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La rilevanza penale del fenomeno migratorio tra prassi operative e indirizzi interpretativi

di Sebastiano Fabio Di Giacomo Barbagallo - 29 maggio 2017

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Il tentativo di effettuare una riflessione compiuta sul tema dell’immigrazione impone all’operatore del settore che si avvale di un punto di osservazione purtroppo privilegiato di confrontarsi, anche criticamente, con quegli indirizzi interpretativi che, affermatisi via via nella prassi applicativa, hanno di recente ricevuto positivo riscontro sia nella giurisprudenza di merito che in sede di legittimità, lì dove – trattando principalmente della fattispecie di reato sanzionata dall’art. 12 del d.lgs. n. 286/1998 – deve ritenersi progressivamente consolidato un orientamento favorevole, rispettivamente, al riconoscimento dello status di testimone – e, non invece, di indagato di reato connesso – in capo al c.d. migrante trasportato che rende dichiarazioni riguardanti la responsabilità penale del c.d. scafista e della giurisdizione, altresì, dello Stato italiano sia per il reato anzidetto che per tutti gli altri tragici fatti che, non occasionalmente, ai quei medesimi accadimenti si accompagnano.


Al riguardo, in via di premessa è bene osservare che – a differenza di quanto accadeva sistematicamente sino a circa tre anni addietro, allorquando i natanti carichi di migranti tentavano di approdare direttamente sulle coste italiane – la tecnica adesso consolidata postula l’utilizzo, per la traversata, di imbarcazioni del tutto inadeguate allo scopo, reperite da organizzazioni criminali che operano nel paese di provenienza – che, per quanto attiene la c.d. rotta italiana, si identifica, al momento, quasi esclusivamente nella Libia (ma, in passato, anche nell’Egitto) – le quali, stipate all’inverosimile di migranti di tutte le età, vengono sistematicamente soccorse, ove prima non incorrano in eventi tragici, da natanti che incrociano appena oltre i limiti delle relative acque territoriali (scarrocciandovi, talvolta, financo dentro a causa delle cattive condizioni del mare).


Ed è proprio il patrimonio di conoscenze acquisito negli anni che, sul versante giudiziario ha, a sua volta, consentito il consolidarsi di un indirizzo interpretativo che radica la giurisdizione del giudice italiano nonostante l’imbarcazione sia usualmente soccorsa in acque internazionali e i migranti, così recuperati, facciano, poi, ingresso nelle acque territoriali – e, da lì, condotti sino al punto di approdo – per effetto, proprio, dell’intervento dei soccorritori o di coloro che a questi siano, poi, subentrati su disposizioni degli organi centrali di raccordo e coordinamento.


In precedenza, infatti, si rilevava nella giurisprudenza di legittimità che, agli effetti della legge penale, non poteva considerarsi commesso, neanche in parte, nel territorio dello Stato il reato di favoreggiamento dell’immigrazione illegale di cittadini extracomunitari previsto dall’art. 12, comma primo e terzo, del d.lgs. n. 286 del 1998, così come modificato dall’art. 11 della legge n. 189 del 2002, allorché la scoperta del “carico umano” fosse avvenuta in acque internazionali, giacché – in tale eventualità – le persone trasportate, dal momento della scoperta, cessavano di trovarsi nella disponibilità di fatto di coloro che del loro trasbordo si stavano occupando.


Nello specifico, si osservava in proposito che la rilevanza dell’evento, agli effetti della legge penale e quindi anche dell’art. 6 del codice penale, presuppone che la consumazione del reato dipenda da quel dato accadimento, naturalisticamente inteso: ne deriva che, quando è incriminata – per la sua attitudine a esporre a pericolo l’interesse protetto – una condotta rivolta a realizzare un determinato risultato (nel caso che ci occupa: «atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente»), l’illecito è con ciò perfetto, sicché l’eventuale conseguimento dello scopo diviene indifferente, essendo la tutela anticipata al momento dell’azione.


In applicazione di tali principi, pertanto, non poteva considerarsi consumato nel territorio dello Stato un comportamento come tale incriminato, anche se nel detto territorio se ne fossero verificate le conseguenze. Il metodo, per contro, utilizzato – in via . esclusiva, lo si ribadisce – quantomeno a decorrere dall’estate dell’anno 2013, consente, nella grande maggioranza dei casi, di radicare la giurisdizione nazionale, giacché il trasporto dei migranti – avvenuto a bordo di una imbarcazione priva di bandiera e, quindi, non appartenente ad alcuno Stato secondo la previsione dell’art. 110 della Convenzione di Montego Bay delle Nazioni Unite sul diritto del mare – viene accertato in acque extraterritoriali ma, successivamente, nelle acque interne e sul territorio nazionale si verificano, quale evento del reato, l’ingresso e lo sbarco dei cittadini extracomunitari in conseguenza dell’intervento dei soccorritori: «quale esito previsto e voluto a causa delle condizioni del natante, dell’eccessivo carico e delle condizioni del mare».


Tali conclusioni possono, quindi, ritenersi, allo stato, del tutto consolidate nella giurisprudenza sia di merito che di legittimità, lì dove si rileva sistematicamente che: «lo sbarco sul territorio italiano« risulta «callidamente programmato e realizzato dagli organizzatori inducendo una situazione di grave pericolo per la vita dei migranti, abbandonati in alto mare su un’imbarcazione di dimensioni e struttura inadeguate per proseguire la navigazione», fatto questo «che impone – ogni volta – un immediato intervento di soccorso del Paese costiero più vicino, per l’appunto l’Italia».


Fatte tali premesse deve, adesso, trattarsi, dello status da riconoscere ai migranti trasportati, onde verificare se – tenuto conto della permanente vigenza del reato di cui all’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 – i soggetti che, all’atto dello sbarco, sono chiamati a rendere dichiarazioni riguardo alla reità degli eventuali c.d. scafisti possano essere legittimamente assunti a sommarie informazioni testimoniali dalla P.G. o se, invece, debbano essere loro riconosciute la condizione e le garanzie proprie del soggetto indagato di reato collegato.


Sul punto, si rileva che – nella prassi operativa e, poi, anche nella giurisprudenza – a un primo indirizzo interpretativo favorevole al riconoscimento di quest’ultimo status ne è poi subentrato, da poco più di un anno, uno opposto che, traendo le mosse dalla natura contravvenzionale del reato di cui all’art. 10- bis cit. – e, con ciò, della radicale inconfigurabilità della fattispecie tentata – esclude la stessa prospettabilità astratta del reato in ragione dell'interruzione della condotta in acque internazionali e, per l’effetto, della perdita, a decorrere dal quel frangente, del dominio concreto sugli accadimenti.


Il medesimo presupposto, pertanto, segnatamente costituito dall’intervento dei soccorritori, viene valorizzato per pervenire a conclusioni differenti allorquando si tratta della posizione dei c.d. "scafisti" – avuto riguardo ai quali la giurisdizione viene affermata proprio per averne essi stessi precostituito, in ipotesi, le relative condizioni – ovvero di quella dei migranti trasportati, non indagabili per il reato di cui all’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (“ingresso illegale nel territorio dello Stato”) perche, in pari ipotesi, definitivamente consumato in un momento in cui gli stessi, recuperati in acque internazionali, avevano smesso di partecipare deliberatamente alla relativa condotta.


Tale interpretazione del contesto normativo e necessariamente – si avrà modo di meglio precisarlo – anche fattuale di riferimento ha, poi, trovato riscontro in sede di legittimità e, sia pure incidentalmente, financo in una recente pronuncia delle S.U. della Corte di Cassazioneche – dopo avere risolto positivamente la questione principale oggetto della rimessione, concernente l’ammissibilità del ricorso – hanno trattato il merito della vicenda, soffermandosi sulla inutilizzabilità, espressamente dedotta dal ricorrente, delle dichiarazioni rese dai migranti e acquisite dalla P.G. «senza il rispetto delle garanzie prescritte dall’art. 64 cod. proc. pen.», rilevando, all’uopo, testualmente, che: «in realtà le dichiarazioni dei migranti trasportati ben possono essere valutate alla stregua di dichiarazioni testimoniali, non potendo nei loro confronti configurarsi il reato di cui all’art. 10-bis d.lgs. n. 286 del 1998 (con conseguente necessità di riscontri alle dichiarazioni).


Si tratta, infatti, di soggetti che sono stati soccorsi in acque internazionali e legittimamente trasportati sul territorio nazionale per necessità di pubblico soccorso. Non possono, dunque, essere considerati migranti entrati illegalmente nel territorio dello Stato per fatto proprio e l’ipotesi contravvenzionale non consente di configurare il tentativo d’ingresso illegale.


Non può, d’altro canto, ipotizzarsi che il pericolo di vita cui era conseguita l’azione di salvataggio che ne aveva comportato l’ingresso e la permanenza per motivi umanitari nel territorio dello Stato fosse stato evenienza dagli stessi prevista ed artatamente creata». Quest’ultima precisazione, tuttavia, postula un riferimento – invero anodino – a un dato fattuale che andrebbe, invece, di volta in volta accertato.


È evidente, infatti, che per addivenire a tali conclusioni è, comunque, necessario ritenere che il ricorso all’azione di salvataggio appena fuori delle acque territoriali libiche sia per i migranti – nell’atto stesso in cui decidono di intraprendere il percorso che dalle loro terre di origine li conduce in Europa – un fatto del tutto imprevedibile, giacché, in caso contrario, dovrebbe agli stessi estendersi il principio secondo cui alla consapevole partecipazione al viaggio – pagato a caro prezzo, patrimoniale e anche morale, e affrontato nelle condizioni che, di fatto, determinano, da circa tre anni, la natura pressoché obbligata dell’evento-soccorso – consegue l’imputazione, alle rispettive volontà anche delle fasi a questo successive, ivi compreso l’ingresso illegale nel territorio dello Stato. è ovvio, poi, che tale valutazione, lungi dal prestarsi a una soluzione precostituita, deve essere effettuata utilizzando, di volta in volta, tutti gli elementi idonei a ricostruire il patrimonio di conoscenze di cui il migrante trasportato disponeva nel frangente in cui lo stesso ha assunto la determinazione di rivolgersi agli organizzatori della traversata, giacché – nonostante sia indubitabile che, a decorrere da quell’istante viene progressivamente limitato, sino ad essere addirittura escluso, il diritto di interagire in ordine alle concrete modalità del viaggio – è proprio quello il momento in cui l’eventuale consapevolezza delle oramai consolidate modalità esecutive impone di ricondurre la scelta anche e comunque alla libera espressione della volontà del medesimo.


A fronte di ciò, non è superfluo aggiungere che l’opzione interpretativa tesa ad attribuire, incondizionatamente, a tutti i migranti lo status di testimone escludendo già in astratto la configurabilità del reato di cui all’art. 10-bis cit. ogni qual volta l’ingresso sul territorio nazionale avvenga per effetto del soccorso prestato in alto mare in esecuzione di missioni internazionali universalmente conosciute – e, cioè, nell’attuale contingenza storica, avuto riguardo al fenomeno migratorio nel suo complesso – finisce, di fatto, per addivenire a una sostanziale depenalizzazione, per via giudiziaria, del reato anzidetto, ciò nonostante il Governo abbia, invece, di recente espressamente rinunciato all’esercizio della delega specificatamente conferitagli.


Si tratta, quindi, di accertare – seguendo un paradigma interpretativo analogo a quello che governa il tema delle c.d. actiones liberae in causa – se, nel frangente in cui la volontà era ancora in grado di estrinsecarsi liberamente, il migrante abbia deciso di mettersi in viaggio alla volta dell’Europa conoscendone e, così, accettandone le condizioni esecutive e la necessità di tale accertamento non può essere elusa con argomentazioni che appaiono, di fatto, ispirarsi a ragioni di carattere eminentemente umanitario, giacché, così facendo, l’interprete da un lato si sostituisce inammissibilmente al legislatore e, dall’altro, incide profondamente su importanti garanzie processuali, sino a escludere – in una materia che, anche umanamente, è spesso molto più complessa da come appare – la necessità di un adeguato riscontro delle dichiarazioni anzidette giacché qualificate come meramente testimoniali.


Perplessità non inferiori destano, parimenti, le elaborazioni giurisprudenziali che riconoscono, di fatto incondizionatamente, la giurisdizione dello Stato italiano per tutti gli ulteriori fatti di reato – variamente qualificati (omicidio, omicidio colposo, naufragio, morte come conseguenza di altro reato) – commessi in acque internazionali – o, addirittura, in quelle territoriali del paese di provenienza – in un momento che, di solito, precede significativamente l’esecuzione della medesima azione di salvataggio. Si è ritenuto, infatti, anche ai massimi livelli interpretativi, che la giurisdizione in tali evenienze sussiste perché opera, al riguardo, il principio generale di cui all’art. 7, n. 5, c.p., così come, nello specifico, integrato: «dall’art. 15, comma 2, lett. c), che rinvia all’art. 5, paragrafo 1, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, sottoscritta a Palermo il 12- 15/12/2000 e ratificata dall’Italia con la L. 16 marzo 2006, n. 146».


E tuttavia, l’art. 15 della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001, prevede, a proposito della giurisdizione, che: «1. Ogni Stato Parte adotta le misure necessarie per determinare la sua giurisdizione relativamente ai reati di cui agli articoli 5, 6 8 e 23 della presente Convenzione, quando: a) il reato è stato commesso sul suo territorio; oppure b) il reato è stato commesso a bordo di una nave che batte la sua bandiera, o di un velivolo immatricolato conformemente al suo diritto interno al momento della perpetrazione del reato. 2. Fatto salvo quanto disposto dall’articolo 4 della presente Convenzione, uno Stato Parte può altresì dichiarare la sua giurisdizione in relazione a tali reati quando: a) il reato è stato commesso ai danni di un suo cittadino; b) il reato è stato commesso da uno dei suoi cittadini o da una persona apolide che risiede stabilmente sul suo territorio; oppure c) il reato è: i) uno fra quelli stabiliti ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, della presente Convenzione ed è stato commesso al di fuori del suo territorio in vista di commettere un grave reato sul suo territorio; ii) uno fra quelli stabiliti ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, b) (ii), della presente Convenzione ed è commesso al di fuori del suo territorio in vista di commettere un reato stabilito ai sensi dell’ articolo 6, paragrafo 1 a) (i) o (ii) o b) (i) della presente Convenzione sul suo territorio».


Ne deriva la necessità di distinguere l’adozione delle misure necessarie a radicare – con la ratifica – la giurisdizione di ciascuno degli Stati Parte «relativamente ai reati di cui agli articoli 5, 6, 8 e 23 della presente Convenzione, quando:


a) il reato è stato commesso sul suo territorio; oppure b) il reato è stato commesso a bordo di una nave che batte la sua bandiera, o di un velivolo immatricolato conformemente al suo diritto interno al momento della perpetrazione del reato», dalla mera facoltà di ciascuno Stato Parte – per i casi previsti dal comma secondo dell’art. 15 – di «dichiarare la sua giurisdizione in relazione a tali reati (cioè, a quelli transnazionali di cui all’art. 5 della Convenzione) quando – per ciò che in questa sede interessa – c) Il reato è: i) uno fra quelli stabiliti ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, della presente Convenzione ed è stato commesso al di fuori dei suo territorio in vista di commettere un grave reato sul suo territorio», che l’Italia, allo stato, non risulta invece avere esercitato con la legge 16 marzo 2006, n.146, di «ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001».


Né tale facoltà può ritenersi, sic et simpliciter, esercitata in forza della mera definizione di reato transnazionale di cui all’art. 3 della legge di ratifica citata che, testualmente, ripropone il contenuto dell’«ambito di applicazione» previsto dall’art. 3 della Convenzione medesima («1. La presente Convenzione si applica, salvo disposizione contraria, alla prevenzione, investigazione ed all’esercizio dell’azione penale per: a) I reati stabiliti ai sensi degli articoli 5, 6, 8 e 23 della presente Convenzione; e b) I reati gravi, come da art. 2 della presente Convenzione; laddove i reati sono di natura transnazionale e vedono coinvolto un gruppo criminale organizzato.


2. Ai fini del paragrafo 1 del presente articolo, un reato è di natura transnazionale se: a) è commesso in più di uno Stato; b) è commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avviene in un altro Stato; c) è commesso in uno Stato, ma in esso è implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; o d) è commesso in uno Stato ma ha effetti sostanziali in un altro Stato»).


Analoghi dubbi, perché privo di qualsivoglia aggancio al dato normativo, suscita il riferimento – contenuto nella sentenza n. 25613/16 della Prima Sezione Penale – alla “naturale” estensione della giurisdizione del giudice italiano – una volta che questa è stata riconosciuta per il reato di cui al d.lgs. n. 286 del 1998, art. 12 – a tutti «i reati commessi contestualmente, oggetto del medesimo procedimento e della medesima misura cautelare», ovvero quello – contenuto nella sentenza n. 3345/2015 del medesimo collegio – secondo cui: “la giurisdizione dell’A.G. italiana sussiste anche con riferimento agli ulteriori reati contestati, in forza della loro stretta connessione con quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, come si è visto parzialmente commesso in territorio italiano, sia pure per il tramite dell’intervento dei soccorritori (cfr. Sez. 1, n. 325 del 20/11/2001 – dep. 08/01/2002, Duka e altri, Rv. 220435)».


Invero, anche tale ultima conclusione, lungi dall’essere motivata con argomentazioni di diritto positivo, sembra essenzialmente fondarsi sul richiamo di un precedente tuttavia affatto sovrapponibile perché riguardante il riconoscimento della giurisdizione per fatti di reato commessi in acque internazionali ma in stretta coincidenza temporale con l’esercizio, da parte di una nave militare italiana, del diritto di inseguimento di cui all’art. 23 della Convenzione sull’alto mare adottata a Ginevra il 23 aprile 1958 e resa esecutiva in Italia con l. 8 dicembre 1961, n. 1638.


Le perplessità, peraltro, aumentano se, poi, si tiene in conto che, nella materia che ci occupa, è per altro verso consolidato un principio di diritto secondo cui il reato commesso all’estero – e, non dovrebbe essere diverso il caso di quello commesso in acque internazionali, per il quale, comunque, esistono e sono codificati dei criteri alternativi di attribuzione della giurisdizione – : «non può rientrare nella giurisdizione del giudice italiano per il solo fatto che sia legato dal vincolo della continuazione con altro reato commesso in Italia, trattandosi di ipotesi non compresa tra quelle che, ai sensi degli artt. da 7 a 10 del cod. pen., comportano deroga al principio di territorialità sul quale si basa la giurisdizione dello Stato italiano». è evidente, infine, ma è appena il caso di rilevarlo e per sola completezza di disamina, che l’affermazione di un principio generale siffatto (quello, cioè, del riconoscimento della giurisdizione per connessione o, peggio, in forza di un mero rapporto di collegamento tra reati), non può, ovviamente, fondarsi sull'applicazione analogica di una disciplina di carattere eccezionale qual è quella che estende la giurisdizione del giudice italiano a tutti i reati connessi, ai sensi dell’art. 12 c.p.p., ai fatti di pirateria previsti dagli artt. 1135 e 1136 del codice della navigazione, qualora commessi nell’ambito delle missioni “Atalanta” e “Ocean Shield” a danno dello Stato o di cittadini o beni italiani, in alto mare o in acque territoriali altrui.


Né può sostenersi che, al diniego di un incondizionato riconoscimento della giurisdizione, consegua – in occasione dei tragici eventi che, purtroppo, si susseguono con allarmante regolarità – un incolmabile vuoto di tutela.


Vengono in rilievo, infatti, reati commessi da cittadini stranieri e in danno di stranieri al di fuori del nostro territorio e, per l’effetto, fattispecie per le quali lo Stato di appartenenza dell’indagato potrebbe rivendicare la propria giurisdizione, la cui procedibilità pertanto – trovandosi l’indagato sul territorio nazionale (e solitamente gravato dal vincolo cautelare per il reato di cui all’art. 12 cit.) – postula una valutazione eminentemente politica di opportunità sull’utilità dell’azione penale che l’ordinamento penale rimette al Ministro della Giustizia in base al «principio generale» (così si esprime C. cost. n. 142 del 1973) che esso Ministro rappresenta: «l’organo tecnicamente qualificato e politicamente idoneo a presiedere alle relazioni tra il Governo e l’Amministrazione della giustizia, esplicando a tal fine il potere di dare o rifiutare le autorizzazioni a procedere, nonché di fare istanza e richiesta di procedimento nei casi previsti dalla legge».


Ed il fatto che l’esigenza di tale valutazione rimessa a organi non giurisdizionali – al pari di quella concernente la depenalizzazione o meno del reato di immigrazione clandestina – venga, ancora una volta, superata in via interpretativa evoca il dubbio che – a fronte delle indubbie suggestioni derivanti dai tragici fatti che si susseguono, oramai, con cadenza quasi giornaliera – si sintetizzino eccessivamente i termini, invece necessariamente complessi, con i quali il fenomeno si presta a essere compreso, sino a sviluppare, nella materia de qua, un approccio di tipo eminentemente sostanzialistico cifra autentica di un’opzione ideologica che – muovendo, essenzialmente, dalla necessità di colmare ogni ipotetico vuoto di tutela – tende a consolidare prassi operative la cui compatibilità con le regole ordinamentali deve, per contro, essere revocata in dubbio.


Ciò senza considerare l’esigenza – parimenti equitativa e, ciò nonostante, del tutto trascurata dagli operatori del settore – di profondere quantomeno un analogo sforzo interpretativo per rimediare alle conseguenze che tale approccio, fortemente penalizzante, produce in capo agli “ultimi tra gli ultimi” e, cioè, a coloro che, spesso minorenni o appena maggiorenni, benché formalmente “scafisti” (nel senso più turpe che il vocabolo ha assunto nell’immaginario collettivo), si differenziano, invece, dai meri migranti (testimoni e non indagati) per il solo fatto di essersi prestati a collaborare alla fase esecutiva della traversata, esponendosi così personalmente a tutti i relativi rischi, usualmente sol perché impossibilitati a pagarne il prezzo preteso dagli organizzatori (che, per contro, lucrando incessantemente su tali traffici, hanno – ovviamente – tutto l’interesse a rimanere nelle loro terre di origine).

Autore
Sebastiano Fabio Di Giacomo Barbagallo
Giudice del Tribunale di Catania

Il tentativo di effettuare una riflessione compiuta sul tema dell’immigrazione impone all’operatore del settore che si avvale di un punto di osservazione purtroppo privilegiato di confrontarsi, anche criticamente, con quegli indirizzi interpretativi che, affermatisi via via nella prassi applicativa, hanno di recente ricevuto positivo riscontro sia nella giurisprudenza di merito che in sede di legittimità. Sebastiano Fabio Di Giacomo Barbagallo