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3 gennaio 2021

Giuseppe Santalucia: "La giustizia non si riforma a costo zero"

Il presidente dell’ANM intervistato dall’Huffington Post


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“Il caso Palamara non si esaurisce con la vicenda di Palamara. Nessuno ha intenzione di gettare nell’ombra quello che è successo, né di voltare le spalle”. Parte da questo assunto la linea di Giuseppe Santalucia. Magistrato di Cassazione, esponente di Area, l’associazione delle toghe progressiste, già capo dell’Ufficio legislativo dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, da inizio dicembre guida l’Associazione nazionale magistrati. Alla sua elezione si è arrivati dopo lunghe giornate di discussione: “Abbiamo puntato all’unità, facendo una mediazione costruttiva, non al ribasso”, dice ad HuffPost a cui spiega il suo punto di vista sui temi più caldi che l’universo giustizia dovrà affrontare nei prossimi mesi. Le riforme? “Necessarie, ma la stagione dei provvedimenti a costo zero è finita”. La protesta della magistratura onoraria? “Indispensabile garantire i diritti di chi ha lavorato finora, ma si evitino in futuro sacche di precariato”. E sul processo da remoto, necessario in tempi di pandemia ma che vede forti perplessità da parte degli avvocati, ci dice: “Sbaglia chi pensa che i magistrati vogliano fare i processi da casa. Torneremo a farli tutti in presenza, ma intanto evitiamo il lockdown della giustizia”. Padre tecnico della riforma delle intercettazioni, sa benissimo quanto invasivo sia lo strumento del trojan. E per questo ricorda: “Il ruolo di garanzia non è solo nella legge ma anche nelle mani del magistrato, lo strumento è importante per le indagini ma va usato con molta cautela, perché può essere pericolosissimo”.


Presidente, Lei ha preso la guida dell’Anm in un momento complicato per la magistratura, che esce da un anno e mezzo difficile, per quello che è passato alle cronache come “il caso Palamara” e la questione morale che ne è seguita. Come si riacquista la fiducia dei cittadini nelle toghe e come pensa di farlo l’Associazione nazionale magistrati?
Proprio per recuperare la fiducia andata persa negli ultimi tempi il programma su cui c’è stata ampia, seppure non totale, convergenza nell’elezione della giunta esecutiva dell’Anm è stato basato su una maggiore attenzione all’etica del magistrato. Non solo quando lavora ma anche quando si rapporta con le istituzioni, con il Consiglio superiore della magistratura in particolare. Abbiamo assistito a comportamenti non corretti né consoni alle toghe e ora è necessario recuperare terreno, con consapevolezza e responsabilità. Tenendo presente che il caso Palamara non si esaurisce con la vicenda dell’ex leader di Unicost, dal momento che anche vari altri colleghi sono coinvolti, ma anche che la stragrande maggioranza della magistratura è estranea alle logiche evidenziate dalle chat. Su questo fronte sicuramente proseguiremo il lavoro fatto dalla giunta precedente e cioè quello di verificare e di accertare, sulla base delle regole del nostro codice etico, i comportamenti scorretti che sono emersi in quella vicenda. Lo faremo anche tenendo a mente le parole del presidente della Repubblica, che nel suo discorso di fine anno ha invitato le classi dirigenti a un rinnovato impegno a costruire.


Nei mesi scorsi si è parlato tanto di “degenerazioni del correntismo”. Quanto è diffuso il fenomeno e quale è la cura?
C’è un problema culturale, che però non riguarda tutti i magistrati. Certamente, però, negli anni passati c’è stata la degenerazione di quello che era un meccanismo virtuoso di confronto tra le toghe. Quella desinenza -ismo è sintomatica di un sistema scorretto che aveva preso piede. Ciò non è accettabile e il fenomeno delle correnti che diventano in sostanza un gruppo di pressione lobbistico certamente va stroncato. Il lavoro dell’Anm andrà in questo senso. E sia chiaro che nessuno ha intenzione di mettere in ombra quello che è successo, che è stato un campanello di allarme, né di voltare le spalle.


Quando si è insediato al vertice dell’Anm ha affermato che il suo programma non sarebbe stato “a ribasso ma di mediazione”. Cosa voleva dire?
Sottintendeva la necessità di un lavoro di mediazione tra i vari gruppi che compongono il comitato direttivo centrale, tra le varie sensibilità. Una mediazione costruttiva, non al ribasso. E proprio con questo spirito abbiamo deciso di proporre all’esame della prossima riunione del Comitato direttivo una delle prime iniziative della nuova giunta: quella di creare una commissione di studio per porre all’attenzione del Csm l’opportunità di ulteriori modifiche della normativa secondaria per il conferimento degli incarichi direttivi, nella prospettiva di non incentivare, ed anzi di mortificare, quelle ambizioni di carriera che sono state una delle principali concause dei fatti di cronaca degli ultimi tempi. Su questo ci impegniamo a dare una risposta in tempi rapidi. Poi abbiamo intenzione di approfondire il tema sistema elettorale del Csm, visto che è in cantiere la riforma.


Proprio su questo la new entry del Comitato direttivo centrale, la “lista 101”, ha mostrato divergenze rispetto agli altri gruppi. Sostenendo che il sorteggio per i togati sia un’opzione praticabile. Ed esprimendo, quindi, un punto di vista diverso rispetto alle altre anime del cdc, notoriamente contrarie a questa opzione. Proprio in vista degli approfondimenti che intendete fare, come si ricompone questa diversità di vedute?
Intanto voglio premettere che abbiamo intenzione di offrire al legislatore spunti di riforma concreti, documenti, e non proclami. Già nei mesi scorsi l’Anm si era esposta per manifestare la sua contrarietà al sorteggio. Anche io, personalmente, non sono d’accordo. Detto ciò, alla luce della richiesta della “Lista 101”, questa giunta si è fatta carico di non escludere a priori nessuna valutazione, di non scartare nessuna ipotesi dal tavolo. Nella storia delle istituzioni il sorteggio ha avuto un ruolo. Io sono contrario, ma non lo banalizzo. L’impegno è di avviare una riflessione ampia sul tema, senza pregiudizi.


In cantiere non c’è solo la riforma del Csm. La bozza del Recovery Plan ha richiamato le riforme in discussione sul processo civile e penale. Ha avuto già modo di incontrare il ministro della Giustizia? Da cosa bisogna partire nel processo di riforma, secondo lei?
Abbiamo avuto un primo incontro con il ministro, in cui è stata prospettata, ma ancora a livello di discussione generale e non operativa, l’importanza e l’urgenza di alcuni provvedimenti. Nell’immediato è necessario intervenire sulla giustizia civile. Proprio su questo terreno il ministro ci ha anticipato che occorrerà accelerare le riforme , per la semplificazione delle forme processuali . Quel che ora posso dire è che non basta cambiare le norme processuali. È fondamentale investire anche in risorse organizzative. Perché bisogna chiudere la stagione delle riforme a costo zero, se davvero vogliamo dare un servizio più adeguato.


E della riforma del processo penale cosa pensa? Sembra che il governo voglia puntare molto sui riti alternativi.
Sono d’accordo, in un sistema accusatorio, come il nostro, decongestionare il dibattimento è fondamentale. Perché se un numero eccessivo di casi non viene risolto con un procedimento più snello, inevitabilmente la macchina della giustizia si ingolfa e non può essere efficiente.


Mai come oggi la macchina della giustizia è in difficoltà. Durante la prima ondata della pandemia si è quasi fermata, oggi comunque procede un po’ a rilento. Questo comporta l’accumulo di arretrati che, con particolare riferimento al processo penale, sarà reso ancora più evidente dallo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Con il rischio di ulteriori rallentamenti nel funzionamento della giustizia. Come se ne esce?
Siamo consapevoli di quanto sia consistente l’arretrato accumulato nella prima fase della pandemia. Nei mesi primaverili si svolgevano davvero solo le questioni più urgenti e inevitabilmente oggi ci troviamo con una mole di lavoro imponente. Proprio per questo bisogna evitare che l’arretrato cresca ancora. La giustizia non può fermarsi, ovviamente però bisogna garantire la sicurezza di tutti coloro che lavorano nei tribunali. Come si fa? Anche attraverso il processo da remoto. Su questo punto, mi permetto di dissentire da ciò che ha affermato il presidente delle Camere penali (Giandomenico Caiazza, in un post, ha fatto riferimento a un “tentativo di sovvertire strutturalmente le regole costituzionali” del processo penale”, ndr). Non c’è nessuna volontà di rendere strutturale un meccanismo nato per l’emergenza, di dare vita a un processo penale virtuale permanente. Dovrebbe essere interesse di tutti fare in modo che le udienze continuino, anche e soprattutto per garantire i diritti delle parti. Sbaglia chi crede che la magistratura abbia interesse a fare i processi da casa. Quando si potrà torneremo a farli tutti in presenza. Nel mentre, va evitato il lockdown della giustizia e vanno poste le condizioni affinché i processi, civili e penali, possano essere svolti privilegiando quanto più possibile la trattazione scritta e i collegamenti a distanza, ovviamente soltanto per il periodo dell’emergenza. Emergenza che non si concluderà il 31 gennaio 2021, che è la data, allo stato, di cessazione delle misure emergenziali a cui ho fatto cenno. Il Legislatore dovrebbe individuare una data realistica di chiusura della parentesi di emergenza, in modo da consentire e non ostacolare, come ora invece sta avvenendo, una ordinata organizzazione e programmazione del lavoro giudiziario 


Il suo riferimento all’intervento del leader dei penalisti ci riporta all’annosa questione dei rapporti tra magistratura e avvocatura. C’è spesso una sorta di difficoltà di comunicazione. Come intende gestirla l’Anm?
Intanto, ritornando ad un dialogo libero da parole d’ordine preconcette. Nessuno cerca l’unanimità di vedute, secondo un unanimismo di mera facciata, ma credo che sia il caso di evitare contrapposizioni aspre soprattutto nei toni , anche per non dare all’esterno l’immagine di uno sterile scontro tra corporazioni professionali. L’interesse ultimo delle due categorie dovrebbe essere lo stesso. Pur nella diversità dei punti di vista, io suggerirei di cambiare approccio.


Torniamo alle riforme in cantiere. Soprattutto nei primi mesi del 2019 c’è stata una discussione sulle sanzioni ai magistrati che non rispettano i tempi. Che posizione ha l’Anm su questo?
Gli illeciti disciplinari sono già previsti in una legge, la 109 del 2006. Un eventuale nuovo provvedimento sulle sanzioni non andrebbe a colmare nessuna lacuna, avrebbe soltanto l’effetto di una norma-bandiera. Le negligenze, chiaramente, vanno sanzionate, ma gli strumenti per farlo ci sono già. Credo sia poi il caso di ricordare che quando la giustizia ha tempi troppo lunghi la responsabilità non è dei magistrati, che ciò si verifica semmai in casi rari. Rifiuto l’equazione tempi lunghi dei processi = colpa dei giudici. 


Le ultime settimane dell’anno appena passato sono state caratterizzate dalla protesta della magistratura onoraria, che opera “a cottimo” e ora chiede un trattamento lavorativo adeguato ai compiti che svolge. Anche la giustizia europea si è, del resto, espressa in questo senso. L’Anm in una nota ha mostrato la solidarietà ai giudici che manifestavano. Come si risolve la questione?
Ci sono due aspetti della vicenda: il primo riguarda il presente e il passato. Il secondo il futuro. Io credo che i circa 5mila giudici onorari e di pace che svolgono attualmente la professione hanno ricevuto un trattamento inaccettabile. Sono state date loro responsabilità sempre maggiori ma è mancato il pieno riconoscimento dei loro diritti che, al contrario, sono stati mortificati. Ecco, allora per quanto riguarda loro credo che sia il caso di garantire i diritti di cui non hanno goduto. Questa vicenda, però, deve fare da spartiacque tra passato e futuro: tra 10 anni non dobbiamo trovarci con lo stesso tipo di contenzioso. Come? Applicando la riforma Orlando, che può certo essere modificata e migliorata . L’attività della magistratura non togata non dovrà più perdere la caratteristica dell’onorarietà. Diversamente si creeranno ancora sacche di precariato che non sono accettabili. Bisogna insomma chiudere questo capitolo e la politica deve impegnarsi al massimo perché accada.


Il suo riferimento all’ex Guardasigilli, del quale lei ha diretto l’ufficio legislativo, ci riporta a un’altra riforma varata quando Orlando era ministro, ma entrata in vigore solo l’anno scorso: quella delle intercettazioni. Tra le varie norme, viene introdotto l’utilizzo del trojan, per alcuni reati. Uno strumento potrebbe prestarsi ad abusi. Lei ha detto che va usato “con molta sapienza”. Cosa intende?
Il trojan è uno degli strumenti d’indagine più invasivi, perché il virus viene inoculato, in genere, nei dispositivi elettronici portatili dell’indagato e, da quel momento, ogni singolo istante della sua giornata viene registrato. Sotto questo aspetto, va da sé che può essere pericolosissimo. Proprio per questo io credo che sia necessaria cautela nel disporne l’utilizzo. Il legislatore pone dei limiti, ma il ruolo di garanzia dei diritti non si ferma alla legge, arrivando poi nelle mani del magistrato che conduce l’indagine. Per questo ci vuole molta cautela. D’altro canto però, vietarne l’uso a priori avrebbe il significato di reprimere l’indagine. La legge, quindi, lo consente, è il magistrato che deve assumersi la responsabilità della scelta, stando attento alle garanzie.


 


Nell’ultimo anno in almeno un paio di occasioni i magistrati sono stati duramente attaccati: nella prima fase della pandemia è stata bersaglio dell’opinione pubblica la magistratura di sorveglianza che, legittimamente, scarcerava per un periodo i detenuti che rischiavano la vita a causa dell’emergenza Covid. Di recente, invece, nell’occhio del ciclone è finito il tribunale di Brescia, che ha stabilito la non imputabilità di un uomo che aveva ucciso la moglie e soffriva di una seria patologia psichica. Come si difendono le toghe da questi attacchi?
Io credo che le critiche siano più che lecite, ovviamente. Quello che costituisce un problema è il dileggio della decisione del giudice, soprattutto se basato solo sul dispositivo e non anche sulla lettura dell’intera sentenza, sulla valutazione del lavoro completo. Tali critiche generano confusione. Sulla decisione di Brescia è stato montato un caso inesistente e si è creato il tipico incidente che accade quando si danno notizie che non trovano fondamento nei fatti.


 


Dal processo all’esecuzione della pena. In questi mesi c’è stato un ampio dibattito sul carcere e sulla necessità di ridurre il sovraffollamento in tempi di Covid. Anche l’Anm era intervenuta a marzo con una nota in cui invitava a non dimenticare i penitenziari. Il 2 gennaio, sulle pagine di Repubblica, abbiamo letto l’appello della senatrice Liliana Segre e del Garante dei detenuti Mauro Palma affinché anche a chi vive e lavora in carcere sia data la priorità nel piano vaccinale. Cosa ne pensa?
Che il carcere è un luogo di particolare fragilità, che i diritti dei detenuti devono trovare piena tutela e, per questo, merita attenzione. Sono evidenti i rischi che corrono gli operatori penitenziari, che dovrebbero essere vaccinati il prima possibile. Quanto ai detenuti, la loro è una situazione di strutturale fragilità e per questo la loro condizione va tenuta al centro del dibattito. Anche su questo tema.


 


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