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La struttura della motivazione nei provvedimenti giudiziari limitativi della libertà personale

di Bruno Giangiacomo - 11 giugno 2014

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La custodia cautelare si è venuta sviluppando all’interno del processo penale come un vero e proprio subprocedimento, caratterizzato da una sempre più spiccata autonomia sia dal punto di vista procedimentale che strutturale; uno sviluppo che ha riguardato i soggetti che partecipano al procedimento, la stessa struttura del procedimento, l’oggetto, le condizioni, le tipologie di strumenti cautelari ecc. Se si guarda agli ultimi venticinque anni, siamo passati dalla possibilità di emissione di provvedimenti cautelari da parte del PM in via del tutto autonoma, all’emanazione di essi da parte del giudice istruttore e del GIP, alla possibilità di ricorso al Tribunale del riesame, individuato come un organismo autonomo di controllo peculiare ed esclusivo sulle misure cautelari, all’intervento della persona offesa introdotto dalla legge sul c.d. femminicidio.
Lo sviluppo del tema cautelare non poteva non avere riflessi anche sul profilo motivazionale e in proporzione è aumentata anche la motivazione; innanzitutto va rilevata la mutazione della genesi della misura, nel momento in cui l’adozione di essa impone una relazione tra due soggetti (chi la richiede e chi deve decidere sulla richiesta), s’impone inevitabilmente uno sviluppo motivazionale che risponda alla domanda e dia conto delle ragioni di accoglimento o reiettive (diversamente da quanto accadeva in precedenza con l’emanazione, una volta solitaria, del provvedimento da parte del PM).
Ancora, nel momento in cui s’introduce uno strumento impugnatorio nel merito di valutazione sulla misura cautelare si crea un’esigenza in capo all’organo decidente di rispondere all’impugnazione da un lato e dall’altra di rapportarsi all’ordinanza oggetto del gravame, di valutarla, interpretarla e a volte, se del caso, integrarla. Lo stesso dicasi per il giudizio della Corte Cassazione che risente inevitabilmente di questo sviluppo procedimentale già determinatosi sulla base dell’originaria richiesta del PM (basta guardare nei repertori e nelle riviste al numero di decisioni sempre più numeroso in materia di misure cautelari personali).
Altri fattori hanno concorso a prestare sempre più attenzione alle misure cautelari: uno sviluppo significativo della disciplina dei termini di custodia cautelare, della tipologia di reati che consentono le misure custodiali, dei requisiti per adottare la misura; una disciplina sempre più differenziata, specifica e precisa, che origina inevitabilmente questioni interpretative nella sua applicazione; una disciplina che spesso si è andata modificando nel corso degli anni con tutto quel che comporta in termini interpretativi (ad es. in materia di diritto transitorio).
È inevitabile che per tutto questo vi sia stato un corrispondente sviluppo motivazionale. Non va dimenticata la novità dell’individuazione di tipologie diverse di misure custodiali, che hanno permesso di articolare in modo differenziato la necessità di soddisfare le varie esigenze cautelari che consentono l’adozione della misura (si pensi agli arresti domiciliari, un’assoluta novità all’epoca della sua introduzione, per arrivare alle ultime misure custodiali degli artt.282 bis e ter c.p.p.) e di conseguenza hanno determinato anche in questo caso un aggravio motivazionale.
Inoltre, non si deve dimenticare che il giudizio cautelare non è solo quello conseguente alla richiesta di una misura, ma anche ciò che attiene al regime della misura stessa, alle sue variazioni o modifiche, ai termini ecc., per cui riguarda tutte le ordinanze che interessano il tema cautelare (anch’esse soggette al regime di controllo del Tribunale del riesame). Con la legge sul c.d. femminicidio si è addirittura giunti a inserire un ulteriore soggetto che può interloquire: la persona offesa (art. 299, commi 3 e 4 bis, c.p.p., a proposito di arricchimento di soggetti nella procedura); si tratta di una novità assoluta, la p.o., in generale parte non necessaria del procedimento e del processo, lo diventa sul tema cautelare, dal quale era sempre rimasta esclusa e l’omissione della sua partecipazione è prevista a pena di inammissibilità; può intervenire presentando memorie (nei due giorni successivi alla notifica). La novità si giustifica sulla base della peculiarità di misure coercitive che hanno la specifica caratteristica di voler tutelare non un interesse generale della collettività (a non veder reiterato il reato), ma una persona ben precisa che è appunto la p.o. ed allora occorre consentire a questa di intervenire proprio sul tema cautelare adducendo ragioni utili a una decisione adeguata.
Inoltre, un’attenzione particolare alla motivazione del provvedimento cautelare trova riscontro specifico nella Costituzione all’art.13, comma 2, la cui valenza anche simbolica è avvalorata dal fatto che già tutti i provvedimenti giurisdizionali per la Costituzione (art.111, comma 6) devono essere motivati.
Nel codice di procedura penale questa attenzione si manifesta con la norma generale dell’art. 125 (le ordinanze devono essere motivate a pena di nullità) e più in specifico con l’art. 292, comma 2, lett.c) che sancisce tutto l’iter logico-argomentativo che il giudice deve esporre nell’ordinanza, norma riformata dalla l 332/95, che ha preteso che vengano presi in considerazione gli eventuali elementi forniti dalla difesa e le ragioni per cui doveva essere applicata la misura custodiale carceraria; la stessa legge ha introdotto il comma 2 ter che stabilisce a pena di nullità il deficit motivazionale dell’ordinanza circa la valutazione degli elementi a carico e a favore dell’imputato. Insomma, un’attenzione massima e costante del legislatore all’apparato motivazionale della misura custodiale personale.
Il risultato evidente è stato appunto un vero e proprio subprocedimento all’interno del processo con sue regole peculiari, che ha prodotto il formarsi di una giurisprudenza di settore su provvedimenti che assumono sempre più caratteristiche di specificità, dettaglio, articolazione, simili a un provvedimento definitorio della fase processuale.
Ma questo è il fenomeno che si è prodotto; la causa è che non v’è dubbio che anche la struttura del “nuovo” processo penale ha dato un contributo al frequente ricorso alla cautela personale, condizionando la normativa specifica che regola questa materia; un processo che pone limiti all’indagine e allunga i suoi tempi attraverso vari strumenti: un limite ai termini per le indagini preliminari, l’inutilizzabilità delle risultanze delle indagini preliminari nel dibattimento con la necessità di rifare tutta l’attività d’indagine in quella fase processuale, che è il centro di raccolta della prova, un’udienza preliminare che può consentire di esperire ulteriori elementi d’indagine e lo stesso dicasi quando si celebra il giudizio abbreviato (con l’integrazione probatoria officiosa e non per niente la richiesta di giudizio abbreviato fa decorrere nuovi termini di custodia cautelare) e poi tre gradi di giudizio prima della sentenza definitiva; il tutto in presenza dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Se questo accade, è chiaro che le esigenze cautelari del pericolo di inquinamento della prova e di reiterazione dei reati si dilatano (il pericolo di fuga è meno significativo statisticamente e concettualmente) in conseguenza della distanza dal momento di raccolta effettivo della prova rispetto alle indagini preliminari e del differimento all’ultimo grado di giudizio della definitività della sentenza che consente l’esecuzione della pena; se le esigenze si accrescono in conseguenza del meccanismo processuale che dilata i tempi del processo, aumenta inevitabilmente la possibilità della custodia cautelare e quasi la necessità di far ricorso a essa.
L’effetto è: una forte strutturazione del provvedimento cautelare oggettiva e soggettiva e un aumento del ricorso alle misure cautelari e quindi più motivazioni con le caratteristiche già evidenziate di complessità; il tutto assicurato all’esito di un subprocedimento sorretto da garanzie, con l’istituzione di un giudice ad hoc e un sistema di incompatibilità.
Sono in tal senso condivisibili le prospettive di riforma che viaggiano verso l’individuazione di un giudice collegiale competente per la decisione sulle misure cautelari, così da anticipare la tutela del Tribunale del riesame in termini di collegialità, ma con possibilità di appello in Corte; mentre più delicato è il tema dell’anticipazione del contraddittorio prima della decisione (nel nostro ordinamento previsto solo per l’arresto in flagranza e il fermo), peraltro non sconosciuto in altri ordinamenti.
2- Certo, il sistema pone anche dei limiti.
Il giudizio cautelare è regolato dal principio della domanda del PM, per il quale il giudice non può andare ultra petita; nel caso specifico esso si connota di due aspetti peculiari e significativi: il potere selettivo del PM di adduzione degli atti a sostegno della richiesta (non ha il PM un obbligo di discovery) e per conseguenza l’assenza di un potere integrativo da parte del giudice di sopperire a deficienze cognitive del compendio probatorio sottoposto alla sua attenzione (fare l’esempio a me capitato della c.d. retrodatazione) e dire dell’ultima sentenza della Corte Costituzionale.
È un giudizio a cognizione sommaria e a carattere accessorio (o eventuale).
Ciò rende altresì perfettamente distinguibile il tema del procedimento cautelare rispetto al processo, la cui richiesta devolve al giudice interamente il materiale probatorio acquisito dal PM, salvo l’attività d’integrazione, consentendogli di attivare tutti i suoi poteri di supplenza istruttoria: artt.422, 441, 507 c.p.p., etc.; la sentenza della Corte Costituzionale, n.121 del 2009, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.405 comma 1 bis c.p.p. e sottolineato con ampi argomenti la differenza tra il giudizio cautelare e il giudizio del processo (definendo questo secondo impermeabile al primo).
È indubbio comunque che tutto questo possa limitare lo sviluppo motivazionale del provvedimento cautelare.
3- Ma in cosa consiste il giudizio cautelare?
A questa domanda si può rispondere proprio con quanto detto dalla Corte Costituzionale nella sentenza citata. È un giudizio particolare rispetto a quello tipico della decisione finale del grado di giudizio del processo.
È un giudizio che deve valutare gli elementi d’indagine preliminare acquisiti, un giudizio allo stato degli atti, ma lo deve fare nella prospettiva di una plausibilità (alta probabilità) della condanna. Un giudizio che guarda al passato, ma che è anche prognostico.
Ciò non vale solo per la sussistenza dei gravi indizi, ma anche per la valutazione delle esigenze cautelari e specificamente per quella più frequentemente utilizzata, il concreto pericolo di reiterazione di fatti della stessa specie di quelli per cui si procede, tipico giudizio prognostico, che affonda le sue radici nel fatto per cui si procede e nei precedenti dell’indagato (giudizio rivolto al passato). È un giudizio particolare, non minore, che arriva, per quel che riguarda la gravità indiziaria, prima che il procedimento abbia raggiunto un grado di maturazione e di completezza e, quindi, non può essere espresso nel suo corredo motivazionale pensando che il procedimento sia completo.
È un giudizio con caratteri di indubbia discrezionalità con riguardo alle esigenze cautelari; per fare un’equazione un po’ azzardata rispetto alla sentenza si può dire che la gravità indiziaria sta alle esigenze cautelari come la responsabilità penale sta alla determinazione della pena. Di solito l’impianto motivazionale della sentenza è consistente sulla responsabilità, anoressico sulla pena, nell’irrogazione della quale pure si esalta la discrezionalità del giudice e lo stesso accade nelle motivazioni delle misure cautelari, dove a un’ampia disamina del tema della gravità indiziaria corrisponde una grande sintesi sul tema delle esigenze cautelari e dell’individuazione della misura.
E questa dell’individuazione della misura più calibrata al caso concreto è una caratteristica che si è venuta acquisendo nella misura cautelare, poiché le misure hanno ora un carattere più personale, più rivolto a scongiurare l’effetto tipico del reato rivolto verso una specifica persona offesa; un carattere paracivilistico della misura coercitiva limitativa dei suoi effetti negativi non in via generale, ma specifica.
Ma il giudizio cautelare ha anche un’altra caratteristica: deve essere sollecito (se non rapido); chi deve emettere il provvedimento si trova di fronte una richiesta che è frutto di un lavoro che può essere durato anche molti mesi (qualche volta anche anni), stratificatosi nel tempo, su cui il PM ha avuto il tempo di attrezzarsi e operare le sue legittime e opportune valutazioni, mentre la decisione deve avvenire in tempi ristretti altrimenti si vanifica l’essenza stessa della richiesta cautelare; il giudice deve così penetrare in una realtà che, quando va bene, conosce poco per aver adottato altri provvedimenti in quel procedimento.
Da qui il ricorso a motivazioni che possono rispondere a questa esigenza di rapidità, quali sono quelle per relationem; Giostra ha definito questa tipologia motivazionale espressione di “parassitismo giudiziario” e non è la sola, perché anche altri provvedimenti possono essere argomentati per relationem (il riferimento è, ad esempio, alle intercettazioni), ma, per altro verso, non si deve neanche incentivare una motivazione che costituisca una sorta di parafrasi della richiesta del PM, una motivazione che solo all’apparenza è autonoma, poiché la motivazione apparente è un’altra espressione di incongruità motivazionale sanzionata dalla giurisprudenza, in presenza di mere formule di stile, ripetizioni della lettera della legge, affermazioni apodittiche, insomma simulacri motivazionali, ordinanze vuote.
La motivazione per relationem si discosta da questa situazione perché fa riferimento a un altro atto e la giurisprudenza ha fissato i paletti del possibile ricorso a essa: a) trasportare la motivazione non vuol dire eluderla, vuol dire trasferire l’obbligo motivazionale su un altro atto, che pertanto a quell’obbligo deve assolvere con le caratteristiche di congruità necessaria; b) l’atto richiamato deve essere conosciuto o conoscibile; c) il richiamo non può costituire un mero recepimento, ma dall’atto deve risultare perché il giudice lo ritenga recepibile.
Quest’ultimo è il momento più critico, che comporta gli aspetti di maggiore difficoltà, perché a quel punto il mero richiamo e il vaglio critico hanno prodotto, attraverso l’uso degli strumenti informatici, la motivazione col c.d. copia e incolla; ma anche in questo caso si deve sempre comprendere che il recepimento non sia stato meramente passivo, ma abbia avuto il vaglio critico di colui che emette l’atto (così specificamente l’ultima giurisprudenza in tema di riesame, dalla quale si devono evincere le ragioni che hanno portato il giudice ad aderire alla richiesta del PM).
Una situazione tipica è quella che si presenta con il riversare nei provvedimenti cautelari interi pezzi di brani d’intercettazione; la cosa è sicuramente ammissibile, l’importante è che ad essa si affianchi la valutazione del giudice circa il significato di quelle conversazioni (spesso esse hanno un contenuto criptico) e la loro pregnanza rispetto alle contestazioni elevate.
Lo stesso dicasi laddove il giudice riproduca interi pezzi di atti, cosa che può essere anche comoda piuttosto che andarla a ricercare in mezzo a un consistente numero di carte; l’importante anche in questo caso è che vi sia il vaglio critico di quegli atti, pur aderendo alle argomentazioni proposte dal PM, che, se adeguate, ben possono essere recepite, spiegandone le ragioni e non utilizzando semplici formule di stile (anche se a volte il contenuto motivazionale può essere assolutamente soddisfacente).
Vi è poi la motivazione per relationem di secondo grado, per cui la richiesta del PM è già essa stessa recettiva di altra richiesta o informativa della Polizia giudiziaria; vi è ostacolo in questo caso all’applicazione della giurisprudenza della Cassazione sulle condizioni di ammissibilità della motivazione per relationem?
Non sembra, nel momento in cui venga soddisfatto il requisito dell’obbligo di motivazione da parte dell’atto cui si rinvia e questo sia conoscibile.
Pertanto, può dirsi che l’interpretazione data dalla Cassazione sui limiti di ammissibilità della motivazione per relationem nei provvedimenti cautelari personali costituisca un buon punto di equilibrio, volto da un lato a censurare il parassitismo giudiziario e dall’altro a consentire quell’essenzialità motivazionale che rifugga da comode e inutili parafrasi di atti già emanati.
4- Da ultimo, va valutato che il diritto internazionale non ha smentito (e si potrebbe dire che ha avvalorato) questo sistema cautelare; infatti, da un lato, la Corte europea dei diritti dell’uomo non ha censurato l’Italia con riguardo al tema della custodia cautelare e, dall’altro, la legge sul mandato di arresto europeo (la 69/2005) consente di allargare i confini di efficacia del sistema di carcerazione preventivo italiano. Il MAE è oggi uno strumento attivo e ormai piuttosto diffuso e quando si è nella procedura attiva di consegna vi è comunque la necessità di rispettare certi requisiti per ottenere il risultato positivo che l’adozione del provvedimento vuole conseguire.
Il sistema del MAE è fondato sulla fiducia massima tra gli Stati membri circa la loro regolamentazione in questo settore, ma ciò non toglie che il sistema per essere esportato deve avere quei requisiti minimi di riconoscibilità di garanzie offerte dallo Stato che richiede la custodia col MAE, contenuti nell’art.30 della L.69/2005.
Da qui la rispondenza a questi criteri di sistemi diversificati, come quello tedesco, che preferisce apporre termini brevi di custodia cautelare, ma sostanzialmente sempre prorogabili, perché alla scadenza di essi, è lo stesso giudice che deve valutare la permanenza dei motivi che giustificano la misura; oppure, come quello francese, che arresta i termini massimi di custodia cautelare alla sentenza di I grado e dopo di questa non vi sono più termini.
Il tema della motivazione dei provvedimenti cautelari costituisce per le ragioni esposte uno snodo sempre più importante del processo penale, a cui tutti i protagonisti di esso devono prestare particolare attenzione, ma alla base della sua definizione e struttura e, quindi, della sua espansione o contrazione, vi sono opzioni che spettano al legislatore; la scelta sinora è stata quella di dilatare il processo cautelare, renderlo efficace, rispetto a un processo penale che soffre di tempi lunghi. Forse è il caso di ribaltare questa logica o prospettiva: una maggiore attenzione generale ai tempi del processo penale, privandolo anche di qualche tabù che fa parte solo della nostra cultura giuridica, può riservare al tema cautelare una collocazione più ridimensionata di quella attuale.


 




 

Autore
Bruno Giangiacomo
Presidente aggiunto della sezione GIP del Tribunale di Bologna

Negli ultimi venticinque anni siamo passati dall’emissione di provvedimenti cautelari da parte del PM in via del tutto autonoma a quella da parte del giudice istruttore e del GIP Bruno Giangiacomo