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5 febbraio 2023

Il Cdc sul ddl costituzionale in materia di separazione delle carriere

Negli ultimi mesi si sono intensificati interventi e anche proposte di riforma per dare attuazione ad un progetto risalente che minerebbe alle fondamenta l'assetto costituzionale della Magistratura Italiana.
La Commissione Affari Costituzionali della Camera ha messo in calendario, dal 2 febbraio 2023, la discussione su una proposta di legge che chiede di attuare la definitiva separazione delle carriere di pubblici ministeri e giudici.
La proposta normativa si muove su alcune direttrici di fondo che destano profondo allarme: oltre alla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura requirente, la introduzione di distinti organi di autogoverno, che peraltro non vedranno più al loro interno la prevalenza numerica dei componenti togati, voluta dalla Costituzione proprio per assicurare il giusto equilibrio tra poteri e quindi l' autonomia della Magistratura.
Ancora più preoccupante la progettata abolizione dell'art. 107 comma 3 della Costituzione che, nel prevedere la distinzione dei magistrati solo per funzioni, ne rappresenta la massima garanzia di indipendenza, impedendo derive verticistiche all'interno degli uffici giudiziari .
Una rigida separazione delle carriere porterà ad un pubblico ministero sempre più lontano dalla cultura della giurisdizione, per divenire un "avvocato dell'accusa" pericolosamente piegato ai desiderata del potere politico.
Non è necessario spendere argomenti per confutare il presupposto che il giudice sia "culturalmente adesivo" alla prospettazione del pubblico ministero, essendo "collega".
È la realtà dei fatti che smentisce l’assunto, perché nel 48% dei giudizi penali di primo grado l'esito è di assoluzione, il 45% di condanna, il resto ha esito misto.
E chi insiste a sostenere che la separazione è soluzione ai problemi della giustizia dimentica, evidentemente, che dal 2006 la media dei trasferimenti da una funzione all'altra è di 50 magistrati all'anno, e solo 21 nell'anno appena terminato.
Il pubblico ministero disegnato dalla riforma, quindi, rischia di allontanarsi dal ruolo di primo tutore delle garanzie individuali e dei diritti costituzionali
Non a caso, il progetto di legge interviene anche sull'obbligatorietà dell'azione penale che verrebbe esercitata esclusivamente «nei casi e nei modi previsti dalla legge», con il rischio di ledere il principio di uguaglianza dei cittadini nelle scelte di esercizio dell'azione penale.
La nostra Costituzione ha voluto realizzare una magistratura pienamente autonoma e indipendente da ogni altro potere. Oggi la prima garanzia dell'indipendenza e dell'autonomia della Magistratura è data dalla forte cultura comune che unisce, e deve sempre unire, i giudici e pubblici ministeri, costruendo in ogni magistrato una precisa identità radicata nel ruolo di tutela dei diritti fondamentali dei cittadini contro ogni arbitrio, ogni violenza, ogni forma di criminalità.
La terzietà del giudice, fondamentale come condizione per la sua imparzialità, va attuata e rafforzata all’interno del processo, con una piena applicazione dei principi fissati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, e non certo con soluzioni che ci allontanano non solo dalla nostra tradizione giuridica, ma anche dalle linee di tendenza più significative presenti nel panorama europeo e internazionale.
Purtroppo, in Italia, già oggi a seguito degli interventi normativi verificatisi a partire dal 2006, sono pochissimi i passaggi da una funzione all'altra. Eppure, già nel 2000 il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, che ha un'impronta fortemente garantista, aveva raccomandato a tutti i Paesi di "consentire di svolgere successivamente le due funzioni", le quali richiedono "analoghe garanzie in termini di qualifiche, competenze e status". Si era precisato che "tale disposizione costituisce anche un'ulteriore tutela per il pubblico ministero". La prospettiva del Consiglio d'Europa merita di essere condivisa con convinzione proprio alla luce dell'esperienza italiana.
La comune cultura della giurisdizione, che attualmente impone una comune formazione - iniziale e permanente - del Giudice e del Pubblico Ministero, costituisce un argine potente contro ogni rischio di pericolose derive del Pubblico Ministero. Cambiare sarebbe in controtendenza con una lunga tradizione italiana, che è un importante modello di riferimento in ambito europeo.
L'ANM ritiene che l'appartenenza dei magistrati ad un unico corpo professionale, espressamente voluta dal Costituente, rappresenti una conquista da preservare, coltivare e valorizzare.
L'autonomia e l'indipendenza potranno dirsi effettive solo se assicurate anche ai magistrati del pubblico ministero che non possono diventare avvocati dell'accusa, preoccupati degli esiti favorevoli dei processi, prima che dell'esito di giustizia.
L'autonomia e l'indipendenza della magistratura sono garanzie poste a presidio delle libertà dei cittadini, certo non dei magistrati e, al contempo, limiti a possibili compressioni da parte delle contingenti maggioranze di governo.
Del resto la formazione di due CSM renderebbe abnorme il potere dei pubblici ministeri: ora sono 5 su 20 membri del CSM, con la riforma diventerebbero la totalità dei membri togati del consiglio dedicato. Una concentrazione di potere di questo genere non potrà che sfociare, prima o poi, nell'individuazione di un referente nel potere esecutivo, e l'inevitabile compressione nella tutela dei diritti dei cittadini, siano essi persone offese o imputati.
Questo esito non è desiderabile per i cittadini, non serve ad una efficiente repressione dei reati o alla tutela delle garanzie individuali e non ci sembra desiderabile neanche dall'Avvocatura e, comunque, da chi abbia a cuore i diritti costituzionali.



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