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26 ottobre 2013

Intervento di Michele Vietti, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura

XXXI Congresso Nazionale dell'Associazione Nazionale Magistrati


Michele-Vietti.jpg  , Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura


Con sincero piacere ho accolto l’invito che il Presidente dell’ANM ha voluto rinnovarmi ad intervenire nell’ambito di questo momento di confronto congressuale.
Vi porgo il mio saluto personale e quello dell’Organo che ho l’onore di rappresentare.


In apertura non posso esimermi dal guardare brevemente al percorso compiuto, non per indulgere all'autocitazione ma per affrontare con consapevolezza il futuro.
Esattamente tre anni fa, da poco eletto Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, vi ho parlato del problematico ruolo politico della magistratura, della sua necessaria legittimazione democratica, dell’esigenza di incrementare il controllo interno di qualità, quale misura essenziale di autocorrezione.
Richiamavo anche la necessità di azioni energiche per il servizio giustizia, sollecitando il coraggio nell’opera di revisione delle circoscrizioni giudiziarie e l’urgenza di garantire la copertura di uffici di procura in condizione di criticità, anche attraverso i magistrati di prima nomina.
La mozione conclusiva di quel XXX Congresso nazionale esprimeva un’intenzione reale di “voltare pagina” assegnando centralità ai temi dell’autoriforma, della questione morale e dell’organizzazione, anche nella prospettiva di un auspicato superamento degli aspetti degenerativi insiti nel sistema delle correnti.
Trassi dall'evidente sintonia un conforto: l’Associazione ed il Consiglio, pur nei diversi ruoli, si mostravano - ed erano davvero – solidali nell’obiettivo del rinnovamento.

Non amo i cahiers de dolehance.
Quindi partiamo dalle poste attive del nostro bilancio.
Il tagliando della macchina giustizia, secondo quella progettualità che era stata anche tra noi condivisa, offre, ad oggi, qualche risultato di miglioramento.
L'opera di revisione delle circoscrizioni giudiziarie costituisce un buon traguardo, raggiunto grazie all'impegno profuso da tutti i protagonisti istituzionali della riforma.
Il positivo superamento degli ostacoli alla copertura degli uffici di procura, la sperimentazione degli standard di rendimento, l’elaborazione dei piani di smaltimento dell’arretrato, un miglior impiego della magistratura onoraria, sono ascrivibili tra i frutti positivi di questa stagione.
La fin troppo consistente attività consiliare di produzione normativa secondaria ha toccato settori nevralgici del governo autonomo, quali il collocamento fuori ruolo o gli incarichi extragiudiziari.
Il controllo della professionalità e il conferimento e la conferma degli incarichi direttivi hanno fatto registrare apprezzabili sforzi, anche se a mio parere ancora lontani per tempestivita' e rigore da un auspicabile sistema davvero selettivo.
Il consolidamento della natura giurisdizionale della Sezione disciplinare del Consiglio, ribadito nella recente sentenza CEDU (Di Giovanni vs. Italia), del luglio 2013, che ha consacrato il giudice disciplinare quale «tribunale costituito per legge, indipendente e imparziale», e' andato di pari passo con un risultato che smentisce ogni luogo comune sulla "giustizia domestica".


Ciò detto dei meccanismi interni, quello che costituisce il maggior punto critico del sistema giudiziario, è il versante esterno, quel cruciale piano dell’interlocuzione della magistratura con il resto dello Stato, momento di snodo o talora nodo gordiano degli equilibri costituzionali.
Sono convinto che sia questo oggi il vero problema del potere giudiziario, cioè la ricerca, anzi la necessaria riappropriazione di un ruolo legittimo e legittimante all’interno dell’ordinamento, spendibile appieno sul palcoscenico del comune sentire, non trascurando che una sola defaillance in questo ambito, ben lo si sa, ha, purtroppo, una risonanza più clamorosa e destabilizzante rispetto alla foresta di magistrati che lavora silenziosamente.


Ora, se una questione tanto cruciale continua ancora a polarizzare l’attenzione, vuol dire che tutti i propositi formulati in passato sono falliti, e ciò, molto probabilmente, perché le metodiche di approccio al problema erano inadeguate.


La nostra Carta fondamentale ha adottato un sistema di suddivisione dinamica dei poteri, ciascuno investito delle molteplici manifestazioni funzionali della sovranità. Tutti i poteri risultano costituiti in posizione reciproca di potenziale equilibrio, collaborazione e controllo, con l’unico limite del non cumulo, ad evitare cioè il rischio che il medesimo soggetto istituzionale possa esercitare all’interno dello stesso ciclo funzionale due o più attività fondamentali dello Stato.
All’interno di questo modello di pluralismo istituzionale, nel quale il principio della reciproca separazione è corretto con quello di reciproco bilanciamento, si staglia il moderno modello di giudice.


Il disegno costituzionale ruota intorno a due cardini regolativi fondamentali, tra loro interconnessi: l’esercizio della giustizia in nome del popolo, con soggezione dei giudici solo alla legge (art. 101, 1° e 2° comma) e l’indipendenza e l’autonomia dell’ordine magistratuale rispetto ad ogni altro potere (art. 104, 1° comma).
La democrazia rimane il fondamento ultimo anche della funzione giurisdizionale, sia nel senso che l’oggetto ed i limiti di questo potere sono strumentali alla sovranità popolare, sia nel senso che, per essere indipendente, questa funzione non può che essere uguale per tutti.
Per altro verso, la sottrazione della funzione giurisdizionale ai circuiti rappresentativi tipicamente politici, fondati sul consenso elettorale, è strettamente correlata alla prevista sottoposizione del giudice alla sola legge, atto in cui si esprime la sovranità popolare attraverso la manifestazione di volontà del suo organo rappresentativo.
Rimane tuttavia fermo, ed è peraltro un aspetto essenziale anche ai fini del regime della responsabilità del magistrato che, nell’equilibrio dinamico tra legalità e giurisdizione, la Costituzione ha chiaramente delineato una subordinazione strutturale della funzione giurisdizionale a quella legislativa.
Il nesso di soggezione alla legge impresso all’attività giudiziaria è ciò che fonda e giustifica il secondo dei canoni portanti dell’ordinamento costituzionale, cioè l’indipendenza dei giudici da ogni altro potere.
Tuttavia il giudice ben può, anzi deve porsi nei confronti della medesima legge come un collaboratore qualificato, impegnato a mantenere ed a vivificare l’ordine giuridico.
Il dogma di preminenza della legge, in realtà, può trovare concretizzazione solo attraverso l’opera di mediazione del giudice, ai fini della concreta applicazione del diritto positivo, cifra di dialogo tra self restraint.


Questo modello costituzionale ha ben funzionato sino a quando - per riprendere un concetto della relazione del Presidente Sabelli - l’unico argine al potere giudiziario, cioè la legge, si è incrinato.


E’ sotto gli occhi di tutti come le modificazioni intervenute nella realtà sociale e l’evoluzione degli assetti democratici abbiano, già da tempo, rivelato l’insufficienza regolatrice della legge.
E’ il tempo non di rassegnarsi, ma certo di riconoscere che è tramontata l’illusione di una società omogenea, legata da un universo condiviso di interessi e valori.
La legge si è giocoforza trasformata in un prodotto ibrido, spesso ambiguo, quasi sempre emergenziale e non strutturale, senza contare quel suo scadimento qualitativo, denunciato da norme mal congegnate, sovente confuse e vaghe, troppo spesso risultato di interventi illogici e contraddittori.
L’origine prettamente compromissoria del prodotto regolativo delle legislature più recenti, frutto di negoziazione tra componenti politiche indebolite sul piano valoriale e comunque rappresentative di interessi settoriali, lo priva alla nascita di un proprio significato precettivo univoco.


A cascata, gli eventi storici dimostrano come questa crisi di identita' della legge abbia indotto, storicamente, un riposizionamento funzionale del giudice, coinvolgendolo nel ruolo di protagonista della scena ordinamentale.
L’attivismo giudiziario, di per se' stesso, risulta il sintomo più lampante della trasformazione della democrazia: la magistratura, nella mutazione genetica della normazione, e' esondata in ambiti anche non pertinenti ed ha assunto su di sé, con l’avallo forse inconsapevole di una politica intimidita, una fetta supplementare di sovranità, facendosi, in proprio, garante di nuove forme di aspettativa politica.
In un tempo non lontano il confine tra magistratura e politica era presidiato dall'art. 68 della Costituzione, inteso come guarentigia della politica rispetto ad un indiscriminato sindacato da parte della magistratura.
La delegittimazione della politica, che in un Paese come il nostro a basso tasso di legalita' ha visto ampiamente contaminata anche la sua classe dirigente, unita all'abuso che di quell'istituto si è fatto, ha trasformato l'art 68 da guarentigia in privilegio intollerabile per la pubblica opinione.
L'abolizione dell'autorizzazione a procedere, votata dal Parlamento a furor di popolo, nel medio periodo ha tuttavia portato ad un affievolimento della linea di confine tra giustizia e politica.
Ne è conseguito, se il riferimento ludico non fosse inappropriato, un gioco permanente di "guardie e ladri", in cui lo stereotipo del ruolo prevale sull'impianto istituzionale.
La politica si è asserragliata nel Palazzo gridando ai complotti persecutori, senza preoccuparsi di dare l'impressione di voler cambiare gioco.


D'altro canto nella foga del "populismo giudiziario" - come ha ricordato ieri il Presidente Santacroce citando un recente saggio di Luigi Ferrajoli - qualcuno nella magistratura ha pensato che si potesse giustificare tutto, dall'uso soggettivistico del diritto, allo sfruttamento strumentale della gogna mediatica come punizione succedanea rispetto al processo, al "carrierismo da indagine" ed all'eccesso di protagonismo di alcuni Pubblici Ministeri, lontanissimo dalla loro qualità di magistrati, che finisce per portare acqua al mulino della separazione delle carriere.
Tutto cio' con conseguente perdita di credibilità e di fiducia da parte dei cittadini che, se pur sanno distinguere i ruoli dei giocatori, di fronte alla violazione delle regole del gioco rischiano di perdere fiducia in entrambe le istituzioni.


Passando dalla diagnosi alla possibile terapia, occorre una sincera autocritica da parte di tutti. La politica abbandoni gli atteggiamenti vittimistici e faccia il proprio mestiere: la legge. Se ritiene che il quadro normativo vigente, entro cui i magistrati si muovono, non corrisponda alle esigenze collettive, lo modifichi. E così: se i presupposti delle indagini sono indefiniti, li definisca; se le indagini preliminari sono troppo lunghe, indichi un termine inferiore; se le proroghe sono immotivate, imponga un onere motivazionale rafforzato; se, soprattutto gli strumenti investigativi piu' invasivi, si prestano a ricercare i reati e non le prove, metta finalmente mano alla loro riforma; se le incriminazioni sono troppe eviti di rispondere ad ogni emergenza con una norma penale e magari depenalizzi sul serio; se l'esercizio dell'azione penale rischia la discrezionalita', individui criteri di priorita' condivisi; se i processi penali durano troppo riveda la prescrizione, che oggi consente di vincere a chi perde tempo; se il ricorso alla custodia cautelare e' eccessivo lo si limiti; se ci sono troppi detenuti ricorra a forme afflittive alternative al carcere; se il processo civile ha tempi irragionevoli preveda sul serio circuiti alternativi a quello giudiziario e renda più flessibile il rito; se le porte girevoli dei magistrati in politica sono troppo larghe le si restringa.
La terapia della legge ammalata è un passaggio fondamentale per la corretta rifondazione dell’equilibrio tra i poteri.


Con un sano disincantato realismo, non mi voglio però cullare nelle illusioni.
Se viceversa il potere legislativo ed anche quello esecutivo rimanessero inerti, cosa dovrebbe fare comunque la magistratura?
A salvataggio di un sistema squilibrato, torna come determinante e dirimente per il potere giudiziario l’esigenza indifferibile dell’autocorrezione, anche per prevenire interventi eteronomi a scapito dell’indipendenza stessa.
Sono fermamente convinto che la magistratura, nella società attuale, debba rispettare, auto-imponendosela, una direttrice di self restraint, ritrovando in se' stessa e nell’impalcatura costituzionale, il proprio argine naturale.
In queste occasioni, il corpo giudiziario tutto, rifuggendo da logiche di apparato e di difesa corporativa, dovrebbe con maturità avvertirsi sempre meno come potere, e sempre più come ordine, cioè come momento di razionalità ed equilibrio del sistema, assicurando quel reale servizio di composizione dei conflitti, di cui la collettività tanto necessita.
Un servizio che può essere reso ai cittadini in modo efficiente solo se la magistratura prendera' realmente coscienza del valore dell'organizzazione. La risposta alla domanda di giustizia deve essere non solo tecnicamente inappuntabile, ma anche tempestiva.
Il fattore-tempo non è una variabile indipendente della funzione giudiziaria; al contrario, nella società moderna sempre più globalizzata, la rapidita' e la prevedibilita' della risposta giudiziaria finisce per garantire l'affidabilita' dell'intero sistema, contribuendo in maniera determinante anche ad orientare le decisioni degli investitori, cosi' da divenire un fattore della competitività dello Stato.
Nessuno vuole, beninteso, una magistratura burocratizzata ed impiegatizia, ma si richiede un modello culturale più appropriato alla funzione magistratuale nella sua intima essenza e nella sua alta vocazione, che l’azione associativa può ben contribuire a stimolare.
Evitiamo la tentazione di sostituirci alla legge, padrone assente; anche recenti eventi di cronaca ci insegnano che nessun magistrato possiede gli strumenti per surrogare il legislatore nelle scelte di valore che solo a quest’ultimo competono e il mercato nelle sue dinamiche.
Con l’aggravante che le invasioni di campo portano con se' il rischio di una generalizzata delegittimazione dell’ordine e soprattutto di evanescenza delle responsabilità, all’interno di un vero e proprio cortocircuito istituzionale e politico.
Il sottrarsi alla logica del conflitto contribuirebbe alla rifondazione di un equilibrio ormai smarrito da tempo, mettendo in mora i soggetti istituzionali che devono attivarsi per fornire risposte, così riattivando il fisiologico metabolismo del corpo statuale.
Il silenzio, la neutralità, la compostezza e la continenza dovrebbero essere, a mio avviso, i fari che illuminano questo faticoso cammino di riappropriazione di un’identità.
Di questo alto profilo di dover essere, voi tutti siete già ben consapevoli e ciò dico anche solo riguardando quel codice etico che avete voluto in autonomia rinnovare nel 2010, quel codice tutto imperniato su un ideale di magistrato capace di autolimitarsi: di non frequentare, di non dire, di astenersi, di rinunciare. E’ la forza di chi sa autocontenersi nel proprio ruolo e si fa così autorevole e credibile.
Il processo di autoriforma non può tuttavia non riguardare anche gli altri protagonisti della vita giudiziaria.
Il CSM deve continuare a perseguire le finalità proprie del governo autonomo, con sempre maggiore consapevolezza della dignità della sua funzione, presidio ultimo di indipendenza ed insieme di legalità della giurisdizione, consolidando la propria autorevolezza, garanzia della sua stessa sopravvivenza.
E l'autorevolezza passa attraverso l'equilibrato esercizio della irrunciabile discrezionalità amministrativa, che va preservata con una prassi virtuosa.
Il Ministero della Giustizia, dal canto suo, dovrebbe passare dalle parole ai fatti sul fronte dell'organizzazione degli uffici, dell'informatizzazione, delle risorse materiali ed umane da mettere a disposizione, rivendicando con forza, anche in sede politica, la priorità del servizio giustizia, che non si fa solo con la buona volontà dei magistrati e degli altri operatori.
La magistratura a sua volta deve sostenere la sfida di un potere, che, in ossimoro, va vissuto eticamente come servizio, l’esclusiva possibilità per concretizzare quell’archetipo della civiltà che è l’ideale dell’”opus iustitiae pax”: non vi può essere pace fra gli uomini senza giustizia!



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