«Il linguaggio che usiamo parlando in confidenza e intimità è un ‘ trojan’. È una spia autentica, degnissima di fede. Via le maschere artificiali della decenza e della convenienza, mette in mostra una sostanza », scriveva Gustavo Zagrebelski, commentando, un anno fa, la pubblicazione delle prime intercettazioni e di parti significative dell’indagine di Perugia.
Un anno dopo, altri pezzi di dialoghi ( quanto selezionati, e con quale criterio, si vedrà) offrono elementi ulteriori dello stesso mondo, ma con una “prospettiva” più ampia: un diffuso sistema di relazioni, e ulteriori aspetti della stessa sostanza.
Una sostanza che oscilla dall’illecito, al torbido, dall’inopportuno all’avvilente, e che interessa diversi, e diversamente gravi, piani: l’interferenza esterna sul Csm; carrierismo e correntismo, e rapporto tra magistratura e autogoverno ( e dunque condizionamento interno del Consiglio); sospetti di interferenza giurisdizionale; rapporto tra politica e magistratura, nella sua evidente reciprocità, ben oltre i luoghi, e i momenti, in cui essa è fisiologica, e assume anzi i contorni di una relazione personale, e quelli discutibili di un’ambizione personale, evidentissima nel protagonismo di taluno.
Sarebbe naturalmente singolare affrontare oggi “il caso Palamara” dal solo lato del suo ruolo, e delle sue condotte: e tuttavia appare non meno singolare la pretesa – evidentemente tutt’altro che disinteressata – di trarre dalla sua pur indubbia, enorme rilevanza una sorta di paradigma dell’intera magistratura, e soprattutto del modo di essere della giurisdizione, della sua imparzialità, e del suo rigore, in un tentativo di delegittimazione che muove da giudizi sommari ed indistinti, e pretende di travolgere tutto, magistratura, Csm, associazionismo giudiziario. Un anno fa emerse con nettezza un tentativo di condizionamento del Csm nella scelta del Procuratore della Repubblica di Roma; la gravità dei fatti portò ad una rivolta nella comunità dei magistrati, ed a conseguenze senza precedenti. Cinque consiglieri del Csm e il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione dimessi, come richiesto con fermezza dall’Anm. Ad oggi l’assunzione di responsabilità ha riguardato solo i magistrati coinvolti, mentre non ha riguardato minimamente il lato della politica.
Quei fatti mostrarono subito l’urgenza di interventi, che infatti l’Anm ha posto immediatamente al centro del dibattito e della proposta, rivolta alla politica, al Csm e naturalmente alla magistratura stessa, ed ai gruppi associativi. È doveroso ricordare che con largo anticipo rispetto all’esplosione dello scandalo rivelato dall’indagine di Perugia, l’Anm aveva sollecitato il legislatore ad intervenire sui tanti nodi che essa ha disvelato: sul rientro in ruolo dei magistrati dopo aver ricoperto varie funzioni politiche, ponendo in modo chiaro il tema della possibile compromissione dell’immagine di imparzialità e di terzietà; sul rientro in ruolo dei Consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura, sollecitando la previsione di un termine più ampio prima che potessero richiedere qualsivoglia incarico diverso da quello prima ricoperto ( e siamo ancor oggi in attesa di conoscere chi, e perché, abbia voluto, all’opposto, cancellare del tutto il termine, evidentemente nell’interesse di aspirazioni soggettive); aveva sollevato reiterati rilievi sull’attuale legge elettorale per l’elezione del Csm.
Eppure non una delle nostre proposte è stata accolta; come nessuna delle altre avanzate, con ancora maggiore completezza, nel giugno del 2019, all’esplodere della crisi e alla esplicita presa d’atto che urgeva ( ed urge oggi ancora di più) una serie di riforme imposte dalle ragioni della crisi stessa: un nuovo sistema elettorale in grado di restituire ai magistrati una scelta reale e non condizionata dai gruppi ( l’Anm ha cercato, per le elezioni suppletive conseguenti alle dimissioni dei consiglieri, di favorire questo percorso, sia pure nei limiti delle norme esistenti); una modifica radicale delle norme sull’ordinamento giudiziario, al fine di ridisciplinare la carriera, le sue tappe ( spesso trampolini di lancio per tappe ulteriori), e ridurre gli spazi di un’ampia discrezionalità che, concessa dal 2006 al Csm, ha costituito una formidabile occasione di esercizio di potere, più che delle correnti, dentro le correnti; una vera temporaneità delle funzioni direttive.
Molti altri i temi da affrontare: tra essi l’assetto delle Procure, improntato dalla riforma del 2006 ad una accentuata gerarchizzazione interna, e sottratto ad un penetrante controllo organizzativo che invece il Csm esercita sugli uffici giudicanti.
È sorprendente dunque che oggi l’Anm sia destinataria di critiche di segno opposto: inerzia colpevole, se non corrività; o “interferenza indebita”, come se analizzare, discutere, proporre non costituisca la ragione stessa, e l’essenza, dell’associazionismo giudiziario. Essenziale, però, affrontare – senza l’alibi delle inerzie e delle responsabilità altrui – quello che la magistratura può e deve fare, da sé, senza attendere la politica, ed anzi precedendola: muovere da una severa, schietta, profonda autocritica, che riguarda il modo di concepire l’associazionismo, il suo ruolo, e in esso le correnti, la loro dirigenza, le relazioni improprie per loro tramite coltivate.
Se è vero che ( l’avvilente) competitività tra i magistrati, determinata da diffuse ambizioni di carriera, ha trovato terreno fertile in riforme ordinamentali da ripensare dalle fondamenta, è non meno vero che essa ha intercettato le peggiori dinamiche di potere e i più deteriori costumi dentro le correnti: compito nostro è riscrivere le regole dell’etica dentro i gruppi, restituendo a loro e all’Associazione, che ne è l’alto denominatore comune, il ruolo essenziale che ha avuto nell’attuazione del modello costituzionale di giurisdizione.