Rocco Chinnici
(Misilmeri, 19 gennaio 1925 - Palermo, 29 luglio 1983)
Consigliere istruttore presso il Tribunale di Palermo, assassinato, con la scorta e il portiere dello stabile, dalla mafia.
Rocco Chinnici venne assassinato dalla mafia a Palermo il 29 luglio del 1983 mentre sta per recarsi al lavoro. Quando esce dalla sua abitazione, saluta il portinaio e due agenti vigili sul marciapiede. L'Alfetta blindata è pronta a partire, le auto d'appoggio sbarrano le strade circostanti. Ma, i killer pigiano sul bottone detonatore; una Fiat 126, parcheggiata lì la notte prima e imbottita di tritolo, salta in aria e si disintegra in mille proiettili di ferro arroventato. L'asfalto sprofonda. Dilaniato il giudice Chinnici. Irriconoscibili gli uomini della tutela, i carabinieri Mario Trapassi ed Edoardo Bartolotta. Muore anche Stefano Lisacchi: il portinaio di via Pipitone 63, detto don Stefano.
Pochi giorni prima - ricorda Giovanni Paparcuri, l'autista sopravvissuto all'attentato - Chinnici aveva convocato gli uomini della scorta nel suo ufficio. Era agitato e disse: «State attenti alle auto e ai furgoni di grossa cilindrata. Hanno rubato un'automobile blindata della Regione Sicilia. Si parla di un attentato contro un magistrato. Sono preoccupato per voi. Se volete abbandonare la mia protezione il problema non si pone». Ma nessuno lo abbandonò. Temeva per loro, dunque, ma non per sé: "La cosa peggiore che possa accadere", aveva dichiarato il magistrato qualche tempo prima in un'intervista, "è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare».
I processi per il delitto Chinnici sono stati numerosi e come sempre l'iter giudiziario è stato lungo e complesso, ma al suo termine si è giunti a una pronuncia definitiva con dodici condanne all'ergastolo: tra i responsabili dell'attentato Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Antonino Madonia e Giuseppe Calò.
Rocco Chinnici nasce nel 1925 a Misilmeri. Dopo la maturità conseguita nel 1943 presso il Liceo Classico "Umberto I" a Palermo, si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza del capoluogo, dove si laurea nel 1947. L'ingresso in magistratura risale al 1952; poi due anni di uditorato a Trapani; quindi l'incarico di pretore a Partanna, per dodici anni. Nel maggio del 1966 viene trasferito a Palermo, presso l'Ufficio Istruzione del Tribunale. Dal 1979, è chiamato a dirigerlo.
"Rocco fu assassinato nel luglio del 1983, agli inizi di questo decennio, quando ancora erano grandemente lacunose le concrete conoscenze sul fenomeno mafioso, che non era stato ancora visitato dall'interno, come poi fu possibile nella stagione dei "pentiti". Eppure la sua capacità di analisi e le sue intuizioni gli avevano permesso già nel 1981 ... di formarsi una visione del fenomeno mafioso che non si discosta affatto da quella che oggi ne abbiamo, col supporto però di tanto rilevanti acquisizioni probatorie, passate al vaglio delle verifiche dibattimentali. Le dimensioni gigantesche della organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d'Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga ed i suoi effetti devastanti, l'inadeguatezza della legislazione: c'è già tutto negli scritti di Chinnici, risalenti ad un periodo in cui scarse erano le generali conoscenze ed ancora profonda e radicata la disattenzione o, più pericolosa, la tentazione, sempre ricorrente, alla connivenza. Eppure, né la generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione alla convivenza col fenomeno mafioso - spesso confinante con la collusione - scoraggiarono mai quest'uomo, che aveva, come una volta mi disse, la 'religione del lavoro"'.
Con queste parole Paolo Borsellino ricorda il collega Rocco Chinnici, nella prefazione a una raccolta postuma dei suoi scritti intitolata, "L'illegalità protetta". Di lì a pochi anni anche Borsellino - che nel 1980 proprio da Chinnici fu chiamato a lavorare nell'Ufficio Istruzione di Palermo - avrebbe conosciuto analoga, drammatica fine.
«Un mio orgoglio particolare» , rivelò Chinnici in un'intervista, «è una dichiarazione degli americani secondo cui l'Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre Magistrature d'Italia. I magistrati dell'Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero».
Il primo grande processo alla mafia, il cosiddetto maxiprocesso di Palermo è il risultato del lavoro istruttorio iniziato da Chinnici e proseguito da alcuni giovani magistrati che egli aveva chiamato a lavorare accanto a sé: oltre a Borsellino, Giovanni Falcone e Giuseppe Di Lello.
Giovanni Chinnici frequentava il Liceo, il "Meli" di Palermo, quando il padre fu ucciso. «Ricordo", dice, che "in quegli anni lui - che era capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo - teneva spesso delle conferenze nelle scuole, per spiegare ai giovani il potere della mafia e i pericoli della diffusione delle droghe. Veniva spesso anche nel nostro istituto. Ricordo bene quegli incontri: c'era una fortissima partecipazione degli studenti, talmente grande che io stesso ne rimanevo sorpreso. Probabilmente le doti professionali e le capacità comunicative di papà erano particolarmente apprezzate. Ne ero orgoglioso. In quegli anni vedevo alcuni miei coetanei perdersi nell'eroina ed ero già abbastanza grande da capire come le cose di cui parlava papà erano importanti, e che era da apprezzare il nuovo senso che dava alla sua professione: al ruolo più istituzionale, e se vogliamo più burocratico, delle indagini, affiancava quello sociale della sensibilizzazione, del dialogo e della trasmissione di un buon esempio alle giovani generazioni".
Alla domanda sui perché dell'omicidio del padre, Giovanni Chinnici risponde: "Ci sono in particolare due aspetti del suo impegno professionale che credo indebolirono e preoccuparono particolarmente i sodalizi criminali. Mio padre introdusse una novità importante nell'organizzazione dell'attività dei giudici istruttori: fu l'inventore del lavoro di gruppo, della condivisione delle informazioni relative a indagini che, sebbene distinte e separate, avrebbero poi mostrato, come lui intuì, una comune regia. Questa condivisione di informazioni rafforzò le indagini, e dunque spaventò la mafia. I gruppi che lui creò erano gli antesignani dei pool antimafia. Fu lui, inoltre, che nell'80 chiamò a lavorare nel suo ufficio magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: è in quel momento che vennero poste le basi per quello che sarebbe diventato il maxiprocesso. Papà era poi profondamente convinto che la presenza della mafia penalizzasse in maniera profonda lo sviluppo economico del territorio siciliano. Oggi, con questo concetto, abbiamo tutti una certa familiarità, ma allora era un'idea totalmente nuova, e considerata anche stravagante, quando non apertamente infondata, dalla maggior parte dei suoi colleghi e soprattutto dalla politica. In molti pensavano, piuttosto, che la mafia aiutasse, proteggendole, le attività locali. E credo che anche questa convinzione che mio padre aveva sul ruolo della mafia abbia preoccupato i sodalizi criminali. Nel 2003, noi familiari assieme ad alcuni amici ed estimatori di papà abbiamo dato vita a una Fondazione a lui intitolata che intende portare avanti le sue due principali idee: quella dello studio e dell'analisi sulle infiltrazioni della criminalità nel tessuto economico e quella della intensa sensibilizzazione della collettività e specie dei giovani alla cultura del rispetto delle regole" (tratto dalla pubblicazione "Nel loro segno" del Csm).