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19 luglio 2021

L’ANM sugli emendamenti governativi al ddl di riforma del processo penale

L’ANM sugli emendamenti governativi al ddl di riforma del processo penale (A.C. 2435)*


*Il presente documento, elaborato dalla Giunta esecutiva centrale dell’ANM sul ddl di riforma del processo penale (AC 2435), racchiude i contenuti del contributo tecnico offerto il 19 luglio alla Camera dei deputati (subito dopo l’audizione avvenuta il 16 luglio, in Commissione giustizia, di una rappresentanza dell’ANM).


1. Prescrizione processuale. Premessa.
L’emendamento all’art. 14 aggiunge una previsione che interviene sul codice penale con l’aggiunta di un articolo, numero 344-bis, in tema di improcedibilità per superamento dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione.

La soluzione messa in campo dall’emendamento governativo non contiene una misura acceleratoria, capace di assicurare una durata ragionevole, ma un meccanismo eliminatorio di processi destinato ad operare senza poter essere illuminato da un criterio fondato sulla gravità e sulla natura dei reati oggetto di trattazione.

Ciò perché utilizza una predeterminazione in astratto del termine di durata dei procedimenti di impugnazione.


1.1. Procedimenti per reati di particolare allarme sociale.
Non tiene conto di un dato particolarmente significativo nel fissare un tempo unico valevole per ogni giudizio, con l’unica eccezione dei procedimenti per alcune categorie di reati in cui quel tempo, in caso di complessità dell’accertamento, può essere aumentato della metà.

Trascura, infatti, che l’attuale art. 157 cod. pen. in tema di prescrizione del reato – istituto che oggi sia pure impropriamente governa indirettamente i tempi del processo – prevede il raddoppio dei termini di prescrizione per alcuni reati che l’emendamento governativo trascura e che sono di particolare allarme sociale.

Si tratta, a volerne citare alcuni, dei delitti di depistaggio, di incendio e di disastro colposo, dell’omicidio colposo con violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, di omicidio stradale, di maltrattamenti in famiglia, di quelli contro l’ambiente, di riduzione in schiavitù, di prostituzione minorile, di tratta, di caporalato, di violenza sessuale.

Sarebbe allora opportuno prevedere che anche per i procedimenti aventi ad oggetto uno di tali delitti il tempo di definizione dei giudizi di impugnazione possa essere aumentato.


1.2. Astrattezza nella determinazione dei tempi dei giudizi.
La proposta emendativa guarda ai parametri utilizzati per il riconoscimento del diritto all’indennizzo da durata non ragionevole dei processi – cd. legge Pinto – e così finisce col sovrapporre due aspetti significativamente diversi.

Da un lato, il tempo ragionevole dei processi che non può che essere apprezzato ex post, in relazione alle singole vicende processuali, sulla base della complessità del caso e del comportamento delle parti, come affermato dalla concorde giurisprudenza della Corte Edu.

Dall’altro, il diritto all’indennizzo spettante all’imputato ove il processo si sia dilungato irragionevolmente (ma non certo in misura tale da meritare la brutale amputazione dell’improcedibilità dell’azione, che manda in fumo il lavoro compiuto nelle indagini e nel giudizio di primo grado).

Il fatto che un giudizio di appello che si protragga per più di due anni sia potenzialmente di durata irragionevole ai fini dell’indennizzo – dovendosi in ogni caso valutare, per poter liquidare l’indennizzo, “la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione” (così l’art. 2 l. n. 89 del 2001) – non significa certo che non meriti di essere definito.

Soprattutto non si vede come e perché esso debba travolgere, proprio per l’impossibilità di essere definito entro quello spazio temporale, l’accertamento compiuto nel grado o nei gradi precedenti.

Si realizzerebbe un azzeramento di non pochi processi con un costo sociale molto alto, e con un forte sacrificio dei diritti delle vittime.


1.3. Necessità dell’aumento dei tempi dei giudizi.
Una funzione acceleratoria dei giudizi di impugnazione potrebbe semmai essere riconosciuta ad una disciplina che adottasse tempi massimi di definizione rapportati non alla soglia più bassa, costruita in funzione del riconoscimento di un indennizzo, ma sulla soglia ragionevole, e la ragionevolezza si costruisce guardando alla realtà, alla condizione di tutti gli uffici, non solo a quella dei cd. Più virtuosi.

È ovvio che uno spazio temporale di maggiore ampiezza non comprimerebbe in alcun modo le capacità degli uffici non in sofferenza di assicurare lo svolgimento dei giudizi nel minor tempo; ma avrebbe il benefico effetto di fare di questo tempo ristretto non una tagliola dei processi che faticano a tenere il passo ma l’obiettivo a cui tutti gli uffici devono tendere.

Va dunque ribadito che la normativa delineata dall’emendamento governativo non ha alcuna funzione acceleratoria, di promozione di un obiettivo condiviso, quello della durata ragionevole dei processi, ma soltanto sanzionatoria, irragionevolmente sanzionatoria appunto perché non ha forgiato il termine nella considerazione approfondita della realtà di tutti gli uffici.

Ragionevole è quella regola che orienta le prassi verso obiettivi concretamente realizzabili e che cerca di migliorare la realtà muovendo e non prescindendo da essa.


1.4. Le ragioni della scarsa praticabilità della soluzione.
Va anche ricordato che la cd. prescrizione processuale fu oggetto di studio ad opera della Commissione ministeriale presieduta dal prof. Fiorella, istituita dal Ministro della Giustizia con d. m. 29 novembre 2012 per elaborare una proposta di revisione complessiva della prescrizione.

E che da quella Commissione fu scartata in forza della considerazione che “una prescrizione (di natura puramente processuale) orientata esclusivamente alla tutela della ragionevole durata del processo comporterebbe invero un’eccessiva rigidità del sistema”.

Osservò quella Commissione che “termini troppo brevi rischierebbero di non essere adeguati rispetto a vicende processuali particolarmente complesse, là dove la complessità di una singola vicenda processuale non è necessariamente connessa a determinate tipologie delittuose predeterminabili in astratto dal legislatore, ma è legata a fattori concreti quali il numero degli imputati e delle persone offese e la necessità di particolari attività istruttorie (perizie, rogatorie, etc.)” e che “termini di fase troppo ‘prudenti’ e, pertanto, troppo lunghi, finirebbero, d’altra parte, con il vanificare lo scopo di accelerazione processuale assegnato alla prescrizione dell’azione”.


1.5. Tempi del giudizio e tempi di amministrazione dei procedimenti.
L’errore dell’emendamento governativo consiste nel riversare sul tempo assegnato ai giudizi di impugnazione quello occorrente per il passaggio di grado e per la fissazione dell’udienza di trattazione.

Sono tempi, questi, che non appartengono al giudizio in senso stretto e che sono direttamente collegati alle condizioni organizzative degli uffici. Carenze di personale amministrativo determinano frequentemente rallentamenti nell’invio dei fascicoli processuali dal giudice a quo al giudice ad quem; il numero consistente di procedimenti in arretrato non consente ai presidenti delle Corti di fissare sollecitamente l’udienza di trattazione.

L’effetto che si avrebbe con l’adozione del meccanismo delineato dall’emendamento governativo sarebbe la condanna all’estinzione anticipata di un buon numero di giudizi di impugnazione ancor pima che essi possano dirsi iniziati, colpiti dal decorso del tempo mentre ancora giacciono in attesa di essere assegnati al giudice.

Si scaricano sul giudizio i cd. tempi morti di passaggio da un grado all’altro e i tempi per così dire meramente amministrativi necessari, specie in uffici ingolfati, per la fissazione dei giudizi.


1.6. Dies a quo del tempo dei giudizi di impugnazione.
Andrebbe allora rivista la scelta di individuazione del dies a quo, operata dall’emendamento con riferimento al compimento del novantesimo giorno a far data dalla scadenza del termine ultimo assegnato per il deposito della sentenza oggetto di impugnazione.

La soluzione preferibile, dovendosi guardare ai tempi dei giudizi, sarebbe di fissare l’inizio del termine nel decreto di citazione per il giudizio di appello e nel decreto di fissazione dell’udienza per la trattazione del ricorso in cassazione.


1.7. Prescrizione processuale, vittime di reato e confische.
L’emendamento governativo prevede che in caso di improcedibilità dell’azione, la parte civile venga rimessa dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale. Ciò significa che la condanna al risarcimento e alle restituzioni in favore della parte civile viene travolta dalla improcedibilità dell’azione. E che ciò si verifica pur quando la parte civile ha ottenuto una doppia conforme di condanna, con provvisoria esecutività delle statuizioni civili o con il riconoscimento della provvisionale.

Si azzera ogni risultato, senza tener conto che questo effetto demolitorio oggi non è determinato nemmeno dalla sopravvenuta prescrizione del reato, che non fa venir meno la condanna civile in favore della parte civile – v. art. 578 cod. pen. –.

Ma non basta.

Il meccanismo di prescrizione processuale comporterà la messa nel nulla dei provvedimenti di confisca, anche di cd. confisca in casi particolari di cui all’art. 240-bis cod. pen. che oggi, invece, l’art. 578-bis cod. proc. pen. pone al riparo dal pericolo di caducazione per il caso in cui la prescrizione del reato venga dichiarata nei giudizi di impugnazione, chiamando il giudice che dichiara la prescrizione alla decisione sull’impugnazione ai soli fini della confisca.


1.8. Prescrizione processuale e annullamento in cassazione con rinvio.
Lo stesso meccanismo disegnato per il giudizio di appello vale, a quanto è dato comprendere, anche per il giudizio di rinvio. Se il giudizio di rinvio non viene definito nel termine dato di due anni, pari a quello dell’appello, si estingue tutto, tutto il lavoro di tre gradi di giudizio va in fumo.

E ciò senza tener conto che ai sensi dell’art. 624 cod. proc. pen. le parti di sentenza non oggetto di annullamento ad opera della Corte di cassazione acquistano autorità di cosa giudicata. Si avrebbe così che la prescrizione processuale travolgerebbe il giudicato, ciò che oggi è impedito alla prescrizione del reato che si arresta dinanzi al giudicato parziale conseguente all'annullamento parziale con rinvio.


2. Prova dichiarativa in caso di mutamento del giudice.
La previsione dell’art. 5 lett. e) sul destino della prova dichiarativa assunta innanzi a diverso giudice o a collegio diversamente composto rispetto al momento della escussione orale, rappresenta un passo indietro rispetto all’attuale assetto giurisprudenziale sul regime dell’utilizzabilità.

Invero, le S.U. della Corte di Cassazione hanno da tempo affidato al giudice, sulla base di criteri già rintracciabili nel corpo dell’art. 190 bis c.p.p., il vaglio sulla effettiva necessità della riassunzione orale (sentenza del 10 ottobre 2019 n. 41736).

Seppure limitato alle ipotesi di mutamento “di uno dei componenti del collegio”, il testo originario del disegno di legge C. 2435 (Governo) si poneva in sostanziale continuità con questo indirizzo (“prevedere che la regola di cui all’articolo 190-bis, comma 1, del codice di procedura penale sia estesa, nei procedimenti di competenza del tribunale, anche ai casi nei quali, a seguito del mutamento della persona fisica di uno dei componenti del collegio, è richiesto l’esame di un testimone o di una delle persone indicate nell’articolo 210 del codice di procedura”).

Nel testo emendato, invece, la possibilità che la prova sia riassunta solo laddove il giudice lo ritenga “necessario sulla base di specifiche esigenze”, sebbene sia stata estesa anche ai casi di mutamento del “giudice” (monocratico) e di “più componenti del collegio”, è limitata all’ipotesi in cui la prova dichiarativa sia stata “verbalizzata tramite videoregistrazione”.

Con questa previsione si è chiaramente colto il suggerimento della Corte Costituzionale (sentenza n. 132 del 2019) che, partendo dall’analisi della realtà effettiva delle aule giudiziarie, dove il principio di immediatezza rischia di divenire un “mero simulacro”, ha suggerito al legislatore di adottare rimedi strutturali che assicurino la tutela del diritto di difesa dell’imputato, favorendo la concentrazione dei dibattimenti, ma prevedendo al contempo ragionevoli deroghe alla regola dell’identità tra giudice avanti al quale si forma la prova e giudice che decide. Queste «ragionevoli eccezioni» sarebbero funzionali all’esigenza, «costituzionalmente rilevante, di salvaguardare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia penale, in presenza di meccanismi “compensativi” funzionali all’altrettanto essenziale obiettivo della correttezza della decisione – come, ad esempio, la videoregistrazione delle prove dichiarative, quanto meno nei dibattimenti più articolati».

La videoregistrazione è un sistema di documentazione della prova dichiarativa certamente più idoneo della semplice fonoregistrazione ad assicurare la diretta percezione della prova da parte del giudice deliberante, così da poterne cogliere tutti i connotati espressivi, anche quelli di carattere non verbale, particolarmente prodotti dal metodo dialettico dell’esame e del controesame.

E però, non può non tenersi conto dell’attuale indisponibilità di sufficienti dotazioni nella maggior parte degli uffici giudiziari italiani. Ed infatti, se il sistema di videoregistrazione della prova dichiarativa è previsto dall’art. 2 quater lett. a) (non emendato) come “forma ulteriore di documentazione” della prova, la stessa norma – riconoscendo implicitamente l’insufficienza delle complessive dotazioni degli uffici giudiziari - fa “salva la contingente indisponibilità degli strumenti necessari o degli ausiliari tecnici”.

Rimane, dunque, altamente probabile che sino a che non si intervenga con le necessarie dotazioni tecniche, la videoregistrazione della prova dichiarativa continui ad essere limitata ai casi di esame protetto di minori d’età e di vittime vulnerabili, all’esame dei collaboratori di giustizia, alle testimonianze assunte tramite rogatoria e simili, e dunque ad una percentuale estremamente ridotta dell’attività di raccolta della prova testimoniale.

Queste considerazioni devono essere valutate in uno agli effetti dei numerosi pensionamenti di questi ultimi anni, che naturalmente non potrebbero essere scongiurati neppure attraverso un rigoroso utilizzo dei rimedi ordinamentali, atteso che il giudice in pensione non può essere applicato all’ufficio per l’esaurimento della trattazione del processo, a differenza del giudice trasferito.

Se è vero, dunque, che lo sviluppo tecnologico e l’abbattimento dei costi rende astrattamente praticabile il “rimedio compensativo” della videoregistrazione, occorre esser certi che tutti gli uffici giudiziari siano dotati di strumentazione adeguata e di personale formato sul suo utilizzo.

In definitiva, se si vuole evitare che la previsione in argomento rimanga formula vuota, frustrando l’esigenza, costituzionalmente rilevante, di salvaguardare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia penale (attraverso l’introduzione di ragionevoli – e praticabili - eccezioni al principio dell’identità tra giudice avanti al quale è assunta la prova e giudice che decide), appare quantomeno indispensabile prevedere che l’operatività del vincolo della videoregistrazione, ai fini del recupero della prova dichiarativa, sia subordinata all’adozione di una determina del Direttore Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati, che dia atto dell’avvenuta dotazione della strumentazione necessaria e, quindi, della concreta possibilità per tutti gli uffici giudiziari di azionare tale ausilio tecnico.


3. Criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale.
L’emendamento devolve al Parlamento il compito di indicare i ‘criteri generali’ cui gli organi inquirenti, per garantire ‘l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale’, debbono uniformarsi nell’individuazione di ‘criteri di priorità’ trasparenti e predeterminati.

Se è apprezzabile la rinnovata attribuzione al CSM del potere di approvazione dei progetti organizzativi come avviene per le tabelle dei tribunali, desta perplessità la previsione di criteri generali che dovrebbero essere indicati con legge dal parlamento.

Innanzitutto, il destinatario della legge delega è il governo che si limiterebbe a rimettere al parlamento un potere che esso è già libero di esercitare, come risulta dalla mancanza dell’indicazione dei detti criteri.

Più in generale, non sembra innovazione proficua quella di attribuire al Parlamento il potere di indicare tali ‘criteri generali’ di indirizzo per l’esercizio dell’azione penale.

Il Parlamento, se ritiene elisa o scemata l’esigenza di perseguire alcuni fatti-reato, ha (certo) la possibilità di depenalizzarli.

Pensare che sia il Parlamento con regole necessariamente generali e astratte a suggerire a quali reati dare la precedenza, è soluzione distonica rispetto al principio di obbligatorietà dell’azione penale e di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge nonché potenzialmente in grado di porsi in frizione col principio di separazione dei poteri.

In realtà, i pubblici ministeri debbono perseguire tutti i reati indistintamente e in egual misura: questo impone la Costituzione; e solo se le risorse umane e materiali non lo consentono in concreto, per contingenze legate all’ufficio giudiziario ove si opera, dosare le limitate risorse e opportunamente indirizzarle verso ‘criteri di priorità’ la cui fissazione, traendo titolo e ragione dall’esigenza di compiutamente assolvere a compiti puntuali (e non generali e astratti) di organizzazione della giurisdizione, non potrà che essere ragionevolmente demandata ai capi degli uffici giudiziari o al CSM cui compete vigilare sul loro operato.


4. Udienza filtro nei procedimenti a citazione diretta.
L’udienza filtro prevista per i processi a citazione diretta, prevista dall’art. 6 come emendato, pone alcuni problemi di metodo e di merito.

Dal punto di vista organizzativo – soprattutto nelle sedi a ridotto organico – crea incompatibilità difficilmente gestibili e scardina il sistema organizzativo per la individuazione delle udienze da indicare nel decreto di citazione diretta a giudizio emesso dal pubblico ministero sulla base di individuazione automatica della data e del giudice.

Questo in quanto la fissazione dell’udienza di trattazione sarebbe qui attribuita al giudice dell’udienza filtro, con la conseguente necessità di creare un ulteriore sistema di attribuzione automatica dei processi al giudice “naturale e predeterminato” e di gestione dei calendari - in altre parole, il tribunale dovrà comunicare i calendari d’udienza alla Procura della repubblica per la fissazione delle udienze filtro e svolgere analoga e parallela attività per consentire al giudice dell’udienza filtro di individuare il giudice cui assegnare i procedimento “filtrato”. Procedura nel corso della quale si deve tener conto dei criteri di attribuzione tabellare interni, degli eventuali esoneri, delle eventuali priorità ex art. 132 bis Disp. Att. – dunque non si tratta di un’attività “neutra” dal punto di vista organizzativo.

Problemi che sarebbero ancor più consistenti in relazione alla previsione dell’estensione del catalogo dei reati per i quali l’azione penale è esercitata con decreto di citazione diretta a giudizio, che l’art. 3 lett. i) vuole oggi individuare nei reati puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a 6 anni.

Non va dimenticato che in gran parte dei tribunali opera già la prassi di indicare la prima udienza per il solo “smistamento” del processo. Vale a dire per la valutazione della regolare costituzione delle parti, la trattazione delle questioni preliminari, la celebrazione di eventuali riti alternativi. Udienza in cui non è prevista la convocazione dei testimoni, che saranno invece citati nella successiva udienza (ed in quelle in seguito calendarizzate). Sistema che non comporta alcun problema organizzativo essendo, per lo più, tabellarmente previsto il criterio da seguirsi per l’individuazione del giudice competente a seguito dell’insorgere di una situazione di incompatibilità per l’intervenuto rigetto di istanza di patteggiamento o di rito abbreviato condizionato.

Quanto al merito, si legge nell’art. 6 emendato lett a- quater) che il giudice di tale udienza predibattimentale dovrà valutare “se sussistono le condizioni per pronunciare sentenza di non luogo a procedere perché gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”. La valutazione in termini potenzialmente dinamici degli elementi raccolti in sede di indagine, soprattutto nel caso di procedimento a citazione diretta, sembra porsi in contraddizione col principio di formazione della prova nel dibattimento e con il potere/dovere del giudice, al fine di giungere all’accertamento del fatto, di utilizzare il disposto dell’art. 507 cpp ex officio per garantire la completezza del compendio probatorio sul quale deve basarsi la decisione. Tanto che in caso di assoluzione ai sensi dell’art. 530 co 2 cpp, la motivazione della sentenza deve dar conto della assenza di ulteriori percorsi di prova concretamente praticabili.


5. Archiviazione meritata.
Sotto il profilo della necessità deflattiva, desta perplessità l’eliminazione dell’istituto della “archiviazione meritata” che era previsto dall’art. 3 bis. L’istituto prevedeva la possibilità di prospettare al giudice delle indagini preliminari l’archiviazione del procedimento a seguito di una condotta riparativa effettiva ed efficace svolta dall’imputato, con adempimento di prestazioni a favore della vittima o della collettività, anche su sollecitazione del pubblico ministero, nella fase successiva all’avviso di chiusura indagini. Con la previsione di prescrizioni e del termine per darvi adempimento e con effetto estintivo del reato.

L’istituto è, in gran parte, sovrapponibile a quello della messa alla prova, ma consentirebbe una più efficace condotta riparativa in termini sicuramente più vicini al fatto e dunque con una percezione anche collettiva della riparazione più immediata ed efficace.


6. Giustizia riparativa.
Pare condivisibile l’emendamento introdotto con l’art. 9 bis, con riferimento alla giustizia riparativa, istituto che è descritto sulla base dei canoni stabiliti dalla Direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Tanto più considerato che è previsto espressamente l’impegno di spesa per la sua concreta realizzazione.

Proprio in attuazione della suddetta direttiva, tuttavia, occorre valutare con grande attenzione l’opportunità dell’accesso a percorsi di giustizia riparativa per le vittime di reati particolarmente traumatizzanti, che spesso lasciano effetti indelebili. In particolare, va ricordato che proprio in attuazione della suddetta direttiva, le vittime di violenza sessuale, di tratta, e più in generale di violenza di prossimità (spesso minori d’età e particolarmente vulnerabili) devono essere preservate da ogni attività processuale che possa causare vittimizzazione secondaria, dovendosi adottare ogni cautela al fine di garantire che la vittima stessa non abbia modo di incontrare l’autore del reato già nel corso del processo. A maggior ragione, una volta superata ogni esigenza di accertamento del fatto, tale cautela deve essere tanto più sollecitata. Pare dunque in contrasto con il disposto della direttiva 2012/29/UE la previsione del coinvolgimento della vittima particolarmente vulnerabile (secondo la nozione oggi recepita dall’art. 90 quater cpp) nel programma di giustizia riparativa pur auspicabile per l’autore di reato. Ciò tanto più laddove si tratti di vittima minore d’età, per la quale non è infrequente che il reato sia stato commesso da soggetto esercente la responsabilità genitoriale.


Roma, 19 luglio 2021
La Giunta esecutiva centrale



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