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25 gennaio 2018

Social e toghe, Albamonte: «Un promemoria deontologico contro le insidie del Web»

ll presidente dell'ANM intervistato da Il Sole 24 Ore


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Appena insediato, la primavera scorsa, dopo le polemiche per le posizioni espresse da alcuni magistrati sui social, il neopresidente dell'Associazione nazionale magistrati Eugenio Albamonte (espressione di Area, il cartello di sinistra Magistratura democratica e Movimento per la giustizia) annunciò tra le priorità del suo mandato quello di fare del training ai colleghi sull'uso dei social network. Un impegno fatto proprio dal Comitato direttivo Anm, che nell'ultima riunione ha avviato il confronto per l'adozione di un “Codice di condotta” per i magistrati social, attrezzandoli contro le insidie di Facebook (ma anche delle mailing list e delle chat).


Il tema è quello di una sovrapposizione tra ruolo pubblico e opinioni private: è un problema sottovalutato dalle toghe?
«Il problema è comune a tutti quelli che non sono nativi digitali. Siano magistrati o altro, si rapportano ai social come se fossero una dimensione privata, senza rendersi conto che in realtà dimensione privata non è. Ci si dimentica che i social sono uno strumento di comunicazione rivolto in maniera generalizzata verso il pubblico anche nell'inconsapevolezza del titolare di un profilo. E questo dipende ad una scarsa conoscenza delle regole informatiche dei programmi utilizzati».


Come tutti, anche i magistrati attivano un profilo ma non leggono le istruzioni...
«C'è una scarsa conoscenza diffusa del fatto che determinate impostazioni rafforzano una dimensione “ristretta” - che non definirei privata - e vanno opportunamente selezionate e attivate. Chi già ha attivato una gestione “privata” del proprio profilo invece spesso dimentica che i contenuti pubblicati possono essere acquisiti dagli interlocutori ed essere quindi infinitamente riprodotti e divulgati, con conseguente perdita del controllo assoluto del dato inserito sui social. Una cosa può diventare un problema per alcune categorie come i magistrati che per dovere professionale in altri ambienti sono già chiamati - da regole deontologiche, comportamentali e in alcuni casi disciplinari - ad assumere atteggiamenti sempre coerenti con il loro ruolo e la loro immagine».


In questo scenario, quali saranno le indicazioni su cui sta lavorando l'Anm?
«In prima battuta puntiamo ad un aggiornamento del nostro Codice deontologico che già impegna i magistrati ad attenersi ad alcune regole comportamentali nella comunicazione pubblica. Nei contesti pubblici, dovremmo sempre muoverci come se avessimo la toga sulle spalle, quindi con la stessa attenzione che dovrebbe caratterizzare l'esercizio della funzione di magistrato. Quindi misura e rispetto dell'immagine di terzietà che l'ordinamento giustamente pretende e che noi magistrati dobbiamo custodire anche perché su questo si basa la nostra credibilità».


Quindi si tratterà di una sorta di promemoria deontologico per mettere in guardia dall’uso “sopra le righe” dei social network...
«Ripeto: sui social, i contenuti sono suscettibili di essere diffusi e rilanciati ben oltre la cerchia di quelli inizialmente ammessi al proprio profilo. A cose fatte si può anche discettare se chi ha acquisito e rilanciato un contenuto sia stato corretto o meno, ma a quel punto il danno all'immagine potrebbe essersi già verificato. L'Anm affronterà quindi il problema a monte:  non parliamo di netiquette degli utenti del web, quanto, a fronte di una scorrettezza altrui, di evitare un possibile danno alla nostra immagine, e l'unico modo di farlo è all’origine esercitando un autocontrollo preventivo al momento dell'utilizzo dei social».


Il Csm è già al lavoro per introdurre regole di social policy per i magistrati. Su questo fronte, vi aspettate una stretta sotto il profilo disciplinare?
«Dal 2006 i precetti disciplinari sono fissati per legge, quindi il Csm ha due strade: o la moral suasion, e fare delle Linee guida che avrebbero un valore indicativo come le nostre, oppure chiedere un intervento al legislatore per l'aggiornamento dei precetti disciplinari. Non sono informato sui lavori del Csm, ma mi aspetto più la prima che la seconda. Anche perché tra i precetti disciplinari si possono probabilmente già trovare dei paletti applicabili ai nuovi stili di comunicazione: quindi si tratta solo di alimentare l'attenzione e quindi l'autocontrollo da parte dei magistrati. E poi occorre stare attenti al fatto che qualsiasi intervento non può prescindere dal principio generale della libera manifestazione del pensiero: il discrimine in questo senso nei nostri codici disciplinari è già segnato».


Alcuni suoi colleghi sono finiti sotto i riflettori anche per le connessioni con avvocati impegnati sugli stessi casi in tribunale. Come deve essere considerata l'amicizia su Facebook tra un giudice e un avvocato?
«I codici di procedura civile e penale dettano principi molto chiari per quanto riguarda il dovere di astensione e l'eventuale ricusazione, che hanno come canone di riferimento le cosiddette ”frequentazioni abituali” dei magistrati. Ma questa è cosa molto diversa da un link tra due profili che i social definiscono in termini di “amicizia”, anche se capisco che ci possa essere il pericolo di un fraintendimento. Io credo però che in questi casi ci si debba tenere sul terreno solido della normativa esistente che prevede opportunamente che un giudice si astenga dal trattare una causa quando c'un avvocato con il quale c'è una frequentazione abituale».


Leggi l'intervista sul sito di Il Sole 24 Ore



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