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Verso il tramonto della giustizia minorile?

di Tommasina Cotroneo - 31 gennaio 2017

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Gli studi e i progetti per l’istituzione di un sistema di giustizia minorile risalgono in Italia, come negli altri Paesi europei, agli inizi del secolo scorso, allorquando nel 1908 venne redatto il progetto (c.d. Quarta) di Codice per i minorenni che istituiva un’apposita magistratura specializzata e disegnava un quadro organico di giustizia minorile comprensivo della parte ordinamentale, sostanziale e processuale tanto civile che penale. Il progetto Quarta non riuscì a essere presentato al Parlamento. Guerra mondiale prima e avvento del fascismo poi ne impedirono la realizzazione.


Solamente trentadue anni dopo il sistema italiano di giustizia venne istituito, e ciò accadde il 20 luglio 1934, quando fu promulgato il regio decreto legge n. 1404 recante “Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni”. Quel provvedimento, come il progetto Quarta, non si limitava a creare un organo giudiziario specializzato, ma istituiva un vero e proprio sistema organico di giustizia minorile, comprensivo di norme in materia ordinamentale e penitenziaria, di personale apposito e di servizi ausiliari destinati ai minorenni devianti, disadattati, o bisognosi di protezione.


In coerenza con il clima politico dell’epoca il sistema aveva forti connotazioni di controllo sociale. La competenza territoriale era (ed è ancora oggi) estesa all’intero distretto della Corte d’appello.


Il Tribunale per i minorenni aveva dunque in quel periodo un ruolo di giudice controllore, affatto diverso dal giudice immaginato e delineato dal progetto Quarta, di cui ben poco residuava. Quel residuo tuttavia si rivelò fecondo dopo il secondo conflitto mondiale e la caduta del fascismo, quando ebbe inizio un progressivo sviluppo della giustizia per i minorenni protrattosi per più di mezzo secolo e giunto fino ai nostri giorni, del quale brevemente può essere utile dare conto.


Dopo la fase iniziale del giudice controllore, si possono distinguere in questa evoluzione tre fasi caratteristiche. La prima è quella che può chiamarsi del giudice educatore che apriva le porte degli istituti rieducativi a regime chiuso introducendo l’osservazione della personalità e la misura del trattamento in esternato con affidamento al servizio sociale; si trattava di innovazioni mutuate dall’esperienza giudiziaria francese, dove ancora oggi i contenuti educanti dell’intervento del giudice minorile sono oggetto di attenzione e di studio.


Presupposto di quegli interventi era la convinzione che per i minorenni in conflitto con la legge alla sanzione penale dovesse essere preferita una misura educativa. Più che violazione di legge, il fatto-reato era sintomo di disagio relazionale e disadattamento personale, a cui dare risposte non su base punitiva, ma di tipo trattamentale pedagogico o psicologico.


Per funzionare decentemente, quell’approccio avrebbe avuto bisogno di giudici minorili preparati, di personale qualificato e di valide strutture. Tutto ciò mancava. Pertanto, senza clamore e senza bisogno di modifiche normative, la figura del giudice educatore insterilì.


Iniziò e si sviluppò, quindi, la seconda fase della giustizia minorile italiana: quella del cosiddetto giudice promotore, nato nel 1967 con la legge 5 giugno 1967 n. 431 sull’adozione speciale, a sua volta effetto delle acquisizioni scientifiche sui danni da carenza affettiva e da istituzionalizzazione prolungata, allorquando le competenze civili del Tribunale per i minorenni ebbero un forte ampliamento, allargandosi all’adozione dei minori abbandonati ed oltre.


Seguì la legge 35/1971 che – trentasette anni dopo la sua istituzione – istituiva la pianta organica dei magistrati minorili. Questa permise alla giustizia minorile italiana di evolvere verso l’aiuto e non verso la coazione, verso il sostegno e non verso il controllo, sulla scia di quanto già in atto in molti Paesi europei dove già a quell’epoca il concetto di potestà dei genitori era stato sostituito da quello di responsabilità.


Nasce così in quell’epoca un giudice di tipo nuovo, che impara ad ascoltare le persone e non solo a leggere le carte; che diviene consapevole che altri saperi oltre al diritto gli sono necessari per comprendere i problemi dell’età evolutiva; che gli occorre acquisire una professionalità specifica per quel settore e che non basta delegare scelte e valutazioni e decisioni al CTU o ai giudici onorari. È un giudice che venne acutamente paragonato al giudice fallimentare, al quale si richiede di conoscere il mondo dell’economia, di saper leggere un bilancio, di sapersi relazionare con gli operatori economici e di saper indirizzare le situazioni difficili verso soluzioni positive.


La riforma del diritto di famiglia (legge 1975 n. 151) e la prima riforma della legge sull’adozione e l’affidamento familiare (legge 1983 n.184) danno una spinta decisiva a quel tipo di giudice, poiché lo obbligano a interagire con i servizi locali che le Regioni e i Comuni più attenti vanno organizzando, con competenze istituzionali loro proprie in materia di protezione dell’infanzia e tesi a un’interazione positiva con i provvedimenti del giudice.


Viene così delineato un sistema binario di protezione dei diritti del minore: socio-assistenziale da un lato, giudiziario dall’altro, chiamati quando necessario a interagire tra loro. La diversità del quadro sociale e politico regionale non consentì tuttavia uno sviluppo omogeneo del sistema e diede luogo al sorgere di prassi locali profondamente differenziate, che a loro volta furono causa di problemi rilevanti.


Centrali in questa fase due figure: il giudice tutelare e il pubblico Ministero minorile. Quanto al primo, la riforma del diritto di famiglia del 1975 ne sopprime i poteri ufficiosi di emettere provvedimenti provvisori e urgenti. Quanto al secondo, il suo ruolo nella materia civile viene fortemente sminuito dalla quasi contemporanea attribuzione al Tribunale per minorenni del potere di attivarsi d’ufficio (1983).


La scelta del legislatore di quegli anni era motivata dalla lunga inerzia di quegli organi nel campo della protezione dei minori dagli abusi e dall’abbandono e venne parzialmente risolto con la legge 149/2001, che ha tolto al Tribunale per i minorenni ogni potere ufficioso attribuendo al solo pubblico Ministero minorile la legittimazione a proporre ricorso per la dichiarazione di adottabilità, allo scopo di assicurare la terzietà del giudice. Questa soluzione ha toccato alcuni effetti ma non le cause.


Si sgretola in questo contesto la certezza della capacità di tenuta della figura del giudice promotore e forte nasce il bisogno di una riforma d’insieme, in un disegno organico di grande respiro che tenga conto delle connessioni e interazioni tra protezione giudiziaria e protezione socio-amministrativa e rivaluti dal punto di vista pedagogico il contatto tra il minore e il suo giudice.


Epperò a questo non può giungersi con il disegno di legge governativo approvato alla Camera per l’efficienza del processo civile. Dichiaratamente limitato al campo processuale, esso in realtà incide profondamente sugli aspetti ordinamentali del sistema di protezione giudiziaria dei soggetti minori di età, scardinandolo senza alcuna visione di insieme e senza tener conto delle ripercussioni sui sistemi che con quello devono interagire.


Trascura l’esigenza di urgenti interventi sostanziali in campo penale amministrativo e penitenziario minorile; dimentica il ruolo delle Regioni e le competenze funzionali attribuite loro dall’art. 117 Cost.; riduce il ruolo dei servizi sociali a quello di meri ausiliari del giudice; affida imprudentemente alla discrezionalità del presidente capo del Tribunale la designazione del presidente della sezione specializzata; lascia immutato il pletorico collegio a quattro giudici in primo grado e a cinque in appello; sopprime l’importante figura del pubblico Ministero minorile specializzato, dimenticando i poteri a questo attribuiti dalla legge n. 149 del 2001 in materia di segnalazione di abbandono e di raccordo con i servizi sociali territorialità.


L’obiettivo di riunire la materia delle persone, dei minori di età e della famiglia davanti a un unico giudice viene così raggiunto a spese di gravi squilibri e di omissioni ingiustificate, che d’altra parte lasciano in vita pezzi consistenti del vecchio sistema di giustizia minorile risalente agli anni Cinquanta, senza un nuovo “verbo” che tenga conto delle convenzioni e dichiarazioni internazionali, delle nuove esigenze e dei diritti dei giovani d’oggi, del mutamento in atto dei modelli familiari.


Già avere accomunato in un unico ddl la materia delle imprese e quella delle persone minori di età è sintomatico della frettolosità e superficialità dell’approccio del governo a questo complesso settore, che in Italia ha, come detto, più di un secolo di vita e di studi.


Lo stesso andamento ondivago e trasformista del disegno di legge nella parte che più specificatamente interessa accredita sospetti circa la presenza, in radice, di un vero e “acculturato” progetto in tal senso, al di là dei consueti intenti di razionalizzazione e miglior utilizzo delle risorse.


Si disquisisce di modifiche pensate senza effettiva cognizione della complessità e della particolarità della materia (in particolare, il ruolo delle Procure minorili) e tali da rendere, in definitiva, fragile e a rischio proprio l’essenziale e cioè l’effettività di un sistema di tutela dei minori finora fondato sugli organi giudiziari destinati, secondo la riforma, alla soppressione: i Tribunali e le Procure minorili. Si paventa, in generale, il rischio del venir meno della stessa cultura minorile acquisita negli ultimi decenni, fondata sulla lettura complessiva del disagio dei minori e delle famiglie. Scindendo la visione unitaria della delinquenza minorile dalle sue radici che affondano nell’ambiente familiare e sociale più ampio rispetto al singolo episodio criminoso, il processo penale minorile verrebbe privato della sua funzione rieducativa.


L’auspicio è, piuttosto, quello di una riforma anche ordinamentale che, mantenendo le attuali positività di fondo, ne introduca di ulteriori senza compromettere quanto funziona.


L’obiettivo primario deve essere quello della creazione di un Tribunale per la persona e la famiglia autonomo e su base distrettuale, con articolazioni territoriali, sul modello del Tribunale di Sorveglianza, che realizzino per quanto possibile il modello della giustizia di prossimità.


Un Tribunale, non solo “per i minorenni” e a cui, ovviamente, dovrebbe fare riscontro una Procura della Repubblica parimenti autonoma, con analogo respiro distrettuale e, soprattutto, analogamente attrezzata ad affrontare, come già si è autorevolmente scritto, «una sommatoria di competenze estese, rilevanti, penetranti, “affacciate” anche su territori nuovi», anche connessi ai fenomeni di immigrazione.


Non si può infatti non stigmatizzare la possibile sorte delle Procure minorili destinate non tanto a “cambiare insegne” bensì a una ricollocazione ancor più, concretamente, disagevole e penalizzante: un’autentica riqualificazione in peius.


Nei ‘gruppi specializzati’ l’ipotizzato modello delle DDA (pensato per il coordinamento delle indagini per reati di mafia, e, quindi, per una funzione completamente diversa da quella penale e civile del pubblico Ministero minorile) non garantirebbe nemmeno l’esclusività delle funzioni dei magistrati, che – in aggiunta ai compiti di tutela dei bambini e degli adolescenti – dovrebbero svolgere anche funzioni penali ordinarie, in processi contro adulti ispirati a una logica inquirente del tutto diversa nelle finalità e nell’approccio.


Oramai i procedimenti a tutela e le adottabilità sono divenuti “processo di parti” e l’affievolimento delle potenzialità della parte pubblica in uno alla impossibilità di agire con urgenza e immediatezza, vagliando, istruendo le centinaia e centinaia di segnalazioni che pervengono all’Ufficio, si riverbereranno sul funzionamento del Tribunale, già privato nella sostanza di poteri officiosi e di iniziativa.


Sparirebbe il ruolo del Pubblico Ministero minorile che, dinanzi al Tribunale per i Minorenni, agisce a tutela diretta del minore e ne rappresenta le esigenze e le Procure ordinarie non potrebbero svolgere più questa funzione sia perché il processo di separazione non consente loro alcun potere di iniziativa, sia perché non sarebbe più possibile presentare un ricorso a tutela dei minori slegato da eventuale separazione fra i genitori, sia perché non è prevista alcuna specializzazione nemmeno dei singoli sostituti procuratori.


Il trasferimento delle competenze civili a sezioni di Tribunale ordinario prive di effettiva specializzazione interromperebbe, poi, il rapporto diretto fra la giustizia minorile e le numerose istituzioni che promuovono il benessere dei minori. I servizi sociali, i servizi psicologici e di neuropsichiatria infantile, le scuole, le comunità per minorenni e tutte le altre istituzioni di promozione scolastica e sociale dei minori hanno sinora trovato nel Tribunale per i Minorenni un interlocutore diretto e disponibile che, con lo svuotamento di competenze, andrebbe smarrito.


E tutto ciò quando la complessità delle questioni in materia familiare e minorile impone un’accentuata specializzazione dei magistrati e in un momento storico in cui i minorenni sono fra i primi a pagare le conseguenze drammatiche che derivano dalla crisi economica, dall’immigrazione e dai tagli alla spesa pubblica negli enti locali.


E proprio mentre l’Europa assume come propri i valori ai quali si ispira il nostro attuale ordinamento e ribadisce la necessità di potenziare la specializzazione dell’intervento giudiziario minorile, evidenziandone la funzione preventiva e la specificità rispetto alla giustizia ordinaria; proprio mentre è stata varata la Direttiva europea in materia di giustizia minorile destinata a uniformare il processo penale negli Stati dell’Unione, imprimendo una decisa accelerazione alla specializzazione dei giudici, alla realizzazione di principi di garanzia, di assistenza legale e di funzione rieducativa, proprio mentre si impongono agli Stati membri principi per noi scontati, proprio mentre l’Italia si attesta quale autentico modello in campo internazionale.


Se obiettiva e chiara è l’inadeguatezza tanto dei “vecchi” Tribunali minorili, parimenti evidente è la logica asfittica della “Sezione”, ancorché distrettuale (che rischia di essere “gonfiata” abnormemente di competenze tanto da rischiare una sorta d’implosione, con paralisi dei tempi e grave impaccio nell’operatività), a tacere delle Sezioni Circondariali (il fronte della riforma più vistosamente sguarnito).


Da qui la battaglia comune in funzione di un autonomo Tribunale per la persona e la famiglia, avuto riguardo a un fattore ulteriore decisivo.


Negli anni, il mondo della giustizia ordinaria che tratta la materia familiare, compreso quello delle Corti d’appello in cui operano Sezioni specializzate per i minorenni e la famiglia, ha compiuto rilevanti passi in avanti sul piano di una professionalità sempre più raffinata, ormai avvezza al confronto con la magistratura minorile e ad affrontare questioni complesse.


Si pensi alla cruciale tematica dell’ascolto del minore, alla stipulazione di Protocolli d’intesa su numerose materie (degno di nota, da ultimo, è il Protocollo di intesa siglato tra gli uffici giudiziari di Reggio Calabria a tutela dei “minori di ‘ndrangheta” destinatari dei provvedimenti giudiziari civili e penali), alla proficua interazione sia con i magistrati del penale (Gruppi tutela Fasce Deboli nelle Procure; giudici dibattimentali specializzati sui temi dell’abuso e del maltrattamento) che con un’Avvocatura che, parimenti, si è molto specializzata e opera con una sensibilità omogenea, al di là dei diversi riti, sia nelle procedure presso il Tribunale ordinario che in quelle innanzi al Tribunale per i Minorenni.


Che magistrati con esperienze diverse, ma professionalità ormai affini, possano operare in una struttura unitaria, in cui si realizzi la confluenza e la fusione sia delle competenze che delle professionalità, comprese quelle della componente onoraria (e superandosi anche le problematiche riguardanti la sorte delle attuali Procure minorili, che anzi dovrebbero essere potenziate), sarebbe una conquista di grande livello su tutti i piani.


Da quello dell’effettività della tutela delle persone, in primis di minore età, a quello di una funzionale gestione dei conflitti e dei più generali problemi delle famiglie; di cui, comprese ovviamente quelle monoparentali, i minori fanno comunque parte, al di là della situazione di chi giunge nel nostro Paese non accompagnato.


La tensione deve essere, pertanto, per una riforma comunque e significativamente migliorativa di un mondo composito, dove operano sia i magistrati ordinari, sia la cospicua − e numericamente prevalente − componente onoraria, che garantisce l’approccio multi professionale, e in cui convivono varie “anime”, nella indiscutibile comune considerazione che l’esperienza della giustizia minorile italiana è un patrimonio inestimabile.


E la specializzazione non potrà se non passare attraverso il mantenimento della esclusività delle funzioni sia per i giudici sia per i pubblici ministeri, della composizione mista dei collegi nelle materie in cui è in gioco la valutazione del pregiudizio o dell’abbandono, oltre che nel penale; attraverso l’attribuzione e per intero all’ufficio specializzato gli interventi a tutela dei minori stranieri non accompagnati; attraverso l’attribuzione agli stessi magistrati delle competenze civili e di quelle penali minorili.


A tal ultimo riguardo si evidenzia che la genesi delle misure civili indicate è generalmente il processo penale.


I provvedimenti civili trovano fondamento e impulso nelle informazioni (accertamenti sulla personalità del minorenne) acquisite ex art. 9 dpr 448 (circa le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne)in correlazione con il fatto storico oggetto del processo penale, che così costituisce un’occasione di interventi educativi mirati, che possono favorire lo sviluppo della personalità del giovane e il suo recupero.


In altri termini, le indagini sulla personalità, svolte in correlazione al fatto penale contestato al minorenne, sono funzionali non soltanto all’accertamento della sussistenza della capacità di intendere e di volere, alla rilevanza sociale del fatto e al grado di responsabilità, ma anche all’individuazione della risposta giudiziaria più adeguata (che può essere solo penale o mista penale/civile) alle difficoltà personali, familiari e sociali che il minore ha reso evidenti mediante la commissione di un fatto penalmente rilevante.


I servizi minorili dell’amministrazione della giustizia sono poi lo strumento privilegiato per svolgere gli accertamenti; è raro, infatti, che il servizio sociale dell’ente locale o le altre agenzie/istituzioni deputate alla prevenzione segnalino autonomamente condotte irregolari agite da minori appartenenti a determinate “famiglie”.


In conclusione, il procedimento penale rappresenta l’unica possibilità per focalizzare la situazione personale del minore e rappresenta per l’indagato/ imputato un’opportunità educativa, un possibile momento – forse l’esclusivo − di cesura rispetto al passato.


La specializzazione e l’esclusività delle funzioni, in una materia delicata che esige conoscenze particolari, è un principio irrinunciabile.


E corollario fondamentale è la salvaguardia della struttura unitaria del nuovo organo giudiziario.


La frammentazione delle competenze e la correlata impossibilità di una prospettiva unitaria del minore e delle sue dinamiche familiari non consentirebbero di operare il necessario travaso di informazioni e di strumenti di tutela – dal penale al civile e viceversa –, con grave depotenziamento dell’efficacia degli interventi rieducativi.


Analogamente, l’autonomia gestionale – profondamente intaccata dal progetto di riforma – rappresenta una condizione imprescindibile per l’esercizio di una giurisdizione mirata e funzionale, che deve necessariamente interloquire − con modalità flessibili e senza vincoli gerarchici − con soggetti esterni, quali l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, la giunta regionale, gli enti locali, le aziende sanitarie e le associazioni di volontariato.


Parimenti, la necessità di mantenere un’interlocuzione costante con i minori e di seguire in modo approfondito le singole vicende, al fine di calibrare interventi tempestivi, sostanziano tutti fattori che sconsigliano di appesantire con ulteriori attribuzioni di competenza, a pena di uno scadimento della qualità della risposta giudiziaria, le strutture giudiziarie deputate alla tutela dei minorenni.


È un settore di giurisdizione non minoritario, che non può essere mortificato dalla logica dei numeri e dei flussi, in un’ottica aziendale e di limitato orizzonte, perché i minori rappresentano il futuro della nostra società e in loro è riposta la speranza di rinnovamento culturale possibile.


Questo e solo questo è il sistema capace di coniugare le esigenze di specializzazione e quelle di prossimità e di salvaguardare il bene prezioso della cultura minorile, ormai uscita dagli argini di una dimensione elitaria e sempre di più valore diffuso anche oltre i confini degli Uffici giudiziari.

Autore
Tommasina Cotroneo
Componente del CDC dell’ANM

L’obiettivo primario deve essere quello della creazione di un Tribunale per la persona e la famiglia autonomo e su base distrettuale, con articolazioni territoriali, sul modello del Tribunale di Sorveglianza, che realizzino per quanto possibile il modello della giustizia di prossimità Tommasina Cotroneo