Le donne non hanno mai amato la
retorica delle celebrazioni perché la loro presenza è sempre stata
cancellata dalla Storia, nonostante ne fossero quotidiane, ma
silenti, protagoniste.
Eppure oggi, 9 febbraio 2013, ci
troviamo a contare il passaggio di cinquant'anni dalla legge n. 66
che sancì l' Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle
libere professioni "compresa la
Magistratura".
Le poche righe dell'articolo 1
della citata legge includono ed escludono allo stesso tempo; sono
scritte per non dimenticare ma, più ancora, per non fare
dimenticare.
Per non dimenticare che le donne, per il loro
genere, erano escluse dal luogo di potere per eccellenza, come la
giurisdizione, per i millenari pregiudizi costruiti appositamente,
giorno per giorno, imponendo il monopolio di un unico punto di
vista, falsamente universale. "E' fatua, è leggera, è superficiale,
emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò,
approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi
inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella
loro giusta portata, i delitti e i delinquenti": questa la
descrizione pervasiva ed umiliante, rimbombata persino nelle aule
dell'Assemblea costituente, necessaria per tenere la donna lontana
dall'attività interpretativa. Alla fine, dopo estenuanti battaglie
politiche, ma più ancora culturali, era stata ammessa.
Per non far
dimenticare che una cessione di potere così sofferta non
poteva essere gratuita, ma doveva essere bilanciata da
un'esclusione simbolicamente significativa. L'articolo 1, dopo
averla ammessa in magistratura, al secondo comma lasciava fuori la
donna dalle Forze Armate, l'ultimo baluardo del potere maschile: il
monopolio del conflitto, la guerra.
Oggi vogliamo ricordare questa legge fuori dai rituali stanchi di
una memoria senza memoria, perché i magistrati, per l'istituzione
che rappresentano e per il ruolo costituzionale loro assegnato,
hanno l'obbligo di essere provocati anche dalla conoscenza e dalla
consapevolezza della loro storia.
Non ho trovato sui giornali
dell'epoca titoli in prima pagina che raccontassero con
l'entusiasmo del traguardo raggiunto, a caratteri cubitali,
l'approvazione della legge n. 66 con cui si aprivano le aule di
giustizia alle donne sullo scranno più alto e non più solo su
quello delle vittime dei reati. Non è un caso. Si era tentato,
ancora una volta, con il silenzio, di rendere invisibile la
rivoluzione culturale che prendeva il suo avvio, riducendo a pura
manovalanza l'ingresso delle donne in magistratura perché "Vi è
molto bisogno in tutti i gradi della magistratura di nuove giovani
forze per aiutare il disbrigo di molte cause da tempo
giacenti". Un modo sottile per immiserire il senso di una
conquista culturale e sociale e per non riconoscere alle donne che
il loro ingresso era frutto dell'applicazione dell'articolo 3 della
Costituzione Repubblicana violato, ogni giorno, per ben 15
anni.
Dalle 8 donne del 1963, si è passati alle 4006 del 2012 (su 8678
magistrati) con un incremento massiccio che non ha soltanto
riequilibrato la presenza dei generi in magistratura, ma ha
arricchito l'attività interpretativa offrendo un punto di vista
negato e una storia nascosta all'interno del luogo maschile per
eccellenza, come è quello dell'interpretazione della legge. Ecco
perché 50 anni sono un soffio rispetto alla nostra storia.
Ma essere più donne non basta se
non si costruisce la consapevolezza della nostra appartenenza di
genere, consapevolezza indispensabile per disarticolare il
pregiudizio che ancora si annida, in modo subdolo, dentro e fuori
delle nostre aule, e per rompere il tetto di cristallo che vede le
donne in una percentuale irrisoria e mortificante negli uffici
direttivi (18 % nei Tribunali e 11 % nelle Procure, dati al
2012).
Se è vero, come scriveva Isabel Allende in Paula, che "non mi
interessa ciò che mi è accaduto, ma le cicatrici che mi segnano e
mi distinguono", la magistratura, composta da uomini e donne,
proprio grazie a queste cicatrici oggi puo' dire di avere avviato
la loro rimarginazione con la scoperta di una toga che avvolge il
maschile e il femminile nell'unica prospettiva di offrire un
servizio professionale, culturalmente impegnato, sobrio ed
efficiente ai cittadini e alle cittadine di questo Paese.
Paola Di Nicola giudice del Tribunale di Roma