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23 ottobre 2015

Relazione di Concetta Potito, presidente dell'ANM di Bari

XXXII Congresso nazionale ANM


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Signor presidente, autorità, signori ospiti, colleghe e colleghi,

Desidero in primo luogo ringraziare, a nome di tutti i colleghi del distretto di Bari, della giunta distrettuale e mio personale la GIUNTA esecutiva centrale dell’Anm per la decisione di celebrare a Bari questo congresso nazionale della Associazione.
Lo consideriamo non solo un riconoscimento al lavoro che qui a Bari abbiamo saputo fare nella rappresentanza unitaria dei magistrati del distretto e nella difesa del ruolo e del significato della magistratura associata, ma anche un segnale di attenzione per una città e una regione nelle quali l’amministrazione della Giustizia vive gravi problemi ai quali non di meno con abnegazione e senso del dovere tutti noi cerchiamo di dare risposte positive.

Attenzione per i nostri problemi, ma anche, io credo, omaggio ad una parte del Mezzogiorno che si racconta e in parte certamente è, diverso, più dinamico e attivo, meno segnato di altri da fenomeni di degrado e dallo spadroneggiare di poteri criminali. Ma non per questo privo di criticità, rivenienti spesso proprio da questa sua dinamicità.

Abbiamo colto un segno di ciò anche nella scelta del tema principale di questo congresso, quello del rapporto tra giustizia ed economia. Un tema che rimanda immediatamente a problemi drammatici e dai risvolti giuridici anche inediti, come il grande e complesso processo apertosi in questi giorni a Taranto ci ha mostrato, sia nel conflitto che a tratti è sembrato aprirsi tra i poteri dello stato sui destini dell’Ilva, sia nella riflessione necessaria sugli strumenti giuridici necessari al contemperamento dei diritti, in questo caso quello alla salute e quello al lavoro.

Ma allo stesso modo è un tema che rimanda alle persistenti difficoltà della giustizia civile, ai suoi ritardi e alle sue lungaggini, che giustamente sono viste da molti come un freno all’esprimersi delle potenzialità del Paese e del Mezzogiorno in particolare, dove, si dice non senza verità, la difficoltà di vedere riconosciuto un proprio diritto finisce per ostacolare l’impresa economica e tiene lontani dal nostro sistema produttivo quei capitali stranieri che pure sarebbero tanto necessari in un’epoca di globalizzazione.

Dico questo, me lo consentirete, con un riferimento anche personale alla mia esperienza di giudice civile. In questo distretto di corte d’appello, se incrociamo i dati dei giudizi pendenti contenuti ad esempio nella relazione all’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario con quelli che emergono dalla relazione Barbuto sulla produttività dei diversi tribunali italiani, viviamo il paradosso di un arretrato civile che potremmo definire addirittura immenso a fronte di una produttività dei giudici che è tra le più alte d’Italia.

Abbiamo certamente da cambiare qualcosa nel modo in cui organizziamo il nostro lavoro, ma è evidente che c’è un dato strutturale che va affrontato (in termini di organici, in termini di dotazione di risorse, di mezzi e di uomini), senza di che l’abnegazione di cui i numeri rilevati dal ministero ci danno atto non porterà alla fine che all’usura fisica e mentale di chi fa questo lavoro.

E non c’è dubbio che se non si abbatterà radicalmente il lasso di tempo in cui viene risolta una controversia sottoposta a un giudice, questo continuerà ad essere un deterrente nei confronti di chi intende avviare un’impresa proprio qui nel Mezzogiorno dove più ce ne sarebbe bisogno.

E’ questo un terreno di riflessione ma anche di non più rinviabile azione: è probabilmente necessaria una iniezione di managerialità e di competenze tecniche per portare a compimento la transizione del processo civile telematico, ma è necessario anche che finisca l’emorragia di personale che ha spopolato i nostri uffici di funzionari, cancellieri e personale di supporto.

E che si abbia, da parte della politica ma anche della magistratura, la forza di operare per un riequilibrio delle piante organiche che riconosca gli squilibri oggi esistenti tra le diverse aree del paese e cominci a mettervi riparo.

Ed ancora che si attuino riforme non a costo zero, ma che realmente ristrutturino la organizzazione e lo stesso processo.

Consentitemi però di abbozzare anche qualche riflessione più generale: gli argomenti scelti per costruire la trama di questo Congresso si articolano attorno alle nozioni di giustizia, economia, tutela dei diritti. Si tratta di temi volutamente generalissimi, perché perseguono l’auspicio di cogliere, all’esito del congresso, a fianco a indicazioni e proposte di intervento immediato come quelle cui ho fatto poc’anzi cenno, anche riflessioni, critiche, proposte e innovazioni, funzionali all’attualizzazione del ruolo del giudice in contesti sociali attinti da continue e rapide trasformazioni (e qui il titolo del congresso, voluto dalle parole di Livatino,  “il ruolo del giudice nella società che cambia”).

Facendomi anche forte del contributo di riflessione che mi è venuto dai tanti colleghi con i quali in questi giorni abbiamo, anche informalmente, approfondito i temi di queste giornate di lavoro vorrei provare a segnalare qualche riflessione di carattere generale e qualche appunto più specifico sulle condizioni in cui si svolge il nostro lavoro:


1. Occorre riflettere sul rapporto tra limitatezza delle risorse finanziarie ed “insaziabilità dei diritti”, per citare il titolo del saggio di Anna Pintore.


Si tratta di diritti intesi come interessi giuridicamente protetti: pretese individuali o collettive elevate al rango di diritti possono ricevere effettiva soddisfazione solo nella misura in cui l’ordinamento non solo dà loro riconoscimento e tutela, ma destina loro anche specifiche risorse. In altri termini, i diritti hanno dei costi. Ciò vale tanto per i “diritti negativi” che per i “diritti positivi” (per quanto tale dicotomia possa avere oggi ancora utilità).


Essa comporta uno spostamento delle risorse disponibili da una voce di bilancio ad un’altra, inevitabilmente mediante il sacrificio di altre opportunità e la decisione di sacrificare altri diritti.


La tutela dei diritti dipende sempre dall’intervento pubblico attivo ed implica sempre una scelta sull’allocazione delle risorse.


La tutela effettiva dei diritti dipende dalle risorse disponibili; ciò mette in rilievo da un lato che essa dipende da scelte politiche; dall'altro che i diritti, al di là della retorica della loro inviolabilità, indisponibilità e inderogabilità, sono pretese fondate sempre su dei compromessi.


Ma fino a che punto il giudice può farsi ragionevolmente e responsabilmente carico di decidere in un sistema di diritti dipendente dalle logiche di allocazione delle risorse pubbliche?


 


2. Occorre riflettere sulla dimensione europea e più in generale sovranazionale del diritto quale concausa al difetto di percezione da parte del cittadino dell’autorità giurisdizionale come potere e non come servizio.


Anche in questo caso siamo di fronte alla “proliferazione” delle situazioni giuridiche soggettive meritevoli di tutela. Sul punto è sufficiente rinviare a quanto, negli ultimi anni, Convenzione EDU e Carta di Nizza abbiano inciso sui singoli ordinamenti nazionali, ampliandone la sfera dei diritti individuali.


Non c’è dubbio di come tale riconoscimento in ampiezza sia il risultato di un’attenzione altissima nei confronti dei diritti fondamentali della persona e correlativamente sia anche l’effetto di un positivo stato di salute del livello di democraticità della società civile.


Tuttavia, questa proliferazione di diritti nasconde un paradosso di cui conviene essere ben consapevoli: è il paradosso per il quale, l’ordinamento integrato europeo da un lato arricchisce sulla carta l’elencazione dei diritti tutelabili; dall’altro fatica ad offrire concretezza ai quei diritti di cui si fa portavoce, nella misura in cui non sempre fornisce ai singoli ordinamenti statali gli strumenti (finanziari e giuridici) di attuazione.
 E dunque, alla dichiarazione di principio o all’enunciazione di un diritto, non sempre corrisponde quella protezione reale.


In questo senso, la tutela dei diritti fondamentali raggiunge livelli di criticità molto elevati ed altrettanti  conflitti fin troppo frequenti, rispetto ai quali, il giudice viene percepito nella sua incapacità di offrire il servizio giustizia. Sul giudice gravano le difficoltà strutturali; indipendenza ed autonomia si legittimano solo se il cittadino utente percepisce l’esercizio della giurisdizione non come espressione di potere ma come manifestazione di un suo servizio: del resto anche la giurisdizione è essa stessa un diritto soggettivo.


Concetta Potito
Presidente dell'ANM di Bari



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