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Spunti di riflessione sulla riforma della prescrizione

di Francesco Viganò - 9 gennaio 2015

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  1. La vigente disciplina della prescrizione costituisce una peculiarità tutta italiana, probabilmente senza corrispondenti in alcun ordinamento straniero.


La ratio dell’istituto è da sempre, e ovunque, identificata nell’oblio che cade sul reato commesso, una volta decorso un lasso di tempo determinato in genere in funzione della gravità del reato (più il reato e lieve e più rapidamente cade l’oblio, e viceversa: tanto che i reati più gravi, come l’omicidio doloso aggravato, sono imprescrittibili). Tuttavia, la condizione essenziale perché sul fatto di reato cada l’oblio è che lo Stato non abbia nel frattempo mostrato interesse alla sua persecuzione, rimanendo inattivo. Coerentemente, alcuni ordinamenti (ad esempio quelli di matrice anglosassone) bloccano il corso della prescrizione nel momento dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero; altri (come quello francese o spagnolo) attribuiscono agli atti più significativi del pubblico ministero e della giurisdizione l’effetto di interrompere la prescrizione, e di farla ricominciare da capo, con la conseguenza di rendere praticamente imprescrittibile il reato una volta che la macchina della giustizia si sia messa in moto; altri ancora, come quello tedesco, prevedono – accanto a un sistema di atti interruttivi legati ad attività della giurisdizione – che la prescrizione si blocchi definitivamente con la sentenza di primo grado.
La normativa italiana vigente prevede invece che la prescrizione continui a decorrere non solo durante la fase delle indagini del pubblico ministero, ma anche quando sia in corso il processo  e, addirittura, si sia già pervenuti a un accertamento in primo grado, sino a che il processo si sia concluso con una sentenza definitiva (normalmente pronunciata dalla Cassazione in esito al terzo grado di giudizio, quando non sia stato necessario un ulteriore giudizio di rinvio).
Il sistema italiano, invero, prevede anch’esso che la prescrizione si interrompa, e ricominci a decorrere da capo, in corrispondenza dei più significativi atti del pm o del giudice; ma – a differenza di tutti gli altri ordinamenti, e in conseguenza delle modifiche apportate dalla legge ex Cirielli del 2005 – prevede altresì che, in caso di atti interruttivi, i termini base di prescrizione non possano essere aumentati oltre la misura di un quarto. Dal momento che il termine base di prescrizione per la maggior parte dei delitti di bassa o media gravità (compresi, ad es., il furto aggravato o la corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio) è pari a sei anni, ciò significa che – nonostante il tempestivo svolgimento di indagini e poi di un processo, magari già sfociati in una, o addirittura due condanne consecutive – quel furto o quella corruzione comunque si prescriveranno, se entro sette anni e mezzo dalla loro commissione la Cassazione non sarà arrivata in tempo a chiudere definitivamente il processo. E ciò anche nell’ipotesi in cui nessuna inerzia o ritardo possano essere rimproverati ai pubblici ministeri (i quali potrebbero aver avuto notizia della corruzione, ad es., cinque anni e mezzo dopo la sua commissione, e aver immediatamente fatto partire le indagini), né ai giudici di primo, di secondo e di terzo grado.
Il risultato è che, oggi, varie decine di migliaia di processi si concludono anticipatamente in secondo o in terzo grado di giudizio per effetto della prescrizione, impedendo così che la condanna a carico di imputati già ritenuti colpevoli dai giudici di primo grado possa divenire definitiva. L’imputato viene così irragionevolmente prosciolto; tutte le prove raccolte vengono disperse; e la macchina giudiziaria ha lavorato a vuoto; e le giuste aspettative di giustizia delle vittime restano drammaticamente senza tutela. Con un ulteriore, e non trascurabile, pregiudizio per la credibilità del sistema penale nel suo complesso.
Inoltre, la prospettiva della conquista della prescrizione durante il processo incentiva strategie difensive dilatorie, che ingolfano inutilmente la macchina della giustizia italiana, già di suo in affanno: gli imputati non patteggiano o non chiedono il giudizio abbreviato anche in caso di evidente colpevolezza, e tendono a proporre impugnazioni infondate al solo scopo di far maturare il tempo necessario per ottenere la prescrizione.
Una riforma dell’istituto è, allora, urgente. Ce la chiedono tra l’altro anche le istituzioni europee e internazionali, preoccupate ad esempio della sistematica impunità che ne deriva in materia di corruzione, settore in cui la gran parte dei processi si conclude, appunto, con la dichiarazione di prescrizione dell’imputato.



  1. Il problema non è dunque se riformare la prescrizione, ma piuttosto come riformarla. La diagnosi è chiara; assai meno lo è la terapia.


Il primo e fondamentale nodo da affrontare, in ordine logico, è a mio avviso quello del dies ad quem: ossia del termine nel quale la prescrizione cessa definitivamente di decorrere, non essendo affatto scontato che esso debba necessariamente coincidere con la pronuncia della sentenza definitiva.
Una soluzione radicale, che io stesso ho proposto in un contributo pubblicato qualche tempo fa (F. Viganò, Riflessioni de lege lata e ferenda su prescrizione e tutela della ragionevole durata del processo, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 3/2013, p. 18 ss.) potrebbe essere quella di far cessare definitivamente il corso della prescrizione al momento dell’esercizio dell’azione penale. La logica di una simile soluzione riposa sull’assunto che, in quel momento, vengano meno le “ragioni dell’oblio” sulle quali si fonda tradizionalmente la prescrizione del reato: con l’esercizio dell’azione penale, lo Stato rende palese che, nonostante il tempo più o meno lungo trascorso dalla commissione del reato, sussistono ancora le ragioni retributive, ovvero general- e specialpreventive, che giustificano la persecuzione penale e la successiva punizione del responsabile. Da questo momento in poi, il processo deve avere tutto il tempo necessario per pervenire all’accertamento del reato e all’eventuale condanna dell’imputato, salva l’esigenza – che non ha però nulla più a che fare con il tempo dell’oblio – che i tempi del processo non siano irragionevolmente dilatati, in violazione del diritto fondamentale dell’imputato alla ragionevole durata del processo medesimo: problema, quest’ultimo, su cui ritornerò brevemente prima di concludere.
Una soluzione meno dirompente, mutuata dal codice penale tedesco e che ben si presta a convogliare consensi proprio per la sua natura in certo senso compromissoria, potrebbe essere invece quella di fissare il dies ad quem della prescrizione nella sentenza di primo grado (di condanna o di assoluzione che sia). Una tale soluzione potrebbe far leva sulla non spregevole considerazione che una seconda e concorrente ratio tradizionalmente riconosciuta alla prescrizione è quella legata all’accrescersi delle difficoltà di prova con il passare del tempo dalla commissione del reato: una ratio, questa, che cessa di operare – appunto – con la conclusione del giudizio di primo grado, nel quale normalmente si esaurisce l’attività di assunzione delle prove.
Una soluzione ancor più cauta – e anch’essa dichiaratamente compromissoria – è quella cristallizzata nella proposta di riforma elaborata dalla Commissione Fiorella, nominata alla fine del 2012 dall’allora Ministro della giustizia Severino, e della quale io stesso ho fatto parte. Tale proposta continua a fissare il dies ad quem della prescrizione nel momento della sentenza definitiva, ma prevede una duplice sospensione del corso della prescrizione: per due anni dopo la sentenza di condanna di primo grado, e per un anno dopo la sentenza di condanna di secondo grado. L’idea di fondo è che l’avvenuto accertamento della commissione del reato da parte dei giudici di merito costituisca una significativa verifica della fondatezza dell’ipotesi accusatoria e giustifichi – ferma restando la presunzione di innocenza – la concessione di un tempo supplementare alla giurisdizione per riesaminare la correttezza della sentenza di condanna; tempo supplementare che la Commissione ha per l’appunto ritenuto prudentemente di quantificare in due anni per il giudizio di appello conseguente alla condanna di primo grado, e di un anno per il giudizio di Cassazione. Cessato il periodo di sospensione, l’orologio della prescrizione riprenderà il proprio corso partendo dal punto in cui si era fermato: consentendo così alle giurisdizioni di appello e di Cassazione di utilizzare eventualmente anche quella parte del termine massimo di prescrizione, calcolato ai sensi dell’art. 161 c.p., che non era stato ancora consumato nel corso dei precedenti gradi di giudizio.


3. Una volta sciolto questo nodo preliminare, occorrerà ancora interrogarsi sulla congruità dei termini attualmente previsti dall’art. 157 c.p., e dello stesso meccanismo di quantificazione del termine massimo complessivo in caso di eventi interruttivi, fissato dall’art. 161 c.p. L’esito di questa valutazione potrà essere assai diverso secondo il modello che si intenderà adottare sulla questione del dies ad quem, giacché – come è evidente – più si anticipa tale dies ad quem, meno sarà avvertita l’esigenza di allungare gli attuali termini di prescrizione.
Ai fini di una ricalibrazione di tali termini, l’idea di fondo dovrebbe essere che i termini base di cui all’art. 157 c.p. segnano il tempo limite di emersione della notitia criminis, decorso il quale sul fatto commesso debba calare il manto dell’oblio. Il meccanismo di cui all’art. 161 c.p. dovrebbe, invece, incaricarsi di assegnare alla giurisdizione – in primis agli stessi organi dell’accusa – il tempo sufficiente per compiere le indagini, ed eventualmente per giudicare, nell’ipotesi in cui il dies ad quem venga fatto coincidere con la sentenza di primo grado.
Comunque si decida di operare sul fronte dell’art. 157 c.p. (mantenendo il sistema attuale, ad es., ovvero ritornando alla logica “per fasce” caratteristica dell’impianto originario del codice Rocco), una modifica del meccanismo di fissazione del tetto massimo in caso di eventi interruttivi di cui all’art. 161 appare senz’altro raccomandabile, specie laddove si ritenesse di fissare il dies ad quem della prescrizione in un momento successivo all’esercizio dell’azione penale : l’aumento di un solo quarto rispetto ai termini base ex art. 161 c.p. rischia, infatti, di essere insufficiente a garantire alla pubblica accusa il tempo di svolgere le indagini e ai giudici di svolgere accertamenti processuali rispetto a notitiae criminis emerse in prossimità della scadenza del termine di prescrizione.
In ogni caso, dovrà essere eliminata la previsione, nello stesso art. 161, di aumenti differenziati secondo lo status soggettivo (di recidivo o di delinquente abituale, professionale o per tendenza), introdotti dalla legge ex Cirielli: una differenziazione del tutto sprovvista di ragionevolezza, come da sempre osservato in dottrina.


4. Risolti i due profili di cui si è detto (fissazione del dies ad quem; eventuale ricalibrazione dei termini ex art. 157 ed entità dell’aumento in caso di atti interruttivi ex art. 161), la strada verso la riforma sarebbe spianata, e l’attenzione potrebbe concentrarsi su profili magari importanti, ma assai meno problematici per il legislatore: ad es., l’individuazione di nuove cause di sospensione (ad es. la rogatoria, previa magari fissazione di un tetto massimo di sospensione come nel progetto Fiorella) ovvero di interruzione (con riferimento, in particolare, all’interrogatorio da parte della pg su delega del pubblico ministero).
Opportuna apparirebbe, altresì, una disciplina derogatoria del dies a quo – da collocare in un apposito secondo comma dell’art. 158 c.p. – in materia di abusi sessuali o di violenze contro persone minorenni all’epoca dei fatti, in cui è raccomandabile che la prescrizione non decorra sino a un momento (che potrebbe essere fissato al raggiungimento della maggiore età, o quanto meno al compimento del quattordicesimo anno come nel progetto Fiorella) in cui il minore abbia presumibilmente acquistato l’autonomia personale necessaria per denunciare il fatto.


5. Qualunque pensabile riforma che abbia l’effetto di “sterilizzare”, totalmente o parzialmente, i termini di prescrizione durante il processo, dovrebbe infine farsi carico seriamente della necessità di offrire una tutela effettiva al diritto dell’imputato a una definizione in temi ragionevoli della propria vicenda processuale, ai sensi non solo dell’art. 111 Cost., ma anche dell’art. 6 § 1 CEDU. In mancanza di qualche meccanismo compensativo, infatti, la riforma della prescrizione rischierebbe di produrre un’esplosione del contenzioso Pinto, e/o una valanga di ricorsi alla Corte europea, in relazione alle più che prevedibili difficoltà della nostra giurisdizione penale – e in particolare delle Corti d’appello – a decidere in tempi ragionevoli i processi.
Una prima possibile soluzione, da tempo sostenuta in dottrina, consiste nella previsione di una prescrizione “del processo”, strutturata attorno a termini di fase analoghi a quelli previsti in materia di durata massima della custodia cautelare. Tali termini dovrebbero essere commisurati, peraltro, non alla ideale durata “ragionevole” di ogni singola fase processuale, ma a una durata manifestamente irragionevole, il cui superamento renda senz’altro ingiusta la protrazione del processo.
Anche laddove si adottassero simili termini di fase, resterebbe comunque il problema di assicurare un adeguato ristoro all’imputato vittima di ritardi processuali che, pur non raggiungendo ancora i limiti che rendano intollerabile la stessa protrazione del processo, concretino tuttavia una violazione del suo diritto ex art. 6 CEDU. Un tale rimedio – secondo un modello già ampiamente sperimentato in altri paesi europei, a cominciare dalla Germania e dalla Spagna – potrebbe essere rappresentato da una riduzione della pena proporzionale all’entità del ritardo subito, secondo la logica per cui la stessa pendenza del processo per un lasso di tempo irragionevolmente lungo costituisce una sorta di presofferto rispetto alla pena, che è logico debba essere alla fine scontato dalla pena da eseguire.
Un simile meccanismo compensatorio è del resto ormai noto all’ordinamento giuridico italiano, essendo stato introdotto dal d.l. 67/2014, convertito in legge n. 117/2014 in chiave di ristoro delle violazioni dell’art. 3 CEDU subite da detenuti e internati. E avrebbe il non trascurabile vantaggio, in tempi di crisi economica, di far risparmiare denaro all’erario, dal momento che la compensazione in termini di sconto di pena sarebbe sostitutiva, quanto meno per l’imputato condannato, dell’indennizzo pecuniario che dovrebbe comunque essere assicurato a quel condannato in base alla legge Pinto.


Dal punto di vista tecnico, tale obiettivo potrebbe essere raggiunto attribuendo i relativi poteri di rideterminazione della pena al giudice dell’esecuzione, su istanza del condannato.
Il giudice sarebbe così chiamato a valutare egli stesso, in esito all’esame del fascicolo processuale, se e in che misura si siano effettivamente verificati nella definizione della vicenda processuale ritardi imputabili all’apparato statale (e non, ovviamente, al pur legittimo spiegarsi di attività difensive da parte dell’imputato) in violazione del diritto dell’imputato alla ragionevole durata del processo, sulla base dei criteri sviluppati dalla Corte EDU nella propria giurisprudenza in materia; e a determinare quindi – sulla base di coefficienti fissati dalla legge – quale parte della pena determinata dal giudice della cognizione sia da considerare ineseguibile, in chiave appunto di ristoro del diritto violato.

Autore
Francesco Viganò

Una riforma della prescrizione è urgente. Ce la chiedono anche le istituzioni europee e internazionali, preoccupate della sistematica impunità che ne deriva in materia di corruzione Francesco Viganò