Si è tornati a parlare di separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri con il disegno di legge di iniziativa popolare promosso dall’Unione delle Camere Penali nella scorsa primavera.
A ben leggere la proposta in esame non si occupa solo del tema della separazione delle carriere – l’unico che viene diffuso mediaticamente (cfr. www.separazionedellecarriere.it: “Due Csm, due carriere, una giustizia”) – ma investe anche i delicati ambiti delle modalità di selezione dei magistrati, della composizione del CSM e della obbligatorietà dell’azione penale.
La nostra Carta Costituzionale vuole la magistratura, selezionata per concorso pubblico (art. 106), quale ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere stabilendo, a tal fine, la prevalenza, nel Consiglio Superiore della Magistratura, dei componenti eletti dai magistrati (art. 104); inserisce in essa il pubblico ministero (art. 104), al quale assicura le stesse garanzie del giudice in tema di reclutamento, inamovibilità della sede e soggezione al controllo del CSM oltre che il godimento di quelle per esso stabilite dall’ordinamento giudiziario (art. 107) ed, affermata l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112), allo stesso attribuisce la disponibilità della polizia giudiziaria (art. 109). La proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, elaborata dall’Unione delle Camere Penali, mira a stravolgere il descritto impianto costituzionale prevedendo:
- la possibilità di nominare, a tutti i livelli della magistratura giudicante, avvocati e professori ordinari universitari di materie giuridiche al di fuori della selezione con pubblico concorso;
- la modifica della composizione dei membri elettivi dei due istituendi CSM rispetto a quello unitario esistente, passando dalla prevalenza numerica della componente togata, costituzionalizzata oggi nella misura dei due terzi, alla sua parificazione rispetto a quella laica, di nomina politica;
- la eliminazione del principio della obbligatorietà dell’azione penale; la separazione formale dell’ordine giudiziario nelle due categorie della magistratura giudicante e della magistratura requirente con previsione di distinti concorsi, per l’accesso in esse, e di distinti CSM;
- l’abrogazione del comma 3 dell’art. 107 che prevede le garanzie ordinamentali in favore del pubblico ministero.
Si tratta di modifiche che incidono sui presidi costituzionali a tutela della indipendenza ed autonomia della magistratura:
LE DEROGHE AL CONCORSO PUBBLICO
La valutazione del grado di autonomia ed indipendenza di un ordine giudiziario non può prescindere dalle modalità di reclutamento dei suoi componenti ed il modello concorsuale offre garanzie impareggiabili rispetto a qualunque altro sistema di selezione di matrice politica.
Il concorso pubblico, come unica modalità di accesso alla magistratura, al pari di ogni pubblico ufficio, garantisce, infatti, una selezione meramente tecnica e, quindi, professionalmente adeguata, imparziale e socialmente rappresentativa dei candidati.
La proposta di legge in commento mina tale sistema consentendo un’ampia deroga al reclutamento per concorso pubblico in favore di avvocati e professori universitari. La stessa proposta palesa, inoltre, l’evidente incoerenza di sistema laddove, in nome della garanzia della terzietà del giudice, impedisce ai componenti della magistratura requirente - separati, autonomi, indipendenti e selezionati in modo imparziale – l’accesso alla magistratura giudicante, consentendolo, invece, a tutti i livelli, all’avvocatura, pur essa portatrice di una cultura processuale di parte ed, in ipotesi, non selezionata in modo concorsuale.
LA MODIFICA ALLA COMPOSIZIONE DEL CSM
La composizione mista, laica e togata, del Consiglio Superiore della Magistratura garantisce l’equilibrio tra l’esigenza di tutelare l’indipendenza della magistratura e quella di evitare l’isolamento autoreferenziale della stessa creando un rapporto costruttivo con gli altri poteri dello Stato e con la società.
D’altra parte è di solare evidenza che la diversa composizione percentuale delle componenti, laica e togata, incide fortemente sui rispettivi rapporti e sugli equilibri nei processi decisionali dell’organo del governo autonomo della Magistratura.
Con la parificazione del numero dei componenti di nomina politica a quello dei componenti eletti dai magistrati, l’Unione delle Camere Penali incide proprio sull’autonomia dell’organo di governo della magistratura chiedendo, nella sostanza, che, nelle decisioni sulla carriera dei magistrati, giudicanti e requirenti, e sulle vicende degli uffici giudiziari, la politica abbia un peso determinante, ben superiore a quello che ha oggi.
LA SOPPRESSIONE DEL PRINCIPIO DELL’OBBLIGATORIETÀ DELL’AZIONE PENALE
L’obbligatorietà dell’azione penale rappresenta la proiezione processuale del diritto di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e postula l’indipendenza del PM a cui l’azione stessa è demandata: questi, infatti, ha l’obbligo di legge di avviare l’indagine preliminare per ogni tipo di reato di cui egli abbia notizia ed i cittadini possono contare sulla garanzia che tutti i soggetti, indagati di qualsiasi reato, salvo il caso di archiviazione, saranno condotti dinanzi ad un tribunale per essere giudicati senza distinzione di razza, religione, censo, idea politica.
Sono note le difficoltà di effettiva realizzazione del principio di obbligatorietà legate all’elevatissimo e crescente numero di notizie di reato che pervengono agli uffici di procura ed alla conseguente criticità della loro gestione.
L’Unione delle Camere Penali propone di risolvere tale criticità introducendo la discrezionalità dell’azione penale ed affidandone i criteri di esercizio al Parlamento, in tal modo rimettendo alla maggioranza politica di turno la scelta di quali reati perseguire e, quindi, al dibattito parlamentare il controllo del modo di operare degli uffici giudiziari. Diversamente, deve riaffermarsi che le problematiche legate al numero dei procedimenti ed alla ipertrofia dell’azione penale non vanno risolte sopprimendo uno dei principi cardine di civiltà giuridica della nostra tradizione ma operando sulle cause della proliferazione dei procedimenti - prima fra tutte, la tendenza della politica a demandare alla giustizia penale il controllo di legalità sull’operato dei consociati - con una seria depenalizzazione e sull’adeguamento degli organici della magistratura e sulla loro effettiva copertura.
LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE
L’inserimento del pubblico ministero nella giurisdizione garantisce la tutela della libertà e dei diritti patrimoniali del cittadino nei confronti dello Stato:
- per il ruolo istituzionale di controllo sulla legalità dell’operato della polizia giudiziaria che ne rende palese la natura di organo di giustizia vicino più alla figura del giudice che a quella di parte deputata a sostenere in sede processuale le tesi della polizia, come avviene negli ordinamenti ispirati al modello accusatorio puro;
- per il compito di conduzione dell’attività di indagine in funzione, non tanto e, comunque, non solo dell’immediato risultato legato all’esecuzione di misure cautelari, ma del suo successivo vaglio dibattimentale;
- per il controllo imparziale ed autonomo che, in tal modo, si assicura sull’operato dello stesso pubblico ministero.
- La separazione delle carriere, proposta dall’Unione delle Camere Penali al declamato fine di realizzare i principi costituzionali del giusto processo ex art. 111 Cost., va letta nel più ampio quadro delle altre modifiche proposte, sopra esaminate, che, come detto, mirano, nel loro complesso, a rendere molto più pregnante il condizionamento della politica sulla magistratura.
Mantenere la formale garanzia dei principi costituzionali dell’autonomia ed indipendenza anche per la magistratura requirente ma poi segregarla istituzionalmente rispetto a quella giudicante vuole dire, portarla, in modo inevitabile, alle dipendenze dalla politica, come era prima del r.d.l. n. 511/1946. Il potere del PM o è ancorato alla giurisdizione o deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica.
Alessandro Pizzorusso, compianto costituzionalista che tanto impegno ha dedicato alle tematiche dell’ordinamento giudiziario, ha affermato: “... la rivendicazione della separazione delle carriere viene agitata come una clava, senza tener conto del fatto che un pubblico ministero assolutamente indipendente e rigorosamente gerarchizzato (con la polizia ai suoi ordini) costituirebbe il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea (e infatti non lo si è mai avuto in alcun paese)” (in “La Costituzione ferita”, 1999).
L’esame del panorama internazionale evidenzia, infatti, che, nella quasi totalità degli ordinamenti degli Stati a democrazia avanzata, ove esiste la separazione delle carriere, il PM, di regola, dipende dall’esecutivo e si registrano serie criticità nel garantirne l’indipendenza.
In tale contesto, è improprio il richiamo all’art. 111 della Costituzione, disposizione che nulla ha a che vedere con la tematica della separazione delle carriere: la parità tra le parti, a cui la citata disposizione costituzionale fa riferimento, è quella endoprocessuale ed, in tale sede, essa è pienamente garantita dalle regole di procedura che vedono, dinanzi al giudice, accusa e difesa su un piano di assoluta parità assicurando alle stesse facoltà del tutto equivalenti.
L’art. 111 della Costituzione, invece, non tocca il diverso ambito istituzionale nel quale, invece, i ruoli di pubblico ministero e difesa non possono che rimanere distinti, a meno di non voler abdicare, in nome della formale parificazione tra accusa e difesa, alle garanzie per la tutela dei cittadini che derivano dall’attuale posizione ordinamentale del PM. E’, infatti, proprio grazie all’odierna sua posizione ordinamentale all’interno della giurisdizione che il PM è tenuto a comportarsi con imparzialità, indirizzando la sua indagine alla ricerca della verità con l’acquisizione anche degli elementi di prova a favore dell’indagato, e a non tacere al giudice l’esistenza di fatti a vantaggio dell’imputato.
L’argomento - utilizzato dai proponenti della riforma costituzionale in esame - che i giudici possano simpatizzare con le tesi dell’accusa per l’appartenenza alla medesima categoria è mero sospetto gratuito, privo, come è, di validazione in termini di seria indagine statistica. Esso contrasta con la realtà della pratica giudiziaria se esaminata con serenità e senza faziosità.
La terzietà e l’indipendenza del giudice non si ricevono in dono dall’alto, al superamento del concorso, ma si acquisiscono con l’insegnamento e l’esempio dei colleghi più anziani, con l’esercizio quotidiano nelle aule di giustizia ove si impara ad ascoltare le parti, a valutare i fatti processuali ed a decidere sgombrando la mente da pregiudizi e condizionamenti di ogni sorta. Advocati nascuntur, iudices fiunt, ricordava Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei Giudici”, pagine che bisognerebbe rileggere per tenere a mente che, divenuti giudici, l’habitus mentale terzo ed imparziale resiste a forme di influenza ben più pregnanti del mero dato formale della unicità della carriera con i magistrati requirenti.
Va poi considerato che le restrizioni al passaggio di funzioni, introdotte dal d.lgs. n. 160/2006, come successivamente modificato dalla l. n. 111/2007, hanno fatto registrare un crollo della percentuale di mutamenti delle funzioni che, negli anni dal 2011 alla metà del 2016, ha interessato solo lo 0,83 % di requirenti e lo 0,21 % dei giudicanti sicché le funzioni possono ritenersi, nella sostanza, separate.
La formazione del PM, però, non può ritenersi limitata al solo aspetto della specializzazione nelle tecniche di indagine, certamente agevolata dalla stabilità nelle funzioni requirenti, dovendo, invece, continuamente alimentarsi della cultura della giurisdizione.
In tale prospettiva la tanto criticata e delimitata osmosi tra le funzioni di giudice e di PM continua a rappresentare una importante valvola per la valorizzazione della cultura della giurisdizione del PM e per essa non possono che auspicarsi future iniziative legislative, di segno opposto a quella in commento, con l’attenuazione dei vincoli territoriali, frapposti ad oggi, al mutamento delle funzioni.
Il rapido esame della proposta di legge in commento evidenzia, come filo conduttore di tutte le modifiche proposte, il sovvertimento dei principi costituzionali dell’autonomia e della indipendenza della magistratura rispetto agli altri poteri dello Stato, e tanto in controtendenza rispetto alla soft law in ambito europeo che, infatti, nel dettare linee e raccomandazioni sul ruolo del Pubblico Ministero, si ispira proprio al modello italiano (ci si riferisce, in particolare, alla raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2000 sul tema “The Role of Public Prosecution in the Criminal Justice System” e, più recentemente, alla “Roma Chapter”, approvata dal Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei nel 2014, che statuisce in modo assai incisivo: “L’indipendenza e l’autonomia del pubblico ministero costituiscono un corollario indispensabile dell’indipendenza del potere giudiziario. Pertanto, dovrebbe essere incoraggiata la tendenza generale a rafforzare l’indipendenza e l’effettiva autonomia del pubblico ministero; - I procuratori dovrebbero essere autonomi nel prendere le loro decisioni e dovrebbero svolgere i loro compiti senza pressioni esterne o interferenze, tenuto conto dei principi di separazione dei poteri e di responsabilità”).
Chi abbia a cuore i principi posti dalla Costituzione a presidio della indipendenza ed autonomia della magistratura tutta a garanzia dei cittadini non può che esprimere una netta contrarietà alla proposta di legge costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali che, alterando i rapporti tra poteri dello Stato con l’assoggettamento dell’ordine giudiziario al potere politico, finisce col fare della patologia di oggi la regola di domani.