1. Introduzione : le deleghe conferite da lla L. n. 67/2014 in materia sanzionatoria
Il 6 febbraio 2016 sono entrati in vigore i dd. lgs. 7 e n. 8 che hanno concluso il processo di attuazione delle pregnanti deleghe in materia sanzionatoria conferite al Governo dalla L. 67/2014. Per quanto di nostro interesse, la riforma è destinata, almeno sulla carta, a passare alla storia del diritto penale italiano: non tanto perché si inserisce nel solco dei ciclici provvedimenti di depenalizzazione di portata generale (gli ultimi dei quali ad opera della l. n. 689/1981 e della l. n. 205/1999), ma principalmente perché realizza un definitivo arretramento del diritto penale a vantaggio del diritto amministrativo e, questa la novità più importante, del diritto civile. Partendo, quindi, dal presupposto che in passato vi è stata una dilatazione ipertrofica delle fattispecie penalmente rilevanti, il legislatore si è mosso con l’intenzione di ridurre l’area delle ipotesi di illecito penale. Tale scopo dovrebbe, inoltre, in una prospettiva di più ampio raggio, risultare funzionale tanto al potenziamento della funzione generalpreventiva delle fattispecie punitive, quanto alla deflazione del carico giudiziario in ambito penale. Che si tratti di depenalizzazione in astratto oppure di rinuncia in concreto all’irrogazione della sanzione penale, la ratio comune è rappresentata dal binomio dei principi di proporzione e sussidiarietà del ricorso allo strumento penale.
2. L’esercizio delle deleghe in materia di "riforma del sistema sanzionatorio": le disposizioni entrate in vigore
Il programma di depenalizzazione è stato attuato, in esecuzione dei principi e criteri direttivi descritti nei commi 2 e 3 dell’art. 2, L. n. 67/2014, attraverso metodi e criteri caratterizzati da profonde differenze, alle quali corrispondono, specularmente, distinte e specifiche criticità in sede applicativa.
La trasformazione di reati in illeciti amministrativi può considerarsi un’opzione politico-criminale di carattere tradizionale: ad essa si è fatto ricorso periodicamente, in funzione di maggior certezza ed effettività della risposta sanzionatoria. Sul piano operativo, un indubbio vantaggio offerto da tale tecnica di depenalizzazione è dato dalla possibilità di fare riferimento all’ormai consolidata disciplina generale dei profili sostanziali e procedimentali dell’illecito punitivo amministrativo di cui al Capo I e II della L. n. 689/1981 ed in effetti proprio a tale corpo normativo rinvia l’art. 6 del d. lgs. n. 8 del 2016.
Al contrario, l’abrogazione di reati e la contestuale introduzione di illeciti sottoposti a sanzioni civili pecuniarie rappresenta una soluzione innovativa, che non trova antecedenti nel nostro panorama giuridico e che comporta implicazioni ermeneutiche impegnative, soprattutto per quel che concerne la costruzione della disciplina sostanziale e processuale della nuova figura dell’illecito punito con sanzioni pecuniarie civili, posto che difettano, nel nostro sistema, riferimenti normativi univoci relativi alla branca sanzionatoria del diritto civile.
A tale aspetto si affianca inoltre la criticità connessa all’esigenza di contemperare la riduzione del novero dei reati con le istanze di mantenimento di un adeguato standard di tutela, nel quadro di disposizioni sostanziali e processuali funzionali e, al contempo, rispettose dei principi di garanzia previsti, non solo a livello interno, nell’ambito del diritto c.d. punitivo.
I due poli strutturali dell’intervento di depenalizzazione presentano una diversa latitudine applicativa.
La trasformazione di reati in illeciti amministrativi, a fronte della strada tortuosa scelta dal legislatore delegante in riferimento alla definizione dei criteri che presiedevano alla scelta degli illeciti da depenalizzare (per approfondimenti si veda G. Mannozzi, Il «legno storto» del sistema sanzionatorio, in Dir. pen. e proc., 2014, 7, pp. 781 e ss.), ha riguardato potenzialmente un’ampia serie di fattispecie penali, poiché si è fatto ricorso, nella selezione degli illeciti penali suscettibili di degradazione, a criteri generali, prevedendo tuttavia un’altrettanta ampia serie di esclusioni per materia.
Al contrario, i reati trasformati in illeciti civili – selezionati secondo parametri di omogeneità di disvalore sociale del fatto – sono sostanzialmente in numero ridotto, in considerazione del carattere inedito di questa tipologia di intervento.
Nonostante il diverso ordine espresso dalla numerazione formale, per ragioni logicoespositive, legata principalmente al diverso grado di innovazione, l’esame sarà condotto a partire dal provvedimento avente ad oggetto la tecnica tradizionale di depenalizzazione e l’attenzione sarà focalizzata unicamente alle disposizioni pertinenti all’oggetto del presente contributo.
3. Il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8: la tradizione che rassicura
Si è già accennato alla scelta del legislatore di prevedere, nel d. lgs. n. 8/2016, due criteri di selezione dei reati da trasformare in illeciti amministrativi: uno principale, di natura formale ed uno complementare, di carattere nominativo.
Il primo parametro selettivo opera al buio, perché i reati oggetto di trasformazione in illeciti amministrativi non sono suscettibili di preliminare e specifica individuazione, bensì possono essere rintracciati attraverso il riferimento alla pena della multa o dell’ammenda (secondo un criterio già adottato in passato dal legislatore nella l. n. 689/1981).
Tuttavia, al fine di evitare che il criterio di depenalizzazione incentrato sul meccanico del riferimento alla pena edittale finisca con l’equiparare fattispecie caratterizzate da livelli diversi di disvalore, ed in conformità con la legge delega, detta opzione trova un immediato correttivo nella clausola di esclusione di specifiche categorie di reati, per cui la clausola cieca di depenalizzazione non opera nei confronti degli illeciti che siano previsti nel codice penale o che attengano a determinate materie extra codicem, individuate e raggruppate dal legislatore delegato in un apposito elenco, allegato al d. lgs. n. 8/2016 e finalizzato ad orientare e ad agevolare l’interprete.
Per converso, sono stati trasformati in illecito amministrativo alcuni reati, specificamente individuati, altrimenti destinati a restare esclusi dall’ambito di operatività della clausola cieca.
I reati oggetto di depenalizzazione nominativa sono collocati principalmente, ma non esclusivamente, all’interno del codice penale (la cui indicazione è contenuta nell’art. 2 del d. lgs. in esame).
Sono state quindi degradate ad illeciti amministrativi alcune contravvenzioni che rivestivano carattere marginale e formale (tanto che la dottrina le ha definite quali “reati quiescenti”; cfr. G. Losappio, Depenalizzazione, tranquillità personale e inquinamento acustico. L’art. 659 e la delega per la depenalizzazione delle contravvenzioni del c.p., in www.penalecontemporaneo.it, p. 9) come quella di abuso della credulità popolare nonché gli atti contrari alla pubblica decenza e gli atti osceni, ipotesi di reato per le quali dottrina e giurisprudenza negli anni passati si erano adoperate al fine di reinterpretare il bene giuridico rilevante, in direzione di un concetto di pudore inteso in senso “individualizzato” (sul punto si veda ex multis, A. Cadoppi - P. Veneziani, Elementi di diritto penale. Parte speciale. I reati contro la persona, IV ed., Padova, 2012, pp. 215 e ss. e, con specifico riferimento agli artt. 527 e 528 c.p., pp. 220 e ss.).
All’esito della depenalizzazione, dunque, gli atti osceni mantengono rilievo penale solo con riferimento alla condotta compiuta all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano.
Peraltro, proprio su questo versante deve incidentalmente rilevarsi che l’intervento legislativo ha dato vita ad una manifesta incongruenza: ha instaurato, infatti, un parallelo ed illogico binario trattamentale in tema di minori, a seconda che assistano a manifestazioni oscene “all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati” – ipotesi tuttora delittuosa – o altrove –, ed in questo caso si tratterà semplice illecito amministrativo.
Chiarito a grandi linee quale sia il campo di operatività delle norme depenalizzanti, l’aspetto che rileva in questa sede attiene all’esame degli artt. 8 e 9, che predispongono un’apposita disciplina transitoria.
In primo luogo, l’art. 8 comma 1 stabilisce che le sanzioni amministrative pecuniarie comminate per i nuovi illeciti amministrativi siano applicabili anche alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore dello stesso decreto (e, cioè, sino al 5 febbraio 2016), purché il procedimento non si sia concluso con provvedimento definitivo di condanna. Sostanzialmente, si è ritenuto che l’intervento di depenalizzazione in esame dia luogo ad una successione di leggi, contraddistinta dalla retroattività di una disciplina (di rango amministrativo) reputata dal legislatore più favorevole rispetto a quella (di natura penale) prevista al momento della commissione del fatto. A favore della soluzione della retroattività in mitius della legge punitiva amministrativa, milita, altresì, la considerazione della disciplina adottata tradizionalmente in tal senso nella legislazione vigente in materia di depenalizzazione (ex artt. 100 e ss., d. lgs. n. 507/1999).
Peraltro, se il procedimento pende in fase di impugnazione, e nel precedente grado è stata pronunziata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione – dichiarato che il fatto non è previsto dalla legge come reato – deve decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili.
Occorre sul punto evidenziare come la disposizione che continua a mantenere incardinato il giudizio risarcitorio dinanzi al giudice penale d’appello in caso di costituzione di parte civile, sia riportata solo nel d. lgs. n. 8/2016 e non in quello “gemello” che ha abrogato alcune fattispecie penali trasformandole in illeciti civili.
Anticipando solo in relazione a questo aspetto parte dei contenuti riferibili al d. lgs. n. 7/2016, è dato rilevare che dal silenzio del legislatore delegato nel d. lgs. n. 7/2016 è disceso un contrasto giurisprudenziale tra una parte degli interpreti che, al pari di quanto espressamente indicato nel d. lgs. in esame, ritenevano perdurasse la competenza del giudice penale dell’impugnazione, il quale contestualmente alla dichiarazione che il fatto non è più previsto come reato, deve tuttora decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili e coloro che invece ritenevano che costui dovesse pure revocare le statuizioni civili.
La questione, rimessa alle Sezioni Unite, è stata risolta nel senso che il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili, fermo restando il diritto della parte civile di agire ex novo nella sede naturale per il risarcimento del danno (Cass., Sez. Un., 46688/2016).
Questo meccanismo, peraltro, ha una sua logica di fondo: il d. lgs. n. 7 prevede che il giudice del risarcimento del danno sia lo stesso che commina la sanzione pecuniaria civile, e ciò anche con riferimento ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, salvo il caso di sentenza ormai irrevocabile. Sottrarre al giudice civile il giudizio sul risarcimento del danno avrebbe significato, quindi, mandare esente da responsabilità l’autore del fatto doloso, configurato come reato abrogato, dalla sanzione civile prevista anche in via transitoria. Il danneggiato, poi, dinanzi al giudice civile, potrà comunque allegare e provare il suo danno in base alle prove raccolte nel processo penale, con l’unica precisazione per cui mancherà il giudicato penale di condanna.
Ciò premesso, è necessario ora indagare la tematica relativa al risarcimento del danno nelle ipotesi di illeciti non più penalmente rilevanti poiché depenalizzati. Occorre sul punto prendere le mosse dalla circostanza per cui nel caso del d. lgs. n. 8/2016 si è proceduto esclusivamente a depenalizzare le ipotesi esplicitamente previste, senza introdurne di nuove: ragion per cui un’azione risarcitoria in questi casi si potrà basare sull’art. 2043 c.c. e quindi sull’archetipo della responsabilità extracontrattuale. Nulla di nuovo, quindi, rispetto all’impostazione del passato; se non fosse che a seguito dell’abrogazione delle fattispecie penali si è reso oggettivamente più complicato ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale (e tra l’altro quanto si dirà a breve vale anche per il d. lgs. “gemello” in tema di abrogazione).
In assenza di specifiche disposizioni di legge che per tali fatti prevedano la risarcibilità di questo tipo di danno, come avveniva prima dell’abrogazione per il combinato disposto degli artt. 2059 c.c e 185 c.p., il risarcimento è ora conseguibile soltanto se derivante da lesione grave di diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale e selezionati caso per caso dal giudice (secondo l’insegnamento ormai sedimentato a partire dalle storiche sentenze delle Sezioni Unite della Corte di cassazione nn. 26972 e 26973 del 2008).
In precedenza, al contrario, allorché gli illeciti erano astrattamente configurabili come reato, il danno era sempre risarcibile, purché naturalmente lo stesso fosse provato, anche per via presuntiva.
La stessa problematica può essere poi rapportata in tema di ipotesi abrogate e trasformate in illecito civile dal d. lgs. 7/2016.
4. Il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7: il “nuovo che avanza”
Con il reticolato normativo previsto nel d. lgs. 7/2016, il legislatore delegato ha dato attuazione all’art. 2, comma 3, L. n. 67/2014.
Sulla scorta dei criteri contenuti nella legge delega, il Governo avrebbe dovuto abrogare una serie di disposizioni previste nel codice penale e – “fermo il diritto al risarcimento del danno” – istituire “adeguate sanzioni pecuniarie civili in relazione alle fattispecie abrogate” aventi “carattere aggiuntivo” rispetto al diritto al risarcimento del danno dell’“offeso”.
Nel contesto di un ordinamento civile, come quello italiano, in cui predomina principalmente la funzione compensativa della responsabilità civile, l’esplicita e generalizzata previsione dell’istituto delle sanzioni pecuniarie civili impone quantomeno di rimeditare sui rapporti storicamente intercorrenti tra diritto penale e diritto civile (per una stimolante analisi “in una dimensione diacronica” dei rapporti tra le due discipline cfr. C. Piergallini, “Civile” e “Penale” a perenne confronto: l’appuntamento di inizio millennio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, pp. 1299 e ss.; in ptc. pp. 1316 ss.). Sul punto, la dottrina non ha mancato di rilevare che “in questo senso, la sanzione pecuniaria civile assume le veci della sanzione penale in precedenza comminata: è al pari di questa di carattere punitivo, volta cioè alla prevenzione generale di comportamenti lesivi di determinati interessi e alla repressione conseguente all’inosservanza” (così T. Padovani, Procedibilità e applicazioni, le differenze più nette, in Guida al Diritto, 2016, 8, p. 76).
Anche in questo caso verranno analizzate esclusivamente le disposizioni pertinenti al tema di nostro interesse e si cercherà di affrontare alcuni tra i molteplici snodi problematici legati a questa riforma, sia pur con la prudenza imposta all’interprete a fronte di una normativa che ad oggi ha una prassi applicativa veramente stringata.
Il decreto legislativo in esame si compone di tredici articoli, suddivisi in due capi: il Capo I (artt. 1 e 2) riguarda l’abrogazione di reati e modifiche al codice penale; il Capo II (artt. da 3 a 13) concerne, invece, gli illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie civili.
L’art. 1 del decreto 7/2016 dispone l’abrogazione integrale dell’art. 485 c.p. (Falsità in scrittura privata), 486 c.p. (Falsità in foglio firmato in bianco. Atto privato), 594 c.p. (Ingiuria), 627 c.p. (Sottrazione di cose comuni) e 647 c.p. (Appropriazione di cose smarrite, del tesoro o di cose avute per errore o caso fortuito); le stesse fattispecie, poi, sono state riformulate nell’art. 4. Al contempo, nell’art. 2, si legiferano le “modifiche al codice penale”, con la “previsione, da un lato, di nuove fattispecie incriminatrici speciali per specificazione (come nel caso del danneggiamento) o parziali rispetto a quelle originarie (come nel caso della falsità in scrittura privata)” (così T. Padovani, cit., p. 77).
È tuttavia l’articolo 3, e più in generale il Capo II del decreto legislativo in esame, ad innovare l’ordinamento italiano. Si stabilisce, infatti, che “i fatti previsti dall’articolo seguente, se dolosi, obbligano, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita”.
Se commesso con dolo, quindi, il medesimo fatto tipico e antigiuridico fonda una duplice responsabilità: da un lato, esso comporta l’obbligo di risarcire il danno, conseguenza a cui conduceva anche prima della novella in commento; dall’altro, l’obbligo di adempiere al pagamento di una sanzione pecuniaria di carattere punitivo.
Peraltro, la difficoltà di trarre indicazioni univoche, in chiave sistematica, dalla disciplina delle figure punitive sparutamente già previste nell’ordinamento civile, è alla base della necessità di gettare le fondamenta della nuova categoria di sanzioni civili pecuniarie. In conseguenza della lacunosità dei criteri contenuti nella legge 67/2014, il legislatore delegato ha dovuto affrontare tale inedito compito assumendosi la responsabilità di scelte valutative delicate e complesse, che garantissero al contempo standard adeguati di tutela ed istanze di coerenza e funzionalità applicativa.
Dal punto di vista strutturale, si tratta di un tertium genus, di carattere pubblicistico e personale, che si inserisce per un verso nell’alveo delle sanzioni amministrative pecuniarie in ordine alla non convertibilità in misure incidenti sulla libertà personale in caso di insolvibilità, ma che se ne discosta per altro verso, ossia avuto riguardo al regime di procedibilità e alla natura degli interessi tutelati (nel senso di ritenere oggi sussistente una “specie di azione penale nel processo civile” si veda M. Bove, Un nuovo caso di pronuncia d’ufficio: profili processualcivilistici del d. lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 (d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7), in Nuove Leggi Civ. Comm., 2016, 3, p. 412).
Peraltro, con l’art. 3 del d. lgs. n. 7/2016 si è assistito all’emersione del dolo quale autonomo criterio di imputazione della responsabilità (solo astrattamente) civile, che si affianca alla colpa – minimum richiesto per la responsabilità risarcitoria – e che conduce a conseguenze ulteriormente pregiudizievoli per l’agente (per un’analisi in ordine all’antigiuridicità e all’elemento soggettivo della responsabilità aquiliana si veda M. Franzoni, Antigiuridicità del comportamento e prevenzione della responsabilità civile, in Resp. civ., 2008, 4).
Il d. lgs. in esame, quindi, da un lato chiarisce che in tema di responsabilità risarcitoria nulla è mutato, perché, come in passato, le ipotesi riformulate danno luogo a risarcimento del danno “secondo le leggi civili” e quindi, a seconda dei casi, si tratterà di un giudizio risarcitorio incardinato per violazione del principio del neminem laedere ai sensi dell’art. 2043 c.c., ovvero anche per inadempimento contrattuale. Dall’altro lato stabilisce che qualora la condotta sia sorretta dal dolo, l’agente sarà chiamato a corrispondere una sanzione pecuniaria civile.
Questa sanzione è irrogata, in base al meccanismo congegnato dall’art. 8 del d. lgs. in esame, dal giudice “competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno” al termine del processo e “qualora accolga la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa”.
È consentito a questo punto interrogarsi su quale soggetto sia legittimato all’azione civile che conduce all’irrogazione di una sanzione pecuniaria: in altri termini, ci si potrebbe chiedere se può agire ogni danneggiato o, per converso, solo colui che, quale persona offesa dal reato, avrebbe in precedenza potuto presentare querela. Orbene, se spesso, soprattutto nelle fattispecie sostanziali qui rilevanti, le due figure coincidono, non è detto che ciò accada sempre. In concreto sebbene l’art. 8, comma 2, del d. lgs. in esame ipotizza l’irrogazione della sanzione civile pecuniaria solo qualora venga accolta la domanda di risarcimento proposta dalla “persona offesa”, è da ritenere che non occorra dare determinante rilevanza alla formulazione testuale della disposizione, perché pare piuttosto evidente che ciò che conta è che sia esercitata un’azione risarcitoria derivante dall’illecito; in altri termini, che un interesse privato coinvolto sia fatto valere: anche perché solo una domanda risarcitoria avanzata dal danneggiato condurrebbe al suo accoglimento e, quindi, all’eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria.
Se la persona offesa/danneggiato pretende il ristoro dei danni subiti, allora lo Stato, nella persona del giudice investito della causa civile, pretende di punire il danneggiante-colpevole di questo illecito con una sanzione pecuniaria, che non si trasmette agli eredi (ai sensi dell’art. 9, comma 6) e il cui provento è integralmente devoluto a favore della Cassa delle ammende (in base all’art. 10).
È legittimo quindi interrogarsi sulla concreta effettività del meccanismo sanzionatorio così come concepito, legato a doppio filo alla proposizione e all’accoglimento dell’azione risarcitoria.
E ciò per due ordini di ragioni, la prima delle quali è di natura strettamente pratica.
Il danneggiato, infatti, non ha alcun interesse a concorrere con un altro creditore (nella persona dello Stato) sull’unico patrimonio del danneggiante; potenzialmente, infatti, potrebbe veder pregiudicato il suo concreto soddisfacimento qualora il patrimonio di costui non sia sufficiente per entrambe le pretese. A monte, peraltro, deve riflettersi come la qualifica penale dell’illecito garantiva in precedenza la presa in carico della tutela da parte del pubblico ministero mentre, oggi, l’offeso è posto dinanzi alla necessità di assicurarsela con i propri mezzi e a proprie spese (notoriamente elevate nel caso del processo civile).
In secondo luogo, occorre riflettere sul fatto che nelle ipotesi più semplici, quale ad esempio l’ingiuria, il danneggiato agirà per il risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c., e gli elementi costitutivi della sua domanda tendenzialmente coincideranno con quelli previsti dall’illecito tipico (ovvero la condotta offensiva del decoro o dell’onore, il danno patito e il nesso causale).
Tuttavia, questa perfetta coincidenza potrebbe non esserci. Basti pensare, ad esempio, all’ipotesi di sottrazione di cose comuni, di cui al vecchio art. 627 c.p. Anche in questo caso il danneggiato potrebbe agire per ottenere il ristoro dei danni e si limiterà ad allegare e provare i fatti costitutivi della sua domanda, poco o nulla rilevando ai suoi scopi la finalità che ha spinto l’agente ad agire, indicata nell’art. 4 e relativa alla volontà di “procurare a sé o ad altri un profitto” (profilo diverso, ma strettamente connesso a quanto detto, è quello relativo al quantum di prova necessario ai fini dell’irrogazione della sanzione punitiva. Sul punto, A. Galgani, La depenalizzazione bipolare: la trasformazione di reati in illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie amministrative e civili, in Dir. pen. e proc., 2016, 5, 584, ritiene che “Non essendo contemplata alcuna norma di disciplina … deve, pertanto, ritenersi sufficiente l’integrazione del livello di prova in genere necessario nel processo civile e, in particolare, ai fini della decisione sull’istanza di risarcimento del danno. La scelta dì allineare lo standard probatorio a quello contemplato nell’ordinamento civile (“più probabile che non”), risponde, dunque, ad esigenze dì coerenza e di funzionalità pratico-applicativa”).
L’Autorità giudiziaria chiamata a pronunciarsi in sede risarcitoria non potrà quindi irrogare la sanzione pecuniaria civile qualora gli elementi costitutivi dell’illecito non risultino ex actis, quantomeno per via presuntiva (si pensi già solo al profilo psicologico, dovendo per la sussistenza della pretesa punitiva dello Stato, aversi il dolo del “colpevole”, ai sensi dell’art. 3, comma 1, del d. lgs. 7/2016, mentre per la sussistenza della pretesa risarcitoria del danneggiato è sufficiente anche solo la colpa del danneggiante). Tale conclusione è da trarsi poiché il giudice civile non è titolare di poteri officiosi al pari di quello penale perché non esiste nel codice di rito l’alter ego dell’art. 507 c.p.p. Quindi, o gli elementi costitutivi delle fattispecie tipiche vengono allegati e provati dall’attore, per una sua libera scelta, comunque non necessaria ai fini dell’ottenimento del risarcimento del danno, o dovranno comunque risultare dagli atti del processo, altrimenti il giudice non potrà condannare il danneggiante alla sanzione pecuniaria.
Ulteriori perplessità attengono poi ai criteri che devono guidare il giudice nell’irrogazione della sanzione pecuniaria.
L’art. 5, infatti, statuisce che l’importo (all’interno del limite minimo e massimo predeterminato dalla legge) è stabilito concretamente tenuto conto
a. Della gravità della violazione;
b. Della reiterazione dell’illecito;
c. Dell’arricchimento del soggetto responsabile;
d. Dell’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell’illecito;
e. Della personalità dell’agente;
f. Delle sue condizioni economiche.
Orbene, il criterio della gravità dell’illecito, unitamente a quello relativo all’arricchimento del soggetto responsabile e alle opere riparatorie successive si ricollegano tendenzialmente all’accertamento della pretesa risarcitoria; la reiterazione della condotta si potrà verificare agevolmente una volta istituito il registro informatico previsto dall’art. 11, così come le condizioni economiche del danneggiante si potranno provare documentalmente. Dubbi, al contrario, perdurano circa il requisito della “personalità” del soggetto agente e si potrebbe anche ipotizzare che sul punto si possa ricorrere ai criteri di stampo penalistico previsti dall’art. 133 comma 2 c.p. (Nel senso che la considerazione dei criteri di commisurazione conferma la connotazione in senso afflittivo delle sanzioni in esame, si veda P. Veneziani, M. Celva, cit., p. 478; per parte della dottrina, inoltre, il riferimento alle eventuali prestazioni riparatorie poste in essere dall’autore dell’illecito conferma la particolare e crescente attenzione rivolta dal legislatore al ruolo della giustizia riparativa. Così L. Eusebi, Riforma penitenziaria o riforma penale? in Dir. pen. e proc., 2015, 11, pp. 1337 e ss.).
Profilo speculare a quanto sinora affermato è quello relativo al rispetto del diritto di difesa del trasgressore, posto che, sulla scorta del rinvio previsto dall’art. 8 comma 4 del d. lgs. 7/2016, “al procedimento, anche ai fini dell’irrogazione della sanzione pecuniaria civile, si applicano le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili con le norme del presente capo”. A costui, quindi, deve essere comunque consentito di allegare e provare elementi tesi ad elidere la sanzione o, almeno, a contenerne il quantum (è sufficiente richiamare il criterio commisurativo della sanzione, previsto dall’art. 5 lett. d), relativo all’opera svolta per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell’illecito). Sul versante applicativo, poi, tale conclusione potrebbe trovare concreta estrinsecazione attraverso il meccanismo previsto dall’art. 101 comma 2 c.p.c.
Più in generale, comunque, il necessario rispetto del principio del contraddittorio trova indiretta conferma nel disposto dell’art. 8 comma 3 che sancisce inapplicabilità della sanzione pecuniaria civile “quando l’atto introduttivo del giudizio è stato notificato nelle forme di cui all’art. 143 c.p.c., salvo che la controparte si sia costituita in giudizio o risulti con certezza che abbia avuto comunque conoscenza del processo” (si veda in ordine a questo aspetto G. Buffone, cit., p. 87, il quale si interroga “se l’accertamento circa la conoscibilità del procedimento debba essere condotto ex officio dal giudice e, in caso affermativo, con che mezzi probatori”).
Un ultimo accenno è da farsi in relazione all’omessa irrogazione della sanzione da parte del giudice di primo grado. È chiaro che in assenza di appositi meccanismi che prevedano una comunicazione alla Cassa delle ammende non vi sarà un’apposita ed esclusiva impugnazione da parte dell’Amministrazione, la quale non sarà portata a conoscenza dell’omissione. Viceversa, se la sentenza è impugnata dal danneggiato, il giudice di secondo grado potrebbe ritenersi sia nel poteredovere di irrogare la sanzione, ove ricorrano tutti i presupposti previsti dal d. lgs. in esame, senza che si ponga un problema di menomazione del diritto di difesa del danneggiante perché un primo grado di giudizio si è già celebrato nel contraddittorio tra le parti.
Al contrario, se il danneggiante impugna la decisione di primo grado unicamente sotto il profilo sanzionatorio (in merito all’an o al quantum) è ragionevole ritenere che debba notificare l’atto introduttivo al danneggiato, quale mera litis denuntiatio.
5. Conclusioni
Con i dd. lgs. nn. 7 e 8 del 2016 il legislatore ha evidentemente inaugurato una nuova stagione sanzionatoria, rifuggendo dal paradigma penalistico ritenuto per certi versi inefficace.
Entrambe le discipline di depenalizzazione presentano, come si è visto, limiti e profili problematici destinati a influenzare le funzionalità applicative e, almeno per quanto concerne il d. lgs. n. 7, la devoluzione al giudice civile della competenza in materia di illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie, piuttosto che all’autorità amministrativa, ipotesi pure astrattamente ammissibile, ha comportato aporie di non scarsa rilevanza, anche in considerazione del fatto che questo contenzioso si innesta necessariamente ed esclusivamente all’interno di un giudizio risarcitorio dei danni alla persona lesa.
Peraltro, oltre alle perplessità e alle incoerenze già delineate, deve considerarsi come proprio in capo al danneggiato sia allocato l’onere di dover sostenere il processo sanzionatorio, con un prevedibile allungamento dei tempi di definizione della propria causa.
Certo è che le problematiche qui affrontate sono solo alcune di quelle sorte dall’introduzione di queste novelle e sarà solo il tempo a dirci se dopo anni di riflessioni a livello politico e dottrinale la montagna abbia partorito l’ennesimo topolino.