Gaetano Costa
(Caltanissetta, 1 marzo 1946 - Palermo, 6 agosto 1980)
Procuratore Capo della Repubblica di Palermo, assassinato dalla mafia.
Il 6 agosto del 1980 viene ucciso il Procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa. Nel ventennale della morte, Rita Bartoli, sua moglie, ha ricordato così quel giorno tremendo: "In un caldo pomeriggio di agosto, nella parte alta di via Cavour, mentre era fermo a guardare i libri esposti in una bancarella, un killer di mafia, indisturbato, in tutta tranquillità, aggrediva alle spalle, uccidendolo, mio marito, Gaetano Costa, Procuratore Capo della Repubblica di questa città, colpevole di aver sempre fatto rispettare le leggi dello Stato da ogni forma di prevaricazione criminale, in difesa della società di questa Repubblica".
Di lì a poco, il magistrato e la sua famiglia sarebbero dovuti partire per le vacanze. Appena appresa la notizia dalla televisione, aggiunge la Signora Costa: "Istintivamente mi portai le mani alla testa, quasi un gesto di difesa, dicendo, chiedendomi come avrei fatto, cosa avrei fatto"; poi scandisce con forza: "Gaetano Costa e' stato magistrato di grande valore e di indiscussa preparazione e ciò malgrado non ebbe la dovuta solidarietà, diciamo, dal suo ufficio e da chi aveva il sacrosanto dovere di difendere il suo modo di amministrare la giustizia".
Nessuno è stato condannato per la morte del dottor Costa. A continuare la sua opera, fu l'amico e collega Rocco Chinnici, tra i pochi che allora ne compresero e appoggiarono gli intenti; a lui tre anni dopo toccherà la stessa triste sorte. Tra coloro che presero in mano l'eredità di Costa c'è sicuramente anche la moglie Rita, che subito dopo l'omicidio volle rivelare i retroscena delle vicende che avevano determinato l'assassinio del consorte. Rita Bartoli non si è mai arresa nella ricerca della verità e dei colpevoli che ordinarono l'uccisione del marito. È morta il 19 gennaio del 2003 e qualcuno ha ricordato che quel giorno, allo stadio di Palermo, fu esposto lo striscione "Tutti uniti contro la mafia" in risposta a quello che un mese prima chiedeva l'abolizione del "carcere duro".
Gaetano Costa nasce a Caltanissetta nel 1916, dove consegue la licenza liceale. Si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Dopo aver vinto il concorso in magistratura, inizia la sua carriera a Roma. Si arruola poi, da ufficiale, nell'aviazione ottenendo due croci di guerra. Ma, dopo l'8 settembre del 1943, decide di raggiungere la Val di Susa per unirsi ai partigiani nella liberazione dell'Italia dal nazi-fascismo. Dal Tribunale di Roma viene trasferito, a richiesta, alla Procura della Repubblica di Caltanissetta. Qui realizza la maggior parte della sua attività di magistrato, da Sostituto Procuratore prima e da Procuratore poi, offrendo sempre chiara manifestazione di alta preparazione professionale, indipendenza, ed equilibrio. Quando si insedia a Palermo, come Procuratore Capo, Gaetano Costa è consapevole delle resistenze che avrebbe dovuto affrontare e decide di esprimere immediatamente il suo modus operandi: "Vengo, in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d'inimicizia, d'interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite".
Nel periodo della sua gestione, la Procura di Palermo avvia una serie di indagini nell'ambito delle quali si cercano "di penetrare i santuari patrimoniali della mafia". Quando, a conclusione di un'indagine contro i trafficanti di stupefacenti, si decide di emettere provvedimenti cautelari a carico di alcuni boss mafiosi, i Sostituti Procuratori delegati si dissociano dal Procuratore. Rita Bartoli, nel libro dedicato al marito ha così raccontato la vicenda: "L'allora Questore di Palermo, in seguito al delitto Basile, aveva fatto arrestare 55 personaggi, tutti dediti a traffici illegali, e aveva chiesto alla Procura della Repubblica la convalida di tali arresti, secondo la normale procedura. Per l'occasione, dopo averne parlato con l'aggiunto che si era mostrato d'accordo, Gaetano riunì nel suo ufficio i due sostituti ai quali era stata affidata l'inchiesta per discutere la convalida di quei fermi. L'aggiunto ritenne opportuno non andare alla riunione e i due sostituti, che avevano interrogato gli imputati, dichiararono sic et simpliciter il loro disaccordo per la convalida dei fermi... Si discuteva, e animatamente, sull'opportunità della convalida, quando uno dei due sostituti dichiarò che non avrebbe firmato. Allora Gaetano firmò personalmente quelle convalide, e con esse firmò anche la sua condanna a morte". Quella firma "in solitudine" fu, secondo Rita Bartoli, il passaggio chiave che determinò l'assassinio del marito.
Nel 1980 Costa era l'unico magistrato cui, in quel momento, erano state assegnate un'auto blindata e una scorta; le rifiutò, perché non riteneva giusto che la sua protezione potesse mettere in pericolo altre vite umane: "Io", era solito dire, "sono uno di quelli che ha il dovere di avere coraggio". "Era riuscito a capire la mafia più di altri che non volevano capire". Così scrive di lui il giornalista Dino Paternostro sul quotidiano La Sicilia nell'agosto 2010, a trent'anni dalla morte. Le sue riflessioni Costa, le espose negli anni sessanta alla prima Commissione antimafia dove sostenne, come riporta Giuseppe Casarrubea, che "la mafia aveva subito una radicale mutazione e che ormai si era annidata nei gangli vitali della pubblica amministrazione, controllandone gli appalti, le assunzioni e la gestione in genere". "Inutilmente", aggiunge Casarrubea, "Costa richiamò l'attenzione delle massime autorità sul fatto che un'efficace lotta alla mafia imponeva la predisposizione di strumenti legislativi che consentissero di indagare sui patrimoni dei presunti mafiosi e di colpirli".
Mario Farinella, all'indomani dell'assassinio, su L'Ora di Palermo così descrive Costa: "Era l'antisimbolo per cultura, per educazione, per naturale disposizione. Si considerava ed era soltanto un caparbio amministratore della giustizia, un uomo apparentemente comune, disadorno, dalla vita semplice, essenziale nelle parole, nei gesti, nel lavoro e perciò era un magistrato di audace modernità, razionale e puntiglioso, di raro rigore morale e intellettuale".
Nella seduta plenaria del 17 settembre del 1980 il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura ricordò l'attaccamento del dottor Costa alle concezioni democratiche del paese e il suo battersi contro il fenomeno mafioso. Aggiunse che dietro l'omicidio potevano intuirsi motivazioni attinenti alla conservazione di posizioni finanziarie acquisite e che il delitto non era stato un semplice delitto di mafia "perché il fenomeno mafioso non è più un fenomeno locale ma ormai un fatto nazionale con collegamenti internazionali" (tratto dal volume "Nel loro segno" edito dal Csm).