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“Soltanto alla legge”. Brevi note sulla responsabilità civile dei magistrati

di Calogero Commandatore - 9 gennaio 2015

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L’indipendenza e la responsabilità
L’indipendenza può essere definita dal punto di vista giuridico come “una qualità particolare che assiste l’attività di un determinato soggetto o di un determinato organo” (N. Zanon, F. Biondi Francesca, 2011,  pp. 58-59). Essa consiste, specificamente, nella possibilità per il soggetto di assumere liberamente delle decisioni, senza alcun vincolo esterno e, soprattutto, senza il timore di esporsi a conseguenze – negative ma, anche positive – in ragione delle proprie scelte.
L’indipendenza non è però un valore in sé, ma uno strumento ancillare e funzionale alla tutela di altri valori. Così, l’indipendenza delle c.d. Autorità indipendenti è strumentale al buon andamento della Pubblica Amministrazione; l’indipendenza di ogni parlamentare è necessaria ad attuare i fondamenti della democrazia rappresentativa e della sovranità popolare; l’indipendenza della magistratura è funzionale alla stessa imparzialità degli organi giusdicenti. 
La responsabilità (dal latino responsum, risposta) delinea, invece, la condizione giuridica di chi è chiamato a rispondere delle azioni e dei comportamenti tenuti, rendendone ragione e accettandone le conseguenze.
Le nozioni di indipendenza e responsabilità sono necessariamente correlate: a un’indipendenza assoluta non può che corrispondere l’assenza di responsabilità, poiché è indubbio che la minaccia di una sanzione di qualsiasi natura possa influire sulle determinazioni del soggetto; a un’indipendenza soltanto relativa può far seguito la reazione da parte dell’ordinamento  – o di altri soggetti o organi – nel caso di violazione dei principi e delle regole che disciplinano il settore di attività interessato.
Si tratta di un rapporto che muta in considerazione dell’anzidetta natura strumentale dell’indipendenza,  in ragione del valore che – con il conferimento della stessa – si intende tutelare. Ad esempio, all’indipendenza delle Autorità indipendenti non corrisponde l’immunità da qualsivoglia forma di responsabilità, essendo essa riconosciuta soltanto per evitare che le scelte compiute in determinati settori soggetti a regolazione possano essere influenzate dalle maggioranze politiche contingenti o da operatori di mercato particolarmente forti.
Di contro, in molti ordinamenti, si tende a riconoscere ai giudici un’indipendenza tendenzialmente assoluta; il che – a parere di chi scrive – risulta facilmente comprensibile posto che il tutelato valore dell’imparzialità è, a ben vedere, funzionale a un principio fondante delle moderne Costituzioni (in primis, la nostra): l’eguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini dinnanzi alla legge e il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi. Si tratta di esigenza, peraltro, avvertita anche a livello comunitario: all’assoluta indipendenza degli organi giurisdizionali dell’Unione si accompagna una totale immunità dalla giurisdizione civile e penale assicurata dall’art. 2 del Protocollo n. 3 sullo Statuto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
L’indipendenza del giudice nella Costituzione
L’art. 101 della nostra Carta fondamentale, in perfetta assonanza con l’art. 97 della Legge fondamentale della Repubblica Federale Tedesca, statuisce che «I giudici sono soggetti soltanto alla legge». La norma consacra in questi termini l’indipendenza dei giudici nel processo decisionale che precede l’adozione dei provvedimenti giurisdizionali rispetto a eventuali interferenze di potere.
Sul punto, la giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. 11 gennaio 1989, n. 18) ha evidenziato come per i giudici «La garanzia costituzionale della (…) indipendenza è diretta (…) a tutelare, in primis, l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale interpretazione delle norme di diritto».
Al fine di cogliere in pieno il significato dell’art. 101 Cost., appare necessario affidarsi ai lavori preparatori che accompagnarono la sua formulazione, i quali rivelano come il testo attuale sia il frutto di una chiara impostazione dei costituenti.
La norma – nella prima versione – così recitava: «I giudici, nell'esercizio delle loro funzioni, dipendono soltanto dalla legge che interpretano e applicano secondo coscienza».
Nella seduta pomeridiana del 20 novembre 1947 e nella votazione finale del 20 dicembre 1947 l’Assemblea Costituente decideva, tuttavia, l’eliminazione dell’inciso «che interpretano e applicano secondo coscienza», approvando l’art. 101 Cost. nella forma attualmente vigente.
Ecco le motivazioni che emergono dal dibattito parlamentare a sostegno di tale scelta normativa:



  • il giudice deve esser libero d’interpretare e applicare il diritto positivo ma tale attività non può mai sfociare nell’arbitrio;

  • eventuali lacune dell’ordinamento devono esser colmate con ragionamenti di tipo giuridico, escludendosi che al giudice – attraverso il richiamo a dettami ultragiuridici –  possa conferirsi un ruolo creativo;

  • l’attività del giudice – di valutazione dei fatti e delle prove – deve concepirsi come libera, senza vincoli imposti da precedenti giurisprudenziali ovvero direttive o indicazioni da parte di istituzioni di qualsiasi tipo.  


Emerge il contenuto costituzionale dell’indipendenza riconosciuta ai magistrati: libertà di valutazione dei fatti e delle prove purché qualsiasi decisione sia, in ultimo, giuridicamente argomentata e, in grado di “persuadere che il giudice non poteva rispondere meglio” (R. Bin Roberto, 2013, passim). Interpretare significa attribuire a un testo normativo o, meglio a più testi normativi variamente coordinati e in reciproca relazione, uno dei significati ammissibili alla luce delle regole della lingua e delle tecniche interpretative così da ricavarne la norma da applicare alla concreta controversia. All’interno di tale ambito non ha senso affermare che delle interpretazioni siano vere o false poiché ciò che rileva è solamente l’enunciato interpretativo dell’organo competente a pronunciare in ultima istanza (R. Guastini, 2008, pp. 463 e ss.).
Non a caso, in mancanza della chiara individuazione di un interprete di ultima istanza, le posizioni interpretative rimangono in una posizione di fisiologico “stallo” e necessitano per la loro affermazione di una condivisione tra tutti coloro che costituiscono, sotto diversi profili, gli interpreti di ultima istanza. Sul punto non può che richiamarsi il rapporto esistente tra Corte di Giustizia dell’Unione Europea e le Corti costituzionali in cui il binomio “primazia” del diritto comunitario/teoria dei controlimiti descrive ormai un modo di relazione tra giudici supremi non legati da nessun rapporto gerarchico.
La stessa ratio ispira i successivi artt. 104 e 107 della Carta costituzionale: il primo ribadisce l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere; il secondo l’assenza di vincoli di gerarchia tra i vari giudici.
La responsabilità civile dei magistrati
L’art. 101 Cost., statuendo la soggezione dei giudici soltanto alla legge, consente di delineare a contrariis gli ambiti della responsabilità (civile, penale, amministrativa) cui i medesimi possono esporsi nello svolgimento delle funzioni di cui sono titolari.
Con riferimento alla responsabilità civile, il riconoscimento costituzionale del potere-dovere del giudice di interpretare le norme, i fatti e le prove esclude la possibilità che dal suo esercizio possa derivarne un danno “ingiusto” ex art. 2043 c.c., essendo tale soltanto quello arrecato in difetto di una causa di giustificazione (non iure infectum).
Anche in assenza di una normativa specifica, l’art. 101 Cost. sarebbe, quindi, norma sufficiente a escludere la responsabilità aquiliana dei magistrati per l’attività d’interpretazione delle norme e di valutazione dei fatti e delle prove.
Senonché, il legislatore ordinario ha avuto cura di specificare il precetto costituzionale, prevedendo con la legge n. 117/1988 la c.d. clausola di salvaguardia per le anzidette attività.
L’indipendenza interpretativa e valutativa del giudice – e la correlata assenza di responsabilità –consente, d’altra parte, di superare le difficoltà che deriverebbero dall’accertamento dell’elemento soggettivo. Ed invero, parafrasando le massime della Suprema Corte in tema di responsabilità professionale, quale sarebbe la migliore scienza (giuridica) per la valutazione dei fatti e delle prove cui il giudice dovrebbe attenersi al fine di escludere ogni sua colpa rispetto al danno cagionato?



  • Potrebbe aversi riguardo alle cognizioni giuridiche delle Corti superiori; ma ciò sarebbe in palese contrasto con il disposto dell’art. 107 Cost. e comporterebbe lo snaturamento dell’art. 101 Cost. che dovrebbe essere così riscritto: i giudici sono soggetti soltanto alla Corte di Cassazione e/o alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea;

  • potrebbe farsi riferimento alle opinioni della migliore dottrina, salvo, poi, individuare quali siano in concreto i migliori autori (a meno di non voler riproporre il meccanismo della c.d. legge delle citazioni voluta dall’imperatore Valentiniano III nel 426 d.c. per limitare l’intepretatio dei giudici, così trasformando l’art. 101 Cost. in una mera nota bibliografica);

  • potrebbe, infine, attribuirsi a un organo di natura tecnico-politica la scelta del sapere giuridico da utilizzare e l’attività di accertamento del fatto, così relegando l’attività del giudice a mero completamento di decisioni assunte fuori dal circuito della giurisdizione.


La Costituzione ha rimesso allo stesso giudice la scelta della migliore opzione interpretativa, la più convincente e quella che, a suo prudente giudizio, può colmare il naturale iato tra la norma astratta e il caso concreto. La fisiologica riconsiderazione di tale scelta valutativa può trasfondersi solamente nei mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento. Ove il giudice si affidasse a interpretazioni o istruzioni esterne non perché persuaso ma solamente sulla base dell’ipse dixit, tradirebbe il compito affidatogli dal nostro Costituente e, trasformando le garanzie riservate ai giudici, in inutili privilegi.
Si tratterebbe di un compito sicuramente meno gravoso se la soluzione fosse già confezionata in altre sedi: nella consapevolezza che le interpretazioni giuridiche, dei fatti e delle prove possono essere plurime e che nessuna questione di diritto ammette una sola risposta corretta e vera (R. Guastini, 2008, p. 463) il richiamare pedissequamente l’opinione delle Corti superiori o del moderno Papiniano o, ancora, delegare ad altri organi l’accertamento e la valutazione dei fatti non potrebbe che rappresentare un sollievo per gli organi di giurisdizione.
       L’indipendenza della magistratura: limitazioni vecchie e nuove
La nostra Carta Fondamentale tutela non solo l’indipendenza esterna della magistratura, ovvero l’indipendenza dagli altri poteri dello Stato (art. 104 Cost.) ma anche l’indipendenza interna ribadendo all’ 107 Cost. l’assenza di vincoli di gerarchia tra i vari giudici.
Tali garanzie appaiono minacciate in ambito del diritto eurounitario poiché la libertà interpretativa e valutativa del giudice è vista come un pericolo all’unitarietà dell’ordinamento e alla funzione di nomofilachia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (T. Giovannetti, 2006). Per tale ragione, in virtù della primazia del diritto eurounitario, si è imposto ai giudici comuni degli Stati membri una forte limitazione del potere interpretativo nonché di tener conto della “posizione adottata eventualmente da un'istituzione comunitaria” o addirittura di decidere in ossequio alle determinazioni di istituzioni comunitarie (cfr. § 53-56  CGCE, 30 settembre 2003, causa C-224/01 – Gerard Koebler c. Repubblica d’Austria).
Emblematico sul punto è il regolamento (CE) 16-12-2002 n. 1/2003 che all’art. 16, comma 1, prevede l’impossibilità per le giurisdizioni nazionali di pronunciarsi su accordi, decisioni e pratiche che, ai sensi dell’articolo 81 o 82 del Trattato, sono già oggetto di una decisione della Commissione o di assumere decisioni in contrasto con quelle adottate dalla Commissione. Ed ancora, la Corte del Lussemburgo ha evidenziato che, in difetto di tempestivo ricorso per annullamento ai sensi dell’art. 263 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, la decisione della Commissione non può essere più sindacata dai giudici comuni.
Non a caso, autorevole dottrina (N. Zanon, 2002) ha ritenuto che neanche il principio di  primauté del diritto eurounitario possa andare a discapito dell’indipendenza funzionale del giudice: il valore consacrato all’art. 101 Cost. – ancorandosi agli artt. 3 e 24 della Carta fondamentale – costituisce sicuramente uno dei principi fondamentali e supremi del nostro sistema giuridico e, in quanto tale, può legittimare l’applicazione della teoria dei controlimiti (Corte cost. 8 giugno 1984, n. 170 e Id. 21 aprile 1989, n. 232, di recente, applicati dalla Corte costituzionale con la sentenza, 22 ottobre 2014, n. 238), intesa, a bene vedere, non come momento di strenua difesa di prerogative nazionali, ma come “elemento di integrazione fra gli ordinamenti, che può ammettere anche l’applicazione di norme nazionali, in deroga al diritto UE, ove (…) rappresentino elementi essenziali della peculiare struttura costituzionale statale” (A. Celotto, 2006, p. 2) .
Anche la nostra giurisprudenza di legittimità ha, di recente, imposto delle scelte interpretative ai giudici attribuendo, ad esempio, alle sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale un’efficacia erga omnes (Cass. Civ., Sez. III, 5 novembre 2013, n. 24798) contrariamente a quanto sostenuto dalla migliore dottrina costituzionalista.
Da ultimo, poi, alcune proposte legislative hanno preteso di individuare nella giurisprudenza delle Corti superiori un parametro cui ancorare la responsabilità civile e disciplinare dei magistrati.
In tutte le sopraindicate ipotesi si è prospettata la responsabilità civile dei magistrati per difformità interpretative rispetto alle scelte delle magistrature supreme così reintroducendo la gerarchia tra giudici che un autorevole padre costituente, Giuseppe Maria Bettiol, definì pericolosa “perché l'espressione tipica della gerarchia è il comando che il superiore rivolge all'inferiore, e che può essere in certi determinati casi cogente, obbligatorio, anche se anti-giuridico” (in www.nascitacostituzione.it).
L’indipendenza del giudice non è, quindi, qualcosa di scontato, ma deve essere preservata poiché in estrema sintesi rappresenta l’unico strumento per la tutela del cittadino a prescindere dalla forza economica, politica e istituzionale della controparte fosse anch’essa un potere pubblico che mal tollera limiti al proprio agire.
Lucido appare l’insegnamento del deputato Giuseppe Abozzi in seno all’Assemblea Costituente che ricorda come l’assoluta autonomia e indipendenza della magistratura sia l’unico strumento per il singolo cittadino di difendersi da offese provenienti da un altro cittadino o da pubblici poteri (in www.nascitacostituzione.it).
Emblematico l’atteggiamento di Federico II di Hohenzollern, detto Federico il Grande: soltanto una leggenda il rispetto del sovrano per l’indipendenza dei giudici narrato con l’episodio del mugnaio di Potsdam; tangibile, invece, la sua insofferenza per tale principio dimostrata nel caso – realmente accaduto – del mugnaio Arnold (A. Barbero, 2007).


La riforma della responsabilità civile per i danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie



  • Perché è necessaria la riforma?

  • Il contenuto della disciplina attuale

  • Le modifiche proposte e approvate dal Senato

  • Quali i cambiamenti necessari e quali quelli punitivi?


È contraria al diritto comunitario la legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario posta in essere da un organo giurisdizionale di ultimo grado tramite un’interpretazione delle norme giuridiche o una valutazione dei fatti e delle prove o che, comunque, limiti tale responsabilità ai casi di dolo o colpa grave.


L’attuale disciplina



  • è espressamente escluso che possa dar luogo a responsabilità civile l'attività di interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto e delle prove;

  • l’azione di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie è consentita esclusivamente nei casi di dolo, colpa grave e denegata giustizia;

  • l’azione di risarcimento può essere proposta, fatta eccezione per i danni derivanti da reato, solo contro lo Stato, al quale è riconosciuta, in caso di condanna, la rivalsa, nei limiti di un terzo di un’annualità di stipendio, nei confronti del magistrato;
  • l’azione di risarcimento è subordinata a una valutazione, rimessa al tribunale in camera di consiglio, relativamente all’ammissibilità e alla non manifesta infondatezza;

  • l’azione di risarcimento può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti tutti i mezzi d’impugnazione e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento;

  • l’azione di risarcimento è sottoposta a un termine di decadenza di due anni.



Le modifiche previste



  • la risarcibilità di tutti i danni non patrimoniali cagionati dall’esercizio delle funzioni giudiziarie;

  • la possibilità che anche l’attività d’interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto o delle prove possa ingenerare responsabilità civile;

  • l’allungamento del termine di decadenza, da due a tre anni;

  • l’eliminazione integrale del filtro di ammissibilità

  • l’obbligatorietà, pena la responsabilità contabile, dell’azione di rivalsa, da parte dello Stato, nei confronti del magistrato nell’ipotesi di dolo o negligenza inescusabile;

  • l’innalzamento della misura della rivalsa da un terzo alla metà di un’annualità di stipendio o, in caso di dolo, l’esclusione di ogni limite quantitativo;

  • l’eseguibilità della rivalsa tramite trattenute sullo stipendio netto nella misura non più di un quinto, al pari di ogni altro dipendente, ma di un terzo.

Autore
Calogero Commandatore
Giudice del Tribunale di Enna

L ’articolo 101 della Costituzione, nel riconoscere il potere-dovere del giudice di interpretare le norme, i fatti e le prove, esclude la possibilità che dal suo esercizio possa derivarne un danno “ingiusto” in base all’articolo 2043 del codice civile Calogero Commandatore