L’emendamento alla legge comunitaria approvato dalla Camera dei Deputati, che prevede modifiche relative alla responsabilità civile dei magistrati (con possibilità di citazione diretta in giudizio dei magistrati da parte delle persone danneggiate), mina la terzietà, l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati e, quindi, il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Il vero significato dell’attuale dibattito sulla responsabilità civile dei magistrati non può essere ridotto allo slogan, suggestivo ma fuorviante, “chi sbaglia paga”, che certamente fa effetto sull’opinione pubblica ma in realtà fa dimenticare che la normativa in materia è posta a protezione di valori fondamentali dei cittadini medesimi e non a tutela dei magistrati.
Decenni di dibattito democratico e scientifico hanno posto in evidenza la necessità di contemperare due opposte esigenze: da un lato, garantire i beni e i diritti dei cittadini vittime di errori giudiziari; dall’altro, evitare condizionamenti al magistrato nell’esercizio delle sue funzioni a tutela dei cittadini medesimi.
Il punto di equilibrio tra le diverse esigenze da tutelare è stato, come è noto, trovato, in esecuzione dell’esito del referendum popolare del 1987, nella legge 18 aprile 1988 n. 117 («Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati»).
La legge attuale – al pari di quanto previsto per altre categorie di dipendenti pubblici – prevede così la responsabilità civile del magistrato per tutti i fatti costituenti reato o comunque dolosi, nonché per gli errori derivanti da colpa grave. Ma l’azione civile va esperita contro lo Stato e non contro il magistrato personalmente, ferma poi l’azione in rivalsa dell’amministrazione nei confronti del magistrato responsabile. Non è vero, quindi, che il magistrato responsabile per la legislazione attuale non paga; in realtà non è esposto all’attacco diretto della parte soccombente o dell’imputato condannato. In generale, non si tiene conto del fatto che in Italia per i magistrati esistono già ben cinque forme di responsabilità: penale, civile, disciplinare, contabile e anche professionale.
La disciplina vigente è stata ritenuta dalla Consulta conforme ai principi della Carta costituzionale, poiché – nel porre alcune limitazioni alla pretesa risarcitoria, a salvaguardia dell’indipendenza dei magistrati e dell’autonomia e della pienezza dell’esercizio della funzione giudiziaria – assicura un ragionevole punto di equilibrio fra i contrastanti interessi, di rilievo costituzionale, della responsabilità dei pubblici dipendenti (art. 28 Cost.) e dell’indipendenza ed autonomia della magistratura (artt. 101, 104 e 108 Cost.).
In particolare, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 18/1989 ha spiegato che l’art. 28 Cost. fissa la regola generale, valida per tutti i funzionari e i dipendenti pubblici (e, quindi, anche per i magistrati), della loro responsabilità per «gli atti compiuti in violazione di diritti», secondo «le leggi penali, civili ed amministrative», ma al contempo demanda al legislatore di prevedere una disciplina speciale che tenga contestualmente in conto i principi costituzionali dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice. Ciò per l’assoluta peculiarità delle funzioni giurisdizionali rispetto a ogni altra attività dello Stato-Pubblica Amministrazione.
Principi che – qualora fosse introdotta un’azione diretta di responsabilità nei confronti del magistrato – sarebbero invece irrimediabilmente compromessi.
In questo modo, infatti, il giudice non sarebbe più autonomo e indipendente e, quindi, equidistante dalle parti, nell’esprimere il proprio giudizio, ma sarebbe esposto e condizionato soprattutto da chi ha i mezzi, anche economici, per intraprendere contenziosi contro i magistrati.
Il giudice necessariamente, con la sua attività, deve distribuire torti e ragioni, scontentando una parte o, se necessario, entrambe, a tutela della collettività. Anzi, può dirsi che il giudice è funzionalmente chiamato a questo compito. Un giudice esposto alle azioni dirette delle parti scontentate non sarà più libero di giudicare senza condizionamenti esterni rappresentati da un utilizzo strumentale delle azioni risarcitorie. A farne le spese saranno i cittadini, soprattutto quelli che non hanno risorse economiche tali da permettere loro di “intimidire” i giudici.
Né sarà un’assicurazione professionale a risolvere il problema. Nessun contratto di assicurazione può restituire al giudice la serenità necessaria per essere realmente libero e indipendente.
Nulla hanno a che fare con questo tema le decisioni della Corte di giustizia, anche recentissime, strumentalmente richiamate a supporto di proposte normative in commento.
La Corte di Giustizia (sent. 13 giugno 2006 in causa n. 173/03, Traghetti del mediterraneo; e sent. 30 settembre 2003, in causa n. 224/01, Köbler; fino alla recentissima 24 novembre 2011, Commissione c. Italia, in causa 379/10) ha affermato un principio ben diverso, ossia che, qualora lo Stato – con leggi o con sentenze, attraverso suoi organi come il Parlamento o l’apparato giudiziario – violi il diritto comunitario, deve risarcire i danni che ne siano derivati ai soggetti lesi, a tutela della prevalenza del diritto dell’Unione.
Anche la più recente decisione della Corte di giustizia specifica che la legge n. 117 del 1988 contrasta soltanto con il diritto dell’Unione nella misura in cui impedisce che lo Stato risponda della violazione del diritto comunitario che derivi «da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale di ultimo grado», «limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave».
Dunque, ciò che la Corte di giustizia dice è che anche in questi casi –e non solo in quelli regolati dalla legge n.117 del 1988- deve esserci responsabilità dello Stato a tutela della preminenza del diritto dell’Unione, ma in ogni caso non ipotizza mai una responsabilità diretta dei magistrati.
Del resto il Consiglio d’Europa, con la raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati membri sui giudici n. 12 del 2010, adottata dal Comitato dei Ministri il 17 novembre 2010, ha escluso l’ammissibilità di qualsiasi forma di responsabilità civile diretta dei magistrati.
In questa raccomandazione si dice, testualmente, che «l’interpretazione della legge, l’apprezzamento dei fatti o la valutazione delle prove effettuate dai giudici per deliberare su affari giudiziari non deve fondare responsabilità disciplinare o civile, tranne che nei casi di dolo e colpa grave».
Si aggiunge che «soltanto lo Stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l’accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un’azione innanzi ad un tribunale».
Si sottolinea, infine, che «i giudici non devono essere personalmente responsabili se una decisione è riformata in tutto o in parte a seguito di impugnazione».
In definitiva:
- l’Europa non chiede di introdurre una responsabilità diretta, anzi la esclude. Il principio della responsabilità dello Stato nei confronti del singolo danneggiato per le violazioni del diritto comunitario da parte dei propri organi giurisdizionali di ultima istanza non comporta l'affermazione di una responsabilità risarcitoria del singolo giudice per l'errore commesso;
- lo Stato italiano non può arretrare sui principi costituzionali che garantiscono l’indipendenza del giudice; non può arretrare su principi elementari di civiltà giuridica in tema di indipendenza ed autonomia della Magistratura affermati da ultimo anche dalla MAGNA CARTA DEI GIUDICI approvata il 17 dicembre 2010 dal Consiglio consultivo dei giudici del Consiglio d’Europa;
- le decisioni dei magistrati non possono essere condizionate da timori o pressioni che possono venire dalle parti, soprattutto quelle più forti. Non stiamo dunque parlando di un privilegio ma di uno strumento che consente di garantire l’autonomia e l’indipendenza dell’esercizio della giurisdizione nell’interesse di tutti.
Non a caso, la legge sulla responsabilità civile dei magistrati è stata strutturata in maniera tale da salvaguardare la libertà di giudizio e trova ragione nel carattere accentuatamente valutativo dell’attività giurisdizionale, la quale, per essere correttamente svolta, deve essere “libera” e non essere condizionata da “atteggiamenti difensivi” di categoria;
d) l’emendamento, inoltre, sopprime la clausola di salvaguardia dalla responsabilità per l’attività di interpretazione delle norme e introduce l’ipotesi della “manifesta violazione del diritto”, espressione generica e, dunque, di difficile prova che può condurre ad una dilatazione dell’applicazione concreta (e quindi della responsabilità), con il rischio di comprendere anche condotte connotate da colpa lieve, interpretazioni non conformi ai precedenti, ovvero casi di mera responsabilità oggettiva.
Deve pertanto rimanere fermo il principio secondo cui, in ogni caso, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non possono dar luogo a responsabilità civile;
e) la possibilità, poi, di potere agire direttamente nei confronti del soggetto riconosciuto colpevole (il magistrato) chiamato ad adottare qualsiasi provvedimento potenzialmente lesivo del destinatario, nel mancato coordinamento della novella con la previsione dell’art.4 co. 2 L. 117/88, potrebbe consentire alla parte di esercitare immediatamente l’azione risarcitoria personalmente contro il magistrato, senza dover necessariamente attendere la conclusione del giudizio principale, come attualmente è invece previsto per poter iniziare il giudizio ai sensi della legge n. 117/88 avverso lo Stato, così determinando anche l’estromissione dal giudizio del magistrato sgradito, che avrebbe l’obbligo di astenersi.
In conclusione, è parere dell’Anm che l’intervento legislativo andrebbe collocato nell’ambito della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione (così come nel caso di responsabilità per mancato recepimento delle direttive). Nell’ambito di questa normativa dovrebbe poi essere regolata la rivalsa, che attiene ai rapporti tra Stato e giudice e che rimarrebbe disciplinata dalla legge n. 117 del 1988.