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Il carcere al tempo della crisi

di Antonietta Fiorillo - 11 giugno 2014

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Perché si dilata progressivamente l’area dei sistemi penali dei vari paesi e si sceglie sempre più la pena detentiva, nonostante si affermi con costanza che questa deve essere l’ultima ratio?

Perché il nostro Capo dello Stato arriva a denunciare «l’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità delle persone» e aggiunge che si tratta di «una realtà non giustificabile in nome della sicurezza che ne viene più insidiata che garantita»? Perché non si constata che questa alluvione penale, rilegittimando il carcere, rende sempre più vaghi i confini del sistema penale e sempre più frequenti i casi in cui un processo è sempre meno espressione di investigazioni e accertamenti compiuti nel dibattimento e viene da indagini sommarie, svolte dagli organi di polizia: un reato e una pena, quindi, oltre il sistema e un processo che si trasforma in un accertamento di polizia? Perché tutto ciò si risolve con la perdita dei diritti delle persone detenute nel processo e durante la detenzione?


Perché le condizioni delle carceri peggiorano progressivamente, producendo sovraffollamento, a sua volta causa di degrado, così che il lavoro, la scuola e le altre attività che dovrebbero rendere attiva la vita nel carcere non sono più realizzabili? Il riesame della spesa porta ad altre limitazioni, in corso da tempo, delle risorse per le cose più essenziali, comprese quelle che dovrebbero tenere sotto controllo le condizioni igienico-sanitarie delle carceri. I controlli delle attività sanitarie dovrebbero concludersi con un ordine di chiusura. Se gli organi di controllo non lo fanno, è abbastanza prevedibile ciò che può accadere.

Perché questa situazione sta invadendo tutti i paesi dell’occidente più sviluppato e appare collegata con politiche economiche di rigore, le ultime delle quali, risoltesi nella riduzione del personale dirigente delle carceri e di quello educativo e di servizio sociale e nel solo aumento del personale di polizia penitenziaria, consegneranno le carceri a gestioni sempre più di sicurezza che, come dice il Capo della Stato, ne viene «più insidiata che garantita»?

Perché le politiche penitenziarie degli Stati, sempre più disapprovate dagli organi internazionali di controllo, restano le medesime?

Perché, col sovraffollamento, aumentano le ore di permanenza in celle sovraffollate dei detenuti, costretti all’ozio in periodi giornalieri di circa 20 ore? Perché aumentano i suicidi e le morti in cella?

Perché l’Amministrazione penitenziaria, cui è stato dato da attuare, nel 1975, l’Ordinamento penitenziario, sviluppato anche dalla legge Gozzini del 1986, non ha saputo gestirlo in funzione delle finalità costituzionali di quelle leggi, così che oggi la situazione è peggiore di allora?

La criticità della situazione carceraria nel nostro Paese ha raggiunto livelli non più accettabili sia con riguardo al numero delle presenze in rapporto alla capienza non solo regolamentare, ma anche tollerabile (da chi?) come individuata dall’Amministrazione penitenziaria, sia con riguardo alla complessità del sistema in tutti i suoi aspetti di trattamento e di gestione; una situazione che, in linea assolutamente generale, non corrisponde alla finalità rieducativa riconosciuta alla pena dall’art. 27 comma 3 della Costituzione, né garantisce la dignità della persona condannata.
La realtà è che paghiamo l’assenza di una riforma organica della giustizia a partire dal Codice Rocco aggravata dall’emanazione di una legislazione di emergenza che ha pesantemente ridotto i principi del garantismo e dello Stato di diritto. Il carcere odierno è diventato un contenitore del disagio sociale causato dall’assenza di welfare che è stato sostituito con quello che potremo definire prison-fare. Si gestiscono i problemi sociali con lo strumento penale ovviamente senza risolverli sul piano naturale che è quello sociale.
Lo dichiarano i numeri: 62.536 detenuti al 31.12.2013 di cui circa 700 detenuti sottoposti al regime ex art. art. 41-bis e 7.000 in “alta sicurezza”; in sostanza, la gran massa è costituita da tossicodipendenti, stranieri, emarginati, consumatori e/o piccoli spacciatori.
Peraltro, i problemi si conoscono (e forse anche le soluzioni) ma dalla prima riforma penitenziaria del 1975 ad oggi la situazione si è cronicizzata perché alle spinte riformatrici sono stati opposti gli interventi normativi emergenziali di cui sopra sull’onda di spinte securitarie; in passato, il sistema ha retto grazie all’utilizzo dei provvedimenti di amnistia e indulto, 34 dal dopoguerra al 1990; eliminata, però, questa valvola di sfogo con la riforma costituzionale dell’art. 79 che ha previsto la maggioranza qualificata per i provvedimenti indulgenziali, il sovraffollamento non ha più avuto argini. Attraverso il sovraffollamento sempre crescente in questi anni, si è resa, di fatto, impraticabile la via riabilitativa dell’esecuzione della pena e si è strutturato un carcere che può realizzare solo la contenzione fisica, aggiungendo corpi a corpi in un ammasso inevitabilmente anonimo, che nega l’individualizzazione del trattamento su cui si fonda ogni politica penitenziaria risocializzante.
L’eccessiva presenza numerica e la conseguente riduzione degli spazi a disposizione di ciascuno comporta, infatti, la difficoltà della vita quotidiana, rendendo difficile e complessa qualunque azione anche la più semplice, quale l’impossibilità di mangiare insieme e seduti o leggere, scrivere, guardare la televisione in un posto che non sia il letto. E ancora: la promiscuità genera conflittualità e aumenta il rischio di sopraffazione dei più deboli. Contestualmente, l’aumento del carico di lavoro del personale, di polizia penitenziaria, dell’area educativa e del servizio sociale, incide sensibilmente e negativamente sulla conoscenza necessaria che ogni struttura dovrebbe avere dei soggetti che contiene con ciò incidendo sia sull’aspetto del controllo sia su quello dell’approntamento di un piano di trattamento individualizzato come richiesto dall’art. 13 dell’ordinamento penitenziario. Ancora una volta i numeri disvelano la realtà: al 30 agosto 2013 erano presenti 416 unità dell’area dirigenziale, 1.002 funzionari dell’area pedagogica (c.d. educatori), 1.058 operatori sociali, 37.590 appartenenti al corpo di polizia penitenziaria; questi ultimi impegnati anche in compiti diversi e ulteriori quali le traduzioni e la gestione della sicurezza presso le diverse strutture del Ministero della Giustizia.
La conseguenza naturale è che, tranne in quelle situazioni che ancora sono eccezioni, i detenuti trascorrono in cella circa venti ore su ventiquattro.
Tra i tanti aspetti dell’emergenza carcere uno dei più rilevanti riguarda il diritto alla salute. La realtà quotidiana dei nostri istituti produce sofferenza e malattia; in questa prospettiva il passaggio di competenza della sanità al servizio pubblico nel 2008 non ha ancora dispiegato i suoi effetti per la fruizione del bene salute in condizioni di parità tra soggetti ristretti e cittadini liberi.
In verità non si è trattato solo di un pur necessario e opportuno cambio di competenze, ma di un vero e proprio cambio di passo, di una seria riforma di sistema. Ma l’operazione è avvenuta con ritardo e con una visione miope della potenzialità che poteva e può ancora avere la riforma per la stessa qualità della gestione penitenziaria, per la vita dei ristretti e per la sicurezza del sistema.
È bene ricordare che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la salute non è solo assenza di malattia, ma completo ben-essere psicofisico della persona, di ogni persona in un rapporto equilibrato con un ambiente sano o da rendere tale.
Nell’ambiente penitenziario si registrano tutt’ora notevoli difficoltà, alcune oggettive legate al sovraffollamento che accresce il carattere di per sé patogeno, altre soggettive, legate al persistere, nel sistema, di una prevalente indifferenza verso i diritti sociali dei detenuti. Questi primi cinque anni di avvio della riforma hanno posto in evidenza notevoli difficoltà per garantire il diritto costituzionale alla salute a tutti i detenuti perché la riforma non è un provvedimento di routine in quanto propone, promuove ed esige un cambiamento sia del servizio sanitario che dell’ordinamento penitenziario.
Il Servizio sanitario che va in carcere deve mettere fine alla tradizionale pratica dell’attesa e improntare tutte le sue attività alla sanità di iniziativa che non attende semplicemente la domanda di cura da parte dei detenuti, ma attiva una medicina proattiva che previene la malattia, che rende responsabili gli stessi detenuti e il personale penitenziario e affronta la salute come un bene comune che riguarda il complesso dell’istituto penitenziario.
Il sistema penitenziario, a sua volta, deve restituire dignità e responsabilità al detenuto che, attraverso una nuova esperienza dei diritti e dei doveri (soprattutto il lavoro produttivo per tutti, in tutte le possibili condizioni, dentro e fuori del carcere), deve impegnarsi a uscire dalla gabbia del reato e procedere verso un suo reale rientro nella società civile, in sintonia con la legalità.
La qualità di un Servizio sanitario in carcere, che fa proprio il principio della sanità d’iniziativa, è strettamente condizionata alla partecipazione della popolazione detenuta sia alle scelte programmate che all’esecuzione degli interventi. Si tratta di un principio tutt’altro che agevole in un ambiente che limita fortemente la mobilità dei detenuti, anche all’interno degli istituti penitenziari. Dopo un periodo di faticoso assestamento, in verità troppo lungo, il nuovo Servizio sanitario penitenziario può farsi carico del diritto alla salute a condizione che ci sia una piena assunzione di responsabilità da parte delle Istituzioni, in particolare del Ministero della Salute e delle Regioni italiane, tutte.
La riforma della sanità penitenziaria è certamente ancora in mezzo al guado, con difficoltà notevoli da superare, ma non ha alternative se non la sua coerente e adeguata applicazione.
Realizzare il diritto alla salute significa contribuire all’obiettivo civile di avere meno carcere e un carcere migliore, come richiede la Costituzione italiana e le regole Europee.
Ma un discorso sul carcere di oggi non può prescindere da un cenno anche all’edilizia penitenziaria perché, in certo modo, la qualità della vita delle persone si misura anche da dove e come vivono.
Le caratteristiche di quasi tutti gli istituti penitenziari italiani sono simili e prevedono la presenza di padiglioni a più piani con sezioni e camere di detenzione che partono da una rotonda o comunque da un centro verso due direzioni. Gli spazi a disposizione dei ristretti sono le salette per la socialità e i passeggi; in sostanza le caratteristiche strutturali parlano di un sistema detentivo “chiuso” che prevede che i detenuti trascorrano la maggior parte del tempo all’interno delle camere di detenzione (come infatti avviene nella quasi totalità delle realtà).
Una riflessione che sorge immediata è che, in Italia, non si parla mai di architettura del carcere, ma solo di edilizia penitenziaria sia con riguardo alla manutenzione dell’esistente che con riguardo alle nuove realizzazioni.
È pur vero che all’interno del termine edilizia è compreso il progetto più propriamente architettonico, ma non si può nascondere che il “gergo” comunemente utilizzato sta a significare un generale disinteresse per qualunque questione di qualità riferita al carcere, un luogo nel quale prevalgono le questioni della pena, in cui avviene una specie di de-spazializzazione; interessa solo che vi sia un luogo ove si attua la pena; la qualità e le caratteristiche degli spazi in cui ciò avviene non sono oggetto di indagine. Anche il piano carceri predisposto dall’Amministrazione penitenziaria che prevede interventi sull’esistente e realizzazioni ex novo non ha colto l’occasione per provare a riportare lo studio dello spazio e dei luoghi all’interno delle emergenze che si tenta di affrontare. Con riguardo poi alla localizzazione degli istituti già dagli anni Ottanta in poi è cambiato totalmente il rapporto con la città; si è assistito, infatti, all’espulsione fisica delle strutture inizialmente verso le periferie, e poi verso aree il più lontano possibile.
Le conseguenze di queste scelte sono tante per i detenuti come per coloro che in carcere lavorano. Si traducono in maggiori difficoltà di comunicazione, oltre che nella percezione di una più radicale separazione; il rapporto tra città e carcere è infinitamente più lento e complicato a causa della maggiore lontananza dalla rete dei servizi, che possono operare per rendere il carcere meno separato, e dal tessuto associativo che opera per favorire processi di ricucitura sociale e culturale. In questa situazione il carcere accentua il suo ruolo di luogo escludente e scansato. Il contrasto con principi e norme volte a favorire lo stabilirsi di legame con la collettività esterna è palese, una proclamazione di fallimento di modello, non solo del carcere ma delle città.
La crisi del carcere però non è soltanto un problema quantitativo, di metri quadri, ma anche qualitativo, di senso e tempo della pena.
È chiaro che per ottenere risultati adeguati, nel solco di quanto previsto dall’art. 27 della Costituzione, sarebbe necessario un carcere con un numero di presenze legato al diritto penale minimo.
La denuncia, poi, quasi quotidiana del sovraffollamento porta con sé il rischio di consensi velati da ipocrisia: un festival di “buoni sentimenti” con cui si lavano le coscienze ma che rischia di porre sullo stesso piano vittime e carnefici.
Non ci troviamo, infatti, davanti a un fenomeno improvviso, ma alle conseguenze di scelte legislative che hanno prodotto carcerazione oltreché a prassi amministrative pigre e distratte se non ottuse.
E cosa dire infine della riduzione delle risorse economiche; basta esaminare i dati degli ultimi anni: nel 2007 (44.587 detenuti) il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria era di 3.095.506,32 euro; nel 2011 (67.174 detenuti) il bilancio era di 2.766.036,324 euro; come si vede il bilancio è stato ridotto del 10%, ma i tagli non sono stati omogenei; infatti, i costi del personale sono stati tagliati del 5,3%; quelli per gli investimenti (edilizia penitenziaria, acquisizione mezzi di trasporto, macchine, attrezzature...) del 38,6% e quelli per il mantenimento, l’assistenza, la rieducazione e il trasporto dei detenuti del 63,2%. Il dato è di palmare evidenza. In carcere manca tutto e si fa grande fatica ad assicurare i bisogni più elementari dei detenuti.
Su questa situazione il Legislatore è intervenuto da ultimo con il decreto legge 23 dicembre 2013 n. 146 convertito con modifiche in legge 21 febbraio 2014 n. 10 diretto ad affrontare proprio la questione del sovraffollamento e a garantire il pieno esercizio dei diritti fondamentali dei soggetti detenuti.
Certamente rappresenta un tentativo apprezzabile di intervenire sul sovraffollamento con misure temporanee (la vigenza è per un biennio) dirette a incidere sia sui flussi di ingresso negli istituti (v. la nuova disciplina del comma 5 dell’art. 73 d.p.r. 309/90) sia su quelli di uscita dal circuito penitenziario; in tale prospettiva va letta l’estensione della possibilità di accesso all’affidamento in prova al servizio sociale sia ordinario che terapeutico, l’ampliamento a 75 giorni per ciascun semestre di liberazione anticipata in un arco di tempo compreso fra il 1.1.2010 e il 31 dicembre 2015; nonché la definitiva stabilizzazione nell’ordinamento della legge 199/2010 (esecuzione pena presso il domicilio).
Ma ancora una volta si interviene con un provvedimento temporaneo, i cui effetti in termini di riduzione del sovraffollamento sono tutt’altro che certi, date anche le difficoltà interpretative e soprattutto facendo ricadere esclusivamente sui magistrati, in questo caso, di sorveglianza, il peso di un problema che ha radici ben più profonde e richiede soluzioni ben più organiche e strutturali.
Per esemplificare: la giurisdizionalizzazione del procedimento per i reclami ex art. 35 ordinamento penitenziario (comprensiva dell’ottemperanza) e il notevole aumento dei giorni di riduzione della pena, i quali comportano quotidiani provvedimenti di scarcerazione per fine pena, rendono gli attuali organici dei giudici di sorveglianza, già carenti, del tutto inadeguati; e ancor più richiedono che sia adeguato anche il numero degli operatori amministravi, la cui scopertura di organico è già insostenibile; se ciò non sarà valutato e non saranno approntate le misure adeguate il rischio prossimo è che gli uffici non saranno in grado di far fronte alle esecuzioni dei provvedimenti, se non di quelli urgentissimi, con tutto ciò che tale situazione potrà comportare anche in termini di responsabilità.
È stata prevista, poi, la possibilità di applicare il braccialetto, oltreché per la fase cautelare, per la misura alternativa della detenzione domiciliare ex art. 58-quinquies ordinamento penitenziario.
Se e quanto questo meccanismo possa produrre in termini di deflazione delle presenze in carcere è da verificare nei prossimi mesi; sicuramente può rivelarsi un utile strumento per la fase cautelare ove prevale l’elemento del controllo; quanto possa essere funzionale alla fase dell’esecuzione della pena è più difficile da prevedere. Non casualmente lo stesso Ministero della Giustizia, nelle sue comunicazioni, inserisce il braccialetto in una prospettiva di “sicura garanzia in ordine al mantenimento di adeguati standard di controllo istituzionale sugli autori di reato” che non appare coerente con la prospettiva di reinserimento che è sempre sottesa alle misure alternative anche quelle più restrittive come la detenzione domiciliare.
In realtà ciò che rileva in un’ammissione alla detenzione domiciliare non è tanto il rischio che il soggetto evada (come invece per gli arresti domiciliari) quanto che lo stesso non recidivi nel reato; rispetto a questo è tutta, ripeto, da dimostrare la capacità deterrente del braccialetto rispetto all’organizzazione di un serio progetto di vita.
D’altra parte dal punto di vista delle scelte di politica giudiziaria, finché la pena criminale sarà ancora al centro del sistema penale le cose non potranno cambiare in maniera sostanziale. Finché, infatti, vivremo dell’illusione che il carcere possa risolvere tutto o quasi tutto, nonostante le condizioni in cui versa, non faremo alcun passo avanti.
Viceversa è sul versante della differenziazione del sistema sanzionatorio nonché di una decisiva depenalizzazione che appare necessario agire per ottenere risultati definitivi e non solo far fronte, in qualche modo, alle emergenze con interventi contingenti e settoriali i quali hanno chiamato sempre più la magistratura di sorveglianza al “governo” delle carceri che, invece, spetta alla politica e solo alla politica.
È la politica, infatti, che deve riassumere le sue responsabilità consentendo alla magistratura di sorveglianza di recuperare la terzietà a garanzia dei diritti.


 





 





SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO DELL’8 GENNAIO 2013 - CAUSA TORREGGIANI E ALTRI CONTRO ITALIA 
La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha giudicato le condizioni dei detenuti una violazione degli standard minimi di vivibilità che determina una situazione di vita degradante. La sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, pronunciata l’8 gennaio 2013, costituisce una pesante condanna nei confronti dell’Italia e del suo sistema penitenziario. Il caso Torreggiani e altri, sottoposto all’attenzione della Corte nell’agosto del 2009, viene depositato da sette ricorrenti contro lo Stato italiano per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea ovvero la proibizione di trattamenti inumani e degradanti. I ricorrenti si trovano a scontare la propria pena presso gli istituti di detenzione di Busto Arsizio e Piacenza. Dalla descrizione presentata nel ricorso risultava che, essendo ogni cella occupata da tre detenuti, ognuno di loro aveva a propria disposizione meno di tre metri quadrati come proprio spazio personale. La Corte Europea dei diritti dell’Uomo considera che non solo lo spazio vitale indicato non sia conforme alle previsioni minime individuate dalla propria giurisprudenza, ma inoltre che tale situazione detentiva sia aggravata dalle generali condizioni di mancanza di acqua calda per lunghi periodi, mancanza di ventilazione e luce. Tali condizioni, considerate nel loro insieme, costituiscono una violazione degli standard minimi di vivibilità determinando una situazione di vita degradante per i detenuti. La compensazione pecuniaria per i danni morali subiti in violazione dell’articolo 3 della Convenzione è quantificata dalla Corte in una somma di circa 100.000 € per tutti i ricorrenti.


Autore
Antonietta Fiorillo
Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze

Il sovraffollamento non è un fenomeno improvviso ma la conseguenza di scelte legislative che hanno prodotto carcerazione Antonietta Fiorillo