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I rischi di una riforma costituzionale non emendabile

di Vincenzo Tondi della Mura - 30 novembre 2016

ordinario di Diritto costituzionale, Dipartimento Scienze giuridiche dell'Università del Salento


Che la riforma costituzionale in corso di consultazione presenti gravi e diffuse criticità è un dato di fatto oramai incontestato. Gli stessi sostenitori del testo di revisione ne hanno ammesso i limiti, differenziandosi se mai sul riconoscimento della relativa entità. Fra questi proprio Giorgio Napolitano, da vero “padre” della riforma, ha posto la questione fondamentale: “Al di là dell’approvazione del disegno di legge costituzionale in discussione, bisognerà altresì dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali” (Senato, 13/10/2015). In tal senso, egli ha mostrato di condividere le ragioni di preoccupazione variamente eccepite sul duplice piano della rappresentanza politica e della divisione dei poteri.
E tuttavia, i rimedi suggeriti per sanare le criticità interessate non sono né idonei, né costituzionalmente sostenibili, come può desumersi da una breve disamina dei più eclatanti limiti del sistema bicamerale.


Prima ancora di accennare alle ragioni della non emendabilità della riforma, occorre interrogarsi sui motivi che hanno impedito la rimozione delle ragioni di criticità infine lamentate da Napolitano, anche se già variamente eccepite durante i lavori preparatori in sede parlamentare, politica, scientifica e mediatica. Occorre chiedersi il perché di un iter di revisione oramai giunto a un vicolo cieco, sospeso alle valutazioni di un elettorato chiamato a prendere o lasciare il tutto indipendentemente dall’apprezzamento sul merito delle singole novità introdotte.
Una risposta agli interrogativi esposti potrebbe derivare dallo sviamento metodologico registrato dall’iter parlamentare posto in essere dalla maggioranza a discapito di quanto sancito dall’art. 138 Cost.
Il procedimento di revisione tracciato nel ’48, in fin dei conti, è lineare e consequenziale nella previsione delle fasi interessate. Esso presenta una scansione temporale lunga e diversificata a motivo della dimensione valoriale riconosciuta al relativo tempo di svolgimento. In tal senso, è metodologicamente finalizzato a favorire un percorso il più possibile partecipato, compromissorio e riflessivo.
In particolare, il carattere partecipativo del processo di revisione deriva dall’esigenza di consentire un confronto costruttivo sia tra maggioranza e minoranze, sia fra rappresentanza politica e corpo sociale, in modo da non confinare il relativo dibattito “nei luoghi istituzionali della politica” (C. cost., n. 496/2000). Del pari, il favore verso l’opzione compromissoria del processo di revisione è desumibile dal carattere solo eventuale del referendum costituzionale, che è stato previsto dall’art. 138 in senso compensativo nell’ipotesi di un mancato collegamento fra le parti coinvolte e, più in generale, fra le stesse e il corpo sociale. Infine, la lunga scansione temporale del procedimento ha una finalità riflessiva. Ha la funzione di stimolare nei parlamentari e nei gruppi politici la riflessione sull’opportunità del mantenimento delle modifiche introdotte, lasciando aperta la via a possibili ripensamenti e conseguenti correzioni; ha lo scopo di coniugare il coraggio del cambiamento con la prudenza della ponderazione, consentendo quegli ulteriori emendamenti funzionali al miglior esito del percorso riformatore indipendentemente dal nesso di consequenzialità con le precedenti modifiche.
Per contro, il procedimento di revisione posto in essere dalla maggioranza parlamentare si è discostato vistosamente dai tratti metodologici richiamati, dimostrandosi riservato, verticistico e apodittico (V. Tondi della Mura, Il paradosso del «Patto del Nazareno»: se il revisore costituzionale resta imbrigliato nella persistenza di un mito, in www.rivistaaic.it, n. 2/2016).
E invero, tanto la definizione degli obiettivi della riforma, quanto la stesura dell’articolato normativo sono stati realizzati senza alcuna pubblicità e trasparenza. Per giunta, solo gli obiettivi della riforma sono stati convenuti dai leader di Forza Italia e del Partito Democratico nel c.d. Patto del Nazareno; nel mentre, la trasposizione normativa dei medesimi obiettivi nel testo governativo di revisione è avvenuta per mano di un oscuro estensore e senza il coinvolgimento di Forza Italia, resa partecipe solamente a cose fatte. Il tutto, infine, si è compiuto sulla scorta di motivazioni mai dibattute in modo adeguato nelle sedi politiche coinvolte.
Gli obiettivi del Nazareno e la relativa declinazione normativa, per tale via, sono transitati dalla sede extraparlamentare delle segreterie politiche a quella parlamentare del procedimento di revisione in forma obbligata e sostanzialmente integrale.
Così accadendo, tuttavia, il testo della riforma è stato trasformato in un mito: un testo indiscutibile e indiscusso, formalizzato fuori dal tradizionale percorso di revisione e chiamato a essere accolto dalle Camere nella sua interezza e senza sostanziali modifiche, in modo da rimanere intangibile e sacro nell’integralità del nuovo sistema. A garanzia dell’insindacabilità di un tale transito ha provveduto una cerchia selezionata di responsabili. Questi hanno agito alla stregua di una casta depositaria del mito; si sono atteggiati quali sacerdoti della nuova Alleanza costituzionale, chiamati a salvaguardare l’integrità dei sacri precetti e, con questa, la definitiva palingenesi riformatrice.
Epperò, proprio una tale mitizzazione ha inibito ogni ipotesi di opportuna integrazione e/o correzione del testo di revisione, che, infatti, ha subito modificazioni “sostanzialmente del tutto marginali” (C. Fusaro, Audizione, Commissione affari costituzionali del Senato, 3 agosto 2015). A fronte della straordinaria forza vincolante del Patto del Nazareno, stanno così gli effetti del relativo esercizio, i quali rimarcano la precarietà del relativo esito. Ed è nella sproporzione fra i due opposti, fra la forza politica espressa dal Patto e la debolezza costituzionale del relativo risultato, che è consistito il paradosso del «Nazareno»: un fatto politico extraparlamentare, capace di vincolare il Parlamento in modo diretto e assoluto, ma incapace di generare un risultato costituzionalmente adeguato ed esauriente.
Nella prospettiva mitologica rappresentata, del pari, può essere colta la trasformazione in senso plebiscitario del referendum costituzionale. Il sovradimensionamento politico impresso dal Presidente del Consiglio al quesito referendario ha accordato alla consultazione una caratterizzazione indebita. Con una torsione della relativa ragion d’essere, l’iniziativa referendaria è stata intesa non già a «garanzia» delle minoranze, bensì a «conferma» dell’operato della maggioranza. Di conseguenza, è stata finalizzata a fornire la necessaria legittimazione a un testo di revisione approvato a colpi di sostanziale fiducia parlamentare da parte di una minoranza elettorale, che a sua volta era divenuta maggioranza parlamentare per via di un sistema elettorale nel frattempo dichiarato illegittimo (C. cost., n. 1/2014); e ciò, quasi a poter colmare il duplice e insanabile deficit di rappresentanza democratica e d’inclusività parlamentare registrato dall’iter riformatore. Di qui, per l’appunto, un dibattito referendario fuorviante, incentrato su valutazioni di ordine extra-costituzionale (le sorti dell’esecutivo, la modernizzazione del sistema italiano, la crisi economica nazionale, ecc.) piuttosto che sulle criticità della riforma.
E così, in definitiva, la trasformazione in senso plebiscitario del referendum costituzionale ha concorso a confermare la natura mitologica del testo di revisione, del quale è rimasta intonsa l’indiscutibilità del merito.


Tornando al merito della riforma, il nuovo Senato manifesta un’identità diversa da quella congenita. Parafrasando una terminologia di differente natura, esso può essere inteso come un Senato «transgender», impiegando detta qualificazione nel senso proprio di “Chi si identifica in modo transitorio o persistente con un genere diverso da quello assegnato alla nascita” (www.treccani.it). Il Senato presenta due nature contrapposte: l’una, di tipo territoriale, propria del modello astrattamente prescelto ed espressamente sancita dal testo di revisione; l’altra, di tipo politico, propria di un modello alternativo e, nondimeno, parimenti desumibile da talune delle funzioni assegnate allo stesso.
Non si tratta soltanto di una questione di mero inquadramento dogmatico. L’ibrida caratterizzazione dell’organo parlamentare è tale da squilibrare il relativo sistema delle garanzie, sino a incidere più in generale sul piano del bilanciamento fra i poteri.
a) Si pensi alla natura territoriale del Senato, astrattamente chiamato a rappresentare le sole “istituzioni territoriali” e non l’intera Nazione (art. 57, commi 2 e 4). E tuttavia, a un Senato così caratterizzato risultano giustapposte talune garanzie parlamentari, che nella tradizione costituzionale sono commisurate a un organo di natura politica.



  • Emblematico, anzitutto, è il caso del divieto di mandato imperativo, tradizionalmente posto a garanzia della rappresentanza politica e non, invece, di quella territoriale dei parlamentari (art. 67 Cost.); quest’ultima, del resto, presuppone il diverso criterio del voto unitario o “per delegazione”, come avviene nel Bundesrat tedesco, dove tutti i senatori eletti da uno Stato membro devono votare in modo uniforme.

  • Emblematico, altresì, è il caso del mantenimento del regime delle immunità (art. 68), analogamente posto a garanzia del pieno esercizio delle funzioni politiche dei parlamentari. Per contro, una volta inserito in un impianto di tipo territoriale, detto regime offre ai sindaci-senatori e ai consiglieri-senatori lo scudo dell’immunità penale, rendendo giudizialmente invincibile il ruolo politico-amministrativo di provenienza.


b) In senso speculare, si pensi alla natura sostanzialmente politica, che in molti altri casi il Senato manifesta in ragione delle relative funzioni. Anche in questo caso, tuttavia, a una tale diversa caratterizzazione sono giustapposte garanzie proprie del differente sistema territoriale.



  • Emblematica, anzitutto, è la questione del mancato riconoscimento ai senatori di un’indennità aggiuntiva rispetto a quella derivante dal mandato di provenienza (sindaci o consiglieri regionali) (art. 69); opzione, questa, che pone un problema di ragionevolezza del trattamento economico riservato ai senatori, avuto riguardo al maggiore impegno professionale richiesto dalla nuova carica rispetto a quella originaria.

  • Emblematica, ancor di più, è la questione dell’organizzazione interna del nuovo Senato. Al mancato riconoscimento della politicità dei senatori corrisponde una composizione delle Commissioni legislative e d’inchiesta formalmente neutrale e apparentemente non politicizzata. Si tratta però di una finzione, posta la conclamata appartenenza dei senatori ai partiti di riferimento. Di qui gli effetti paradossali di un simile artifizio. Poiché le Commissioni del Senato, a differenza di quelle della Camera, non devono essere “composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari” (artt. 72, comma 4, 82, comma 2), saranno occupate dai partiti politici in modo non trasparente. Pure a tacere delle gravi implicazioni in sede legislativa, restano le pericolose conseguenze in sede inquirente. Sulle “materie di pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali” (art. 82) (si pensi ai casi di sperpero del denaro pubblico riguardanti EXPO, Mose, Ferrovie sud-est in Puglia, ecc.), le commissioni potranno indagare con una composizione artefatta, lasciando che i controllori siano nominati dai controllati e che l’indagine politica sui fatti criminali sia esercitata dalle medesime forze imputate dei fatti in contestazione.

  • Per non dire della questione dei c.d. senatori dopolavoristi. Il doppio ruolo rivestito dagli stessi (senatori-consiglieri e da senatori-sindaci) è tale da ridurre gli stretti margini temporali riservati dal procedimento legislativo al Senato (art. 70, commi 3 e 5, art. 72, comma 7, 73, comma 2, art. 77, comma 6), vanificando la ragion d’essere di quest’ultimo.


Lo squilibrio del sistema di garanzie brevemente rappresentato (previsione di guarentigie politiche a fronte di un impianto a vocazione territoriale e viceversa) non incide solamente sulla funzionalità del nuovo Senato; più ancora, è tale da ripercuotersi sul piano del bilanciamento dei poteri, squilibrandone l’assetto. Il rilievo è suscettibile di aggravarsi ulteriormente, se rapportato alle implicazioni derivanti dal combinato disposto fra la riforma in esame e quella elettorale (L. n. 52 del 2015).
a) Il primo vulnus inferto al bilanciamento dei poteri riguarda l’indiscriminata incidenza dei partiti politici sul ruolo decisionale del Senato. È certo che un Senato dimidiato sul duplice piano dell’efficienza e delle garanzie presenta un handicap decisionale insuperabile. Di qui, la chiamata in sussidiarietà dei grandi partiti nazionali, capaci di supplire alla specie con un sistema di comando extraistituzionale, rigido e senza smagliature, lesivo dei principi della trasparenza e della responsabilità politica.
b) Il secondo grave vulnus inferto al bilanciamento dei poteri riguarda la nomina degli organi di garanzia. Emblematica è la disciplina dell’elezione del Presidente della Repubblica, che si presta a più ragioni di critica.



  • Quanto al quorum richiesto per l’elezione, si tratta di una soglia meno garantista di quella fissata dalla Costituzione del ’48. La riforma prevede che dopo il terzo scrutinio si passi dalla vigente maggioranza assoluta (500 voti) a quella dei 3/5 della stessa assemblea (438 voti dei 730 componenti il Parlamento in seduta comune), con la precisazione che dopo il sesto scrutinio detta quota sia rapportata ai soli votanti (art. 83, comma 3); votanti il cui ammontare, per inciso, può scendere sino a 366 unità (soglia equivalente al numero minino dei componenti della maggioranza dell’assemblea, richiesta per la validità delle sedute dall’art. 64 Cost.). In tale ultimo caso, di conseguenza, il numero dei voti favorevoli potrebbe essere di appena 220 (i 3/5 di 366). E tuttavia, con un numero di preferenze così esiguo, addirittura inferiore al premio dei 340 seggi assicurato al vincitore delle elezioni politiche dall’Italicum, il nuovo Presidente della Repubblica risulterebbe privo di quella legittimazione necessaria a esercitare il ruolo di garanzia assegnatogli dalla Costituzione.

  • Per non dire dei gravi pericoli per la tenuta democratica del sistema, derivanti dalla mancata previsione di una norma di chiusura a tutela di una rapida conclusione delle operazioni di voto, tale da originare una situazione di stallo istituzionale senza fine.


c) Il terzo e più grave vulnus inferto al bilanciamento dei poteri deriva dal combinato disposto fra la riforma costituzionale e quella elettorale. Quest’ultima presenta in modo più mirato ed efficace i medesimi obiettivi perseguiti dalla precedente legge elettorale e giàdichiarati illegittimi dalla sent. n. 1/2014. L’Italicum si configura come un Porcellum camuffato: il premio di maggioranza rimane illimitato in quanto sprovvisto di una soglia minima premiale; parimenti, resta illimitato il potere delle segreterie politiche sui singoli candidati ed eletti.
Di qui gli inevitabili i contraccolpi sul bilanciamento dei poteri. Alla riduzione degli spazi parlamentari (bicameralismo di facciata e monocameralismo sostanziale) corrisponde tanto uno squilibrio fra minoranza e maggioranza di governo (le opposizioni politiche non sono tutelate in Senato), quanto una riduzione degli spazi di rappresentanza elettorale (preminenza governativa del “capo” della minoranza elettorale più suffragata, come recita in modo inquietante l’Italicum) e una vanificazione della partecipazione politica (incremento dell’astensione).
Per tale via, sarebbe sufficiente una vittoria elettorale conseguita con una percentuale di pochi decimali (anche solo due!), per assegnare al segretario del maggior partito di minoranza il ruolo incontrastato di uomo solo al comando dell’intero sistema. E così, forte del bottino elettorale lucrato, egli avrebbe buon gioco nel cooptare e neutralizzare a proprio vantaggio i componenti dei massimi organi di garanzia.



  • Per un verso, il vincitore delle elezioni potrebbe conquistare da solo anche la Presidenza della Repubblica, sfruttando l’ipotesi in cui l’elezione di quest’ultimo sia determinata dai 3/5 dei soli votanti.

  • Per altro verso, detto vincitore potrebbe condizionare la nomina dei componenti non togati della Consulta, sino a estendere la propria sfera d’influenza addirittura sui due terzi dei giudici costituzionali.

  • Il terzo dei giudici di pertinenza presidenziale potrebbe essere nominato da un Presidente della Repubblica delegittimato, in quanto eletto solamente dai 3/5 dei votanti  e, dunque, privo della forza necessaria a resistere alle eventuali pressioni del Presidente del Consiglio verso personalità di proprio esclusivo e incondizionato gradimento.

  • Il terzo di pertinenza parlamentare potrebbe presentare una sorte analoga. Il vincitore delle elezioni potrebbe sfruttare la posizione di forza derivantegli dal doppio incarico a disposizione, di “capo della forza politica” della più ampia minoranza (art. 8, comma 2, l. n. 52/2015) e di leader di governo, per riuscire a convogliare i 3/5 dei voti di ognuna delle assemblee verso personalità di proprio gradimento: nella Camera si tratterebbe di recuperare appena 38 voti (la differenza fra i 340 seggi del premio di maggioranza dell’Italicum e i 378 dei 3/5 dei componenti l’assemblea); nel Senato una tale eventualità potrebbe essere ancora più piana, basti pensare che già ora, stando alle simulazioni realizzate, il Presidente del Consiglio potrebbe superare la soglia dei 60 voti richiesti (3/5 di 100). Com’è stato posto in evidenza, infatti, “Se entrasse in vigore oggi, il nuovo Senato si presenterebbe così. Con 55 senatori del partito di Renzi, a cui se ne aggiungerebbero altri cinque dei partiti autonomisti (tre del Trentino Alto Adige e due della Valle D’Aosta), già schierati con i dem sul territorio. E magari pure i cinque nominati dal Presidente della Repubblica. In totale fanno 65 senatori” (M. Bresolin, Il nuovo Senato? Stravince il Pd, in La Stampa, 12 ottobre 2015, 1-2).


Sono tre le considerazioni conclusive ricavabili dallo squilibrio provocato dalla riforma sul duplice piano delle garanzie parlamentari e del conseguente bilanciamento dei poteri.
a) La prima riguarda il combinato disposto della riforma costituzionale con quella elettorale. La nuova previsione di controllo preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali (artt. 73, comma 2, e 134, comma 2) non costituisce una garanzia adeguata. Come ha eccepito il Presidente della Consulta, Alessandro Criscuolo: “Un controllo preventivo della legge elettorale [...] tradisce il ruolo della Corte e può essere una forma non opportuna [...]. Il giudizio preventivo affida alla Corte costituzionale un compito che non le spetta, perché la Corte giudica sulle leggi approvate e sarebbe una sorta di consulenza preventiva” (www.cortecostituzionale.it).
b) La seconda considerazione conclusiva riguarda l’inidoneità costituzionale a provvedere alle criticità della riforma con interventi di tipo solamente regolamentare, convenzionale, o di soft law. Tale tipo di interventi ha il limite di demandare a una fonte di rango costituzionalmente subordinato, se non proprio a regole non vincolanti o di altro ordine, l’equilibrato ed effettivo esercizio delle garanzie politiche dei senatori; ciò con la paradossale conseguenza di rimettere alle determinazioni della maggioranza politica le condizioni di garanzia delle minoranze, quasi che la Costituzione debba garantire la prima dalle seconde e non viceversa.
c) La terza considerazione conclusiva riguarda la non sostenibilità costituzionale di successive riforme correttive di quella in corso. Tale ipotesi inaugura il passaggio da una Costituzione riformata a una Costituzione da riformare in continuazione: l’una, che secondo la tradizione costituzionale affida l’equilibrio dei poteri a nuove regole stabili e certe (sia pure elastiche); l’altra, che in senso inedito affida l’equilibrio dei poteri a regole da riscrivere in continuazione a seconda delle occorrenze e delle contingenze. E tuttavia, una riforma semper reformanda è tale da essere in balia degli interventi di una maggioranza parlamentare elettoralmente artefatta e coincidente con il partito di più forte minoranza del Paese; una maggioranza capace di passare dalla legislazione ordinaria a quella costituzionale senza eccessivo sforzo, sino a vanificare la stessa ragion d’essere della Costituzione.


In definitiva, la riforma costituzionale non è emendabile in nessun modo. Avallare nei cittadini false ed errate rassicurazioni in merito all’integrazione o correzione del testo di revisione è pericoloso. Rischia di vanificare negli elettori l’esercizio di un diritto di voto pieno e consapevole in occasione dell’imminente consultazione referendaria.

Autore
Vincenzo Tondi della Mura
Ordinario di Diritto costituzionale, Dipartimento Scienze giuridiche dell'Università del Salento

Vincenzo Tondi della Mura