso di renderlo funzionale (non tanto alle decisioni di mero accertamento o costitutive, per le quali il passaggio in giudicato è il logico precipitato della certezza giuridica a cui esse naturalmente ambiscono, bensì alle pronunzie di condanna sorrette da capi di decisione aventi natura “costitutiva”, tutte le volte in cui – stando agli insegnamenti del diritto vivente – esse dipendano dall’effetto costitutivo (si pensi alla condanna alla restituzione conseguente alla revocatoria fallimentare), e non quando siano a tale effetto legate da un nesso sinallagmatico, ponendosi come parte, talvolta “corrispettiva”, del rapporto giuridico controverso ed oggetto della domanda costitutiva (si pensi, a quest’ultimo riguardo, alla decisione ex art. 2932 c.c. che tiene luogo del contratto definitivo di compravendita e alle connesse statuizioni, tra loro in evidente correlazione sinallagmatica, di condanna al pagamento del prezzo e alla consegna del bene).



  1. – Particolarmente innovative sono le previsioni del ddl relative al giudizio d’appello.


Va anzitutto salutata con favore “la soppressione della previsione di inammissibilità dell’impugnazione fondata sulla mancanza della ragionevole probabilità del suo accoglimento” (art. 1, comma 2, lett. b4), del d.d.l.), ossia del c.d. “filtro” di cui agli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., che ha sollevato una miriade di dubbi e discordanti interpretazioni, in numero inversamente proporzionale alla numerosità delle applicazioni concrete.


Del pari assai rilevanti sono i principi di delega finalizzati all’introduzione di “criteri di maggior rigore in relazione all’onere dell’appellante di indicare i capi della sentenza che vengono impugnati e di illustrare le modificazioni richieste”, nonché al “rafforzamento del divieto di nuove allegazioni nel giudizio di appello” (art. 1, comma 2, lett. b2-3), del ddl), stante l’esigenza di implementare, da un lato, la specificità delle censure, e, dall’altro lato, il carattere dell’appello tendenzialmente “chiuso” ai nova, ponendolo al riparo da indiscriminati allargamenti dell’intero thema (dovendosi, a mio avviso, intendere il termine “allegazioni” come riferito sia alle attività assertive che a quelle probatorie).


Asseconda tale esigenza il richiamo all’“introduzione di criteri di maggior rigore nella disciplina dell’eccepibilità o rilevabilità, in sede di giudizio di appello, delle questioni pregiudiziali di rito” (art. 1, comma 2, lett. b5), del ddl), con ciò ulteriormente attenuando la valenza che in sede di impugnazione assumono le nullità extraformali non censurate, in linea col diritto vivente che negli anni più recenti ha notevolmente espanso l’area del giudicato implicito sulle questioni preliminari di rito.


Insomma, l’Esecutivo sembra avere puntato molte carte su un giudizio d’appello strutturato in forma realmente impugnatoria, “anche attraverso la codificazione degli orientamenti giurisprudenziali e la tipizzazione dei motivi di gravame” (art. 1, comma 2, lett. b1), del ddl).


Nella Relazione illustrativa si legge che ci si dovrà indirizzare verso una forma d’impugnazione a critica vincolata proponibile unicamente per due motivi: la violazione di norme di diritto sostanziale o processuale e l’errore “manifesto” di valutazione dei fatti. Sarebbe pertanto precluso all’appellante “anche solo di introdurre nuove ragioni o deduzioni in diritto per dimostrare la fondatezza giuridica delle domande e delle eccezioni precedentemente proposte, che non siano già state sottoposte al giudice di primo grado”.


Se, dunque, l’intenzione è quella di trasformare il giudizio d’appello in una sorta di “anticamera” del giudizio di legittimità (ovvero, in linea estrema, in una duplicazione del giudizio di cassazione), forse giova rammentare che l’appello non gode di alcuna copertura costituzionale e che, probabilmente, è venuto il momento di pensare con realismo alla sua soppressione.


L’esperienza ci mostra che le restrizioni del regime preclusivo e l’implementazione delle tecnicalità impugnatorie non dissuadono, se non in minima parte, i contendenti dall’andare fino in fondo, sperimentando (anche a costo di pagare spese sempre più “salate”) ogni grado del processo.


Se, pertanto, non si è in grado di incidere sull’organizzazione delle Corti d’appello, vi è da temere che un’impugnazione ancor più chiusa e selettiva di quella attuale non impedirà quei lunghi (tanto defatiganti, quanto inutili) rinvii pluriannuali dall’udienza di trattazione a quella di precisazione delle conclusioni, aprendo uno iato temporale in cui nulla (ma davvero nulla) accade.



  1. – La delega in materia di giudizio di cassazione è contenuta solo in parte (forse la meno interessante) nell’articolato del ddl (art. 1, comma 2, lett. c)), ove si prevede – fermo rimanendo (almeno a quanto è dato di intendere) il “filtro” preliminare – la revisione della disciplina del giudizio camerale, attraverso l’eliminazione del procedimento di cui all’art. 380- bis c.p.c., nonché la fissazione di un’udienza in camera di consiglio (alla quale sarebbero assegnati i soli ricorsi che, a giudizio del presidente della sezione, appaiono di agevole soluzione), con un contraddittorio tendenzialmente soltanto scritto fra il procuratore generale e gli avvocati delle parti, e con la soppressione della relazione scritta.


Il ddl impone altresì: il rafforzamento della funzione nomofilattica della Suprema Corte (che – come si legge condivisibilmente nella Relazione illustrativa – “consenta la formazione di un vero diritto vivente a direzione relativamente costante e accettabilmente prevedibile”); l’adozione di modelli sintetici di motivazione dei provvedimenti, se del caso mediante rinvio a precedenti; una più razionale utilizzazione dei magistrati addetti all’ufficio del massimario, con la possibilità di applicarli ai collegi giudicanti.


Ma è nella Relazione illustrativa che si colgono (ancorché disancorate da specifici criteri di delegazione legislativa) le modifiche più incisive al giudizio di cassazione, finalmente – era ora dopo tanti anni di pervicace rafforzamento delle inammissibilità! – più dalla parte dello jus litigatoris che dello jus constitutionis.


Se ne segnalano in particolare tre: l’estensione (in linea coi più recenti arresti delle sezioni unite) del sindacato sulla motivazione alla “grave e insanabile contraddittorietà o insufficienza”; l’attenuazione del principio di auto-sufficienza del ricorso, con la precisazione che il requisito di cui al n. 6 dell’art. 366, comma 1, c.p.c. è rispettato anche attraverso la “localizzazione” del documento nei fascicoli di merito, senza che il suo contenuto debba essere integralmente trascritto nel ricorso; last but not least, la riscrittura (e, noi auspichiamo, l’abrogazione) del n. 2 dell’art. 360-bis c.p.c. (che prevede l’inammissibilità del motivo di ricorso “quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del giusto processo”): un autentico “rompicapo”, fonte di divergenti e mai sopiti dubbi interpretativi.


Fin qui il catalogo delle buone intenzioni, che gli addetti ai lavori non possono che accogliere con favore.


A voler restare, però, più concretamente dalla parte dello jus litigatoris, non ci si può esimere dal rilevare che le criticità dell’attuale giudizio davanti alla Suprema Corte sono, in qualche caso, più serie di quanto dalla lettura della Relazione illustrativa (che sul punto non è certo “dolce di sale”) si possa arguire.


Se è vero, infatti, che in alcuni casi (penso, ad esempio, alla terza sezione civile) i tempi di definizione del giudizio si sono sensibilmente ridotti (addirittura entro i due anni con la fissazione dell’udienza pubblica), è anche vero che in altri casi (penso, ad esempio, alla sezione tributaria) vi sono ricorsi che giacciono dimenticati negli archivi del “palazzaccio” anche da più di cinque anni.


La Relazione illustrativa propone “che la formazione dei ruoli venga effettuata non tanto e non solo in considerazione dell’anzianità della cause, ma della loro rilevanza economica, sociale e comunque nomofilattica, per evitare che nell’attesa si consolidino correnti giurisprudenziali inutilmente costose”.


Ciò vuol dire che chi aspetta da cinque anni ed oltre che la Suprema Corte decida il suo ricorso (specie se avente una modesta consistenza economica) dovrà probabilmente attendere ancora qualche anno.



  1. – I ritardi della giustizia civile non si risolvono introducendo preclusioni sempre più restrittive, che affliggono le parti e i loro patroni.


Soprattutto non si risolvono a costo zero.


Occorre anzitutto recuperare energie giudiziarie, sopprimendo gradi di giudizio inutili e assumendo un numero maggiore di magistrati.


Svolgere le funzioni di magistrato non è semplice: occorre al contempo rafforzare la capacità formativa delle facoltà giuridiche, stabilizzandone il legame con la realtà e con le esigenze delle professioni forensi.


Occorre, altresì, istituire l’Ufficio del giudice, strumento in grado di accrescere realmente la produttività del magistrato e di offrire ai migliori laureati delle nostre università l’opportunità di formarsi meglio e più rapidamente non solo per superare il concorso in magistratura, ma anche per lo svolgimento del difficile “mestiere” di dirigere un processo e di giudicare.


L’affinamento normativo delle tecnicalità processuali, se disgiunto dalle opportune modifiche dell’ordinamento giudiziario (e dai necessari investimenti economici), rischia di risolversi – foscolianamente parlando – nell’ineffabile “calore di fiamma lontana”.

Autore
Francesco De Santis
Professore ordinario di Diritto processuale civile all’Università di Salerno

Svolgere le funzioni di magistrato non è semplice: occorre al contempo rafforzare la capacità formativa delle facoltà giuridiche, stabilizzandone il legame con la realtà e con le esigenze delle professioni forensi Francesco De Santis