Come è noto, l’art. 18, lett. h) della legge n. 69 del 2005, che ha dato esecuzione alla Decisione Quadro 2002/584/GAI del Consiglio, secondo il quale "la Corte di appello rifiuta la consegna se sussiste un serio pericolo che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti", è stato restrittivamente interpretato dalla Cassazione fino al 2015, sul presupposto che il motivo di rifiuto della consegna non potesse ritenersi integrato dalla mera prospettazione dell’esistenza, nello Stato richiedente, di una condizione di sovraffollamento carcerario o di una possibile mancanza di adeguata assistenza medica, in mancanza di elementi concreti sulla reale situazione nelle carceri di quello Stato (v., tra le tante, sent. 43537/2014 riguardante il cittadino rumeno Florin in ordine allo spazio minimo).
Dopo la sentenza 5 aprile 2016, C404/15, Aaranyosi e Caldararu della Corte di giustizia della Unione europea la Cassazione ha cambiato opinione.
Tale sentenza traeva origine da varie decisioni di condanna per l’art. 3 Convenzione EDU pronunciate nel 2014 dalla Corte europea per i diritti umani nei confronti della Romania (Corte EDU, Bujorean c. Romania; Constantin Aurelian Burlacu c. Romania, Mihai Laurentiu Marin c. Romania) per il sovraffollamento delle carceri e per le cattive condizioni materiali di detenzione, sia dal Rapporto 2015 del Comitato europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio, in relazione alla situazione delle carceri in Romania, a seguito di visite effettuate nel giugno 2014.
Secondo la sentenza Aaryanosi e Caldararu, pur restando fermo il principio che non sia possibile introdurre un nuovo motivo di rifiuto di esecuzione di un Mae non previsto dalla Decisione quadro, detto assunto deve essere bilanciato dal riconoscimento del divieto di pene o trattamenti inumani e degradanti come valore fondamentale dell’Unione, con carattere assoluto e inderogabile. Pertanto, laddove si profili il rischio reale e vi siano elementi obiettivi, precisi e concreti che facciano ritenere probabile che il ricercato venga sottoposto ad un trattamento inumano e degradante, lo Stato di esecuzione è tenuto a valutarlo, con la conseguenza che l’esecuzione del mandato d’arresto deve essere, se non abbandonata, quantomeno sospesa.
Seguendo detta pronuncia, la Cassazione ha affermato che il motivo di rifiuto della consegna impone all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione di verificare, dopo aver accertato l’esistenza di un generale rischio di trattamento inumano da parte dello Stato membro, se, in concreto, la persona oggetto del Mae potrà essere sottoposta ad un trattamento disumano.
Questo significa che, a tal fine, deve essere richiesta allo Stato emittente qualsiasi informazione complementare necessaria, ragion per cui l’autorità giudiziaria deve rinviare la propria decisione sulla consegna fino a quando, entro un termine ragionevole, non ottenga notizie che le consentano di escludere la sussistenza del rischio. Il rischio va valutato basandosi su «elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati» sulle condizioni di detenzione vigenti nello Stato membro emittente e comprovanti la presenza di carenze sia sistemiche o comunque generalizzate, sia limitate ad alcuni gruppi di persone o a determinati centri di detenzione.
A tal fine, la Cassazione ha indicato quali fonti conoscitive qualificate le decisioni giudiziarie internazionali, in particolare le sentenze della Corte EDU, le decisioni giudiziarie dello Stato membro emittente nonché le decisioni, relazioni e altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d’Europa o appartenenti al sistema delle Nazioni Unite. Deve quindi essere effettuato un supplemento di istruttoria, a norma dell’art. 15, par. 2 della decisione quadro del 2002 (in tal senso v. Cass. pen., sent. n. 23277 del 2016 relativa al cittadino rumeno Barbu).
Nell’ambito di dette indagini la Corte di appello deve inoltrare all’autorità giudiziaria la richiesta delle seguenti informazioni:
1. se la persona richiesta in consegna sarà detenuta presso una struttura carceraria;
2. quali saranno le condizioni di detenzione riservate all’interessato e, dunque, il nome della struttura in cui lo interessato sarà detenuto, lo spazio individuale minimo intramurario allo stesso riservato, le condizioni igieniche e di salubrità dell’alloggio, i meccanismi nazionali o internazionali per il controllo delle condizioni effettive di detenzione della persona che deve essere consegnata.
Nell’inoltrare la richiesta di informazioni complementari, la Corte di appello deve fissare un termine adeguato che, ai sensi dell’art. 16 Decisione Quadro, non potrà comunque essere superiore ai trenta giorni.
Secondo la Cassazione, tradizionalmente, il travalicamento di detto termine non costituisce causa ostativa alla valutazione della pervenuta documentazione e alla successiva consegna (v. Cass. pen., sent. n. 53 del 2014, relativa a Mae rumeno contro Petrescu).
Laddove pervengano informazioni sufficienti ad escludere per la persona richiesta in consegna il rischio di un trattamento contrario all’art.3 Convenzione EDU nei termini suddetti, la consegna sarà consentita.
Diversamente, se dalle stesse non può escludersi il suddetto rischio, la Corte di appello è tenuta a rifiutare - quanto meno allo stato degli atti - la consegna. In concreto, tra le condizioni da valutare al fine di stabilire se vi sia o meno un trattamento inumano, un ruolo di primo piano gioca lo spazio individuale intramurario.
Sul punto, seguendo i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, lo stesso va individuato in uno spazio pari ad almeno tre metri quadrati «calpestabili», al netto del bagno, del letto e di eventuali altri mobili.
In particolare, relativamente alla qualità della detenzione, deve ricordarsi che la Corte Edu si è pronunciata in diverse occasioni. Ha considerato i
tre elementi seguenti:
1. ogni detenuto deve avere un posto individuale per dormire nella cella;
2. ogni detenuto deve disporre di almeno 3 metri quadri di superficie;
3. la superficie totale della cella deve essere tale da permettere ai detenuti di muoversi liberamente fra gli elementi di arredo. L’assenza di uno soltanto fra i suddetti elementi crea di per sé una forte presunzione che le condizioni detentive trasmodino in un trattamento degradante e costituiscano un’infrazione all’art.3.
Questi elementi devono, quindi, sussistere tutti. In mancanza anche di uno solo di essi il trattamento deve considerarsi inumano (v. Corte EDU Ananyev c. Russia, 2012; Dmitriy Sazonov c. Russia, 2012; Nieciecki c. Grecia, 2012; Torreggiani c. Italia, 2013; Olszewski c. Polonia, 2013; Kanakis c. Grecia, 2013; Tatishvili c Grecia, 2014; Tereshchenko c. Russia, 2014; Bulatovie c. Montenegro, 2014).
Tuttavia, la Corte EDU ha anche affermato che, nel valutare in particolare le condizioni detentive in strutture per condannati, bisogna tenere conto dell’effetto cumulativo delle condizioni di detenzione. Di conseguenza, la questione dello spazio personale deve essere considerata nel contesto del regime applicabile, che permette ai detenuti di beneficiare di una più ampia libertà di movimento durante la giornata rispetto a coloro che sono sottoposti ad altri tipi di regime detentivo nonché nel contesto della loro conseguente possibilità di avere libero accesso alla luce naturale ed all’aria.
Ciò costituisce una compensazione sufficiente alla scarsa assegnazione di spazio per il condannato (in tal senso, v. Shkurenko c. Russia, 2009; Norbert Sikorski c. Polonia, 2009; Dmitriy Rozhin c. Russia 2012; Kulikov c. Russia 2012; Yepishin c. Russia, 2012; Vladimir Belyayev c. Russia, 2013). Quindi, deve ritenersi integrare una situazione di grave ed intollerabile sovraffollamento la detenzione della persona in uno spazio inferiore a tre metri quadrati in regime chiuso.
Tale “forte presunzione” di disumanità della restrizione in caso di superficie inferiore a detta soglia può, tuttavia, essere superata in presenza di circostanze che consentano al detenuto di beneficiare di maggiore libertà di movimento durante il giorno e che gli rendano possibile il libero accesso alla luce naturale ed all’aria, sì da compensare l’insufficiente assegnazione di spazio.
Quando la Corte di appello si attiene a questi principi e dispone la consegna, la Cassazione respinge il ricorso del detenuto, come ad esempio ha fatto nel caso Mihai (v. sent. 5472/2017), in cui ha osservato che il Ministero della Giustizia rumeno ha fornito informazioni puntuali in merito al regime esecutivo, ha circostanziato la situazione detentiva che sarebbe stata riservata al detenuto, descrivendo le condizioni delle celle, i servizi disponibili, la possibilità di accesso all’aria aperta nonché a programmi di assistenza psico-sociale, le condizioni igienico-sanitarie dell’istituto nonché la superficie disponibile.
A tale ultimo proposito, l’Autorità richiesta ha chiarito che il detenuto avrebbe avuto a disposizione una superficie non inferiore a tre metri quadri in caso di regime chiuso e non inferiore a due metri quadri in caso di regime semiaperto.
La recente sentenza Mursic contro Croazia della Corte EDU del 20/10/2016 costituisce una sintesi ed un ulteriore perfezionamento didetto orientamento. Essa si concentra sulla possibilità di deroga del principio per cui le celle devono essere necessariamente non inferiori a tre metri
quadrati proprio tenuto del possibile riequilibrio delle condizioni detentive.
Secondo detta sentenza, per compensare lo spazio minimo sono richiesti: la brevità della permanenza in cella, l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella, l’adeguata offerta di attività esterne alla cella, le buone condizioni complessive dell’istituto e l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti.
Anche queste condizioni sono cumulative, sicché devono sussistere tutte. A seguito della sentenza Mursic c. Croazia, il quadro di sintesi sembra essere il seguente:
a. quando lo spazio personale scende sotto i 3 m2 in una cella collettiva (cosi come quando il detenuto non dispone di un posto letto o di na superficie tale da consentirgli di muoversi tra il mobilio), la mancanza di spazio è considerata talmente grave che sussiste una strong presumption” di violazione dell’art. 3 Convezione EDU. Il Governo convenuto ha l’onere di confutare tale presunzione, dimostrando l’esistenza di fattori che cumulativamente siano in grado di compensare tale mancanza di spazio vitale (§137), quali:
1) la brevità, l’occasionalità e la minore rilevanza della riduzione dello spazio personale minimo richiesto (§130);
2) la sufficiente libertà di movimento e lo svolgimento di adeguate attività all’esterno della cella (§133);
3) l’adeguatezza della struttura, in assenza di altri aspetti che aggravino le condizioni di privazione della libertà (§134).
b. Quando lo spazio individuale in una cella collettiva si attesta tra i 3 e i 4 m2, sussiste una violazione dell’articolo 3 Convenzione Edu se tale condizione risulta combinata ad altri aspetti di inadeguatezza della detenzione.
Tali aspetti riguardano, in particolare, la possibilità di svolgere attività fisica all’aria aperta, la presenza di luce naturale e aria nella cella, l’adeguatezza della ventilazione e della temperatura, la possibilità di utilizzare la toilette in privato ed il rispetto dei generali requisiti igienico-sanitari (§106).
c. Nei casi in cui un detenuto disponga di più di 4 m2 in una cella collettiva e, quindi, non si pongano problemi per quanto riguarda la mancanza di spazio personale, rimangono comunque rilevanti altri aspetti riguardanti le condizioni di detenzione ai fini della valutazione di conformità all’articolo 3 della Convenzione (§ 48, 53, 55, 59 e 63-64).
Va precisato che, secondo la Cassazione, ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati, da assicurare a ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, così come interpretato, tra le molte pronunce, dalla giurisprudenza della Corte EDU in data 8 gennaio 2013 nel caso Torreggiani c. Italia, dalla superficie lorda della cella devono essere detratte l’area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto, ove questo assuma la forma e struttura “a castello”, e gli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente amovibili come sgabelli o tavolini (v. Cass. pen., sent. 13124/2017).
Orbene, a fronte di tale quadro complessivo, va rilevato che la Cassazione si sta limitando a richiamare la sentenza Mursic più che farne letterale applicazione, come sembra essere avvenuto nella sentenza n. 26876/2017 circa la conferma della consegna del cittadino rumeno Bimbirica ed in quella n. 11980/2017 circa la conferma della consegna del cittadino rumeno Mocanu.
Sembra, infatti, non essere stato colto a pieno l’elemento differenziale dirompente insito in tale pronuncia sovranazionale rispetto ai trend assimilati dopo la sentenza Caldararu.
In realtà, la Mursic da un lato sembra abbassare il livello delle garanzie, evocando una compensazione tra lo spazio inframurario a disposizione del detenuto ed il complessivo regime cui questi è sottoposto, in sostanza ammettendo un bilanciamento tra detti fattori diversi e disomogenei; dall’altro, tuttavia, pretende che nello spazio calpestabile sia incluso il letto, pur dovendo continuare ad essere escluso il bagno.
Rispetto a tale quadro, se la Cassazione recepisce quasi acriticamente la pronuncia, senza darvi nella sostanza corso fino alle estreme conseguenze, la dottrina, ad una prima lettura, sembra aver interpretato la sentenza Mursic come una sconfessione della pregressa giurisprudenza sovranazionale e come una sostanziale marcia indietro rispetto alle garanzie introdotte dalla stessa.
La Mursic, in altri termini, non segnerebbe una mera variante o una ulteriore specificazione dell’orientamento precedente, ma un suo disconoscimento.
Solo il prosieguo del dialogo fra le Corti di Strasburgo, Lussemburgo e Roma saprà, si spera, chiarire e risolvere le discrasie rilevate, non nascondendosi che, allo stato, esse possono porre una serie di problemi di carattere pratico a volte determinando, nell’incertezza, il blocco delle esecuzioni dei Mae verso l’estero, a volte favorendo disparità di trattamento in casi analoghi.
Effetti, questi, chiaramente inammissibili ed indesiderati.