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26 ottobre 2013

Fuori dalla politica. Le toghe marcano la distanza

Fonte: Corriere della Sera


L'applauso più convinto scatta quando il presidente Sabelli dice che «la rappresentazione della giustizia come funzione piegata a scopi politici, l'attacco scomposto alle sentenze e l'attribuzione alla magistratura di pregiudizi di carattere ideologico costituiscono non solo un oltraggio all'ordine giudiziario ma anche un grave pericolo per il sistema democratico. La magistratura e l'Ami non sposano ideologie politiche né sono a servizio di alcuna parte politica». Il congresso delle toghe lo sottoscrive in maniera ostentata, e che al tavolo della presidenza sia seduta Alessandra Galli, presidente della corte d'appello che ha condannato Silvio Berlusconi alla pena divenuta definitiva, è una coincidenza ricca di significato.
Rodolfo Sabelli, il pubblico ministero di Roma che da tre anni guida l'Associazione nazionale magistrati, rovescia anche altre accuse verso la politica votata all'assalto di giudici e pm. Per esempio quando fa paragoni con l'estero: «In Italia si ripetono con inquietante frequenza casi di aggressione ai principi d'indipendenza della magistratura che in altri Paesi sarebbero impensabili e scandalosi». Altro sentito applauso, al quale si associa il capo dello Stato Giorgio Napolitano, seduto in prima fila.
Poi c'è l'altra faccia della medaglia, anzi del complicato rapporto tra politica e giustizia: «Non possiamo tacere le difficoltà di cui è lastricata la via dell'autoriforma della magistratura: tentativi di improprio condizionamento del nostro governo autonomo, rischi di confusione tra funzione giudiziaria e attività politica, casi di inopportuna esposizione mediatica hanno provocato divisioni e sconcerto nella magistratura e nell'opinione pubblica, con conseguente pericolo di appannamento dell'immagine di imparzialità e del decoro della giurisdizione. L'errore di pochi, purtroppo, può danneggiare irreparabilmente l'impegno di molti». Il riferimento alle toghe passate troppo in fretta dai palazzi di giustizia ai comizi elettorali è evidente. Al pari delle critiche alle riforme mancate sulla prescrizione o a quelle paventate sul pm «avvocato della polizia»; alle nuove norme anticorruzione, inadeguate laddove «rivelano la loro natura di faticoso compromesso» o «all'approccio inutilmente repressivo e sbagliato che continua a ispirare la legislazione penale in materia di immigrazione», considerazione che strappa un altro battimani, anche di Napolitano.
Nella stagione delle larghe intese gravide d'incertezza, i magistrati italiani provano a scrollarsi di dosso le scorie degli ultimi conflitti. Quasi volessero passare d'un colpo al dopo Berlusconi, liberandosi del contrasto perenne con la politica che li considera un nemico, ma anche al dopo Ingroia, laddove l'ex pm antimafia divenuto capopartito viene indicato a cattivo esempio della commistione tra funzione giudiziaria e aspirazioni personali d'altro tipo. Almeno a livello d'immagine, che conta molto. Anche perché resta aperta la «questione Palermo», con l'indagine sulla trattiva che ha lambito il Quirinale e ha portato la Corte d'assise ad ammettere la testimonianza del presidente della Repubblica; iniziativa legittima, però vista da molti, pure in questa assemblea, come inutile appendice di una contrapposizione di cui non si sentiva il bisogno. Il primo applauso del congresso è dedicato a Loris D'Ambrosio, l'ex consigliere giuridico di Napolitano intercettato in quell'indagine, scomparso lo scorso anno e ricordato dal procuratore generale della Cassazione Ciani (anche lui testimone al processo sulla trattativa) nella veste di «fedele e impeccabile servitore dello Stato»; anche questa, se è una coincidenza, suona alquanto emblematica.
Giorgio Santacroce - primo presidente della Cassazione, ultima istituzione a finire sotto attacco in ordine di tempo e di grado di giudizio - auspica una riforma della giustizia che finalmente superi le leggi ispirate da logiche punitive e interessi politici e personali». Ma mette pure in guardia dal «populismo giudiziario» e da «arroccamenti corporativi ed eccessi». Per il primo giudice d'Italia bisogna smetterla con i processi mediatici perché «la giustizia non è uno show né un carro di carnevale», e sarebbe ora di chiudere «uno sterile match frontale tra politica e magistratura, al quale sembra sempre mancare l'ultima ripresa». L'intervento è molto applaudito, sebbene qualcuno abbia da ridire su certi passaggi. Ma è proprio questo a cui sembrano aspirare i magistrati riuniti nel loro trentunesimo congresso: tornare a dibattere e magari dividersi sui contenuti, dal ruolo del giudice alle riforme necessarie, liberi dall'ipoteca del conflitto con Berlusconi e dell'immagine delle toghe troppo attratte dalla politica. Anche per discutere dell'indicazione del ministro della Giustizia Cancellieri, che raccomanda «predisposizione all'autocritica e alla moderazione» poiché, avverte, «è su questo che si gioca la vostra legittimazione democratica e la riaffermazione di un rapporto con la politica e i cittadini fondato su fiducia e consenso».



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