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11 giugno 2010

La riforma del processo del lavoro nel Ddl n. 1167

L'Associazione nazionale magistrati ha ripetutamenterappresentato la necessità che venissero adottati interventilegislativi i quali, lungi dal modificare l'attuale strutturaprocessuale, avessero la finalità di conseguire larazionalizzazione ed il rafforzamento dello strumento giudiziariodella tutela lavoristica.


L'Associazione nazionale magistrati ha ripetutamente
rappresentato la necessità che venissero adottati interventi
legislativi i quali, lungi dal modificare l'attuale struttura
processuale, avessero la finalità di conseguire la
razionalizzazione ed il rafforzamento dello strumento giudiziario
della tutela lavoristica.



E' stato, altresì, segnalato come l'efficacia delle riforme
richieste dovesse essere, comunque, subordinata alla dotazione di
adeguate risorse di personale amministrativo ed informatiche nonché
ad una completa revisione delle circoscrizioni giudiziarie.



Tuttavia, a fronte di tale prospettazione, non si è proceduto a
modifiche legislative, amministrative ed organizzative idonee a
prevenire e ridurre il contenzioso, soprattutto in materia di
prestazioni previdenziali ed assistenziali, che si riverbera
negativamente sui complessivi tempi di definizione anche delle
altre controversie, ed in relazione al quale sarebbe auspicabile
l'adozione di forme processuali specifiche, ovvero valutando anche
la possibilità di forme non contenziose.



Al riguardo, l'Associazione ha illustrato al Ministro i
principali indispensabili interventi ed ha consegnato, in occasione
dell'incontro del 28 maggio 2008, una dettagliata scheda di
proposta.



In tale prospettiva il D.d.L. n. 1167 è evidentemente
ispirato alla semplificazione dell'attività delle imprese, con
l'obiettivo di attuarne lo sviluppo economico e la relativa
competitività, attraverso il rafforzamento degli strumenti
conciliativi ed arbitrali per accelerare la soluzione delle
controversie lavoristiche e la previsione di termini
decadenziali.



Le modifiche legislative, tuttavia, rischiano di
sacrificare a questi pur apprezzabili obiettivi le esigenze di
tutela della parte debole del rapporto. In questa chiave appare
criticabile l'impostazione complessiva dell'intervento di riforma
che sembra diretto a limitare o a circoscrivere il potere del
giudice.



Passando all'esame delle singole norme, occorre anzitutto
rilevare che la previsione contenuta nell'art. 23, comma
uno
, fa sorgere il rischio di un travisamento della
funzione svolta nell'ordinamento dalle "clausole generali", le
quali sono finalizzate a consentire al giudice l'adeguamento del
precetto alla mutevolezza della realtà sociale, e, quindi, ad
assicurare una funzione integrativa dei comportamenti doverosi,
alla stregua di criteri di adeguatezza sociale. Sotto questo punto
di vista, il significato concreto di una "clausola generale",
evidentemente, non può coincidere con la mera rappresentazione che
ne dia una delle parti del rapporto negoziale.

Si tratta, pertanto, di formulazione poco chiara che
meriterebbe, al fine di evitare equivoci interpretativi, una
migliore formulazione
.



Quanto, poi, al comma due dell'art. 23, la fede
privilegiata derivante dalla certificazione sembrerebbe non
limitarsi alla qualificazione del contratto come subordinato o
autonomo, ma estendersi alla "interpretazione" di tutte le sue
clausole. Il che potrebbe comportare l'impossibilità di contestare
giudizialmente i contenuti normativi ed economici del
rapporto.



Orbene, la disposizione, sebbene ispirata a finalità deflattive,
incontra un proprio limite nel permanere del potere valutativo del
giudice, chiamato a verificare l'effettiva rispondenza tra la
volontà delle parti come certificata ed il reale atteggiarsi del
rapporto di lavoro. L'ampiezza della sua formulazione, poi, ove
interpretata nel senso di consentire la certificazione di tutte le
clausole contrattuali, si porrebbe in evidente contrasto con
l'ordinamento costituzionale, giacché la qualificazione del tipo
negoziale, con i diritti che ne conseguono, costituisce il proprium
della giurisdizione, ed è sottratta alla disponibilità delle
parti.



Altre clausole generali vengono in rilievo nel 3° comma
dell'art. 23
, che riguarda le valutazioni del giudice
relative alla motivazione del licenziamento e alle conseguenze da
riconnettere al licenziamento illegittimo.



Al riguardo  appaiono condivisibili le modifiche apportate
in Commissione all'originaria formulazione.



Infatti, il testo originario, utilizzando l'espressione "il
giudice fa riferimento", ne  vincolava la valutazione alle
tipizzazioni di giusta causa o giustificato motivo presenti nei
contratti collettivi o, addirittura, nei contratti individuali
stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di
certificazione.



In tal modo, la disposizione finiva con l'incidere sull'art. 7
dello Statuto dei lavoratori che, nel prevedere che le infrazioni e
le sanzioni disciplinari applicate dal datore di lavoro debbano
essere conformi a quanto in materia stabilito da accordi e
contratti collettivi, lascia fermo il potere del giudice di
disapplicare le clausole non coerenti con le norme di legge e con
le norme costituzionali sul diritto al lavoro e sulla tutela del
lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e sul principio di ragionevole
bilanciamento degli interessi, posto dall'art. 3 Cost. Ed incideva
anche sulla tradizionale primazia delle disposizioni collettive
rispetto alla regolamentazione dei contratti individuali. Invece,
la Commissione ha provveduto alla sostituzione dell'espressione "fa
riferimento" con l'altra "tiene conto", che esclude ogni carattere
vincolante per il giudice di tali previsioni.



Può condividersi altresì, la disposizione di cui al
primo comma dell'art. 24, in quanto fa venir meno
l'obbligatorietà del preventivo tentativo di conciliazione, che
diventa ora facoltativo, salvo per l'impugnazione dei contratti
certificati, atteso che la disciplina vigente non aveva conseguito
gli obiettivi prefissati, soprattutto nel settore privato, e
considerato, altresì, che l'auspicato effetto deflattivo avrebbe
conseguenze rilevanti oltre che per le imprese, anche per i
lavoratori, rendendo più spedito il processo del lavoro.



Perplessità si ravvisano, invece, in relazione
all'arbitrato, che appare esteso a tutte le
controversie di lavoro, in quanto la norma al riguardo non è di
chiara formulazione.

Inoltre, la nuova disciplina prevede la possibilità che gli
arbitri decidano secondo equità, e quindi anche senza applicare le
norme inderogabili di legge e le norme dei contratti collettivi,
pur nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento.



Ulteriori dubbi si pongono, pertanto, in relazione alla
formulazione della norma, rispetto ai diritti indisponibili delle
parti.



Problemi di costituzionalità si ravvisano inoltre, in relazione
alla previsione secondo cui il lodo è impugnabile ai sensi
dell'art. 808ter c.p.c. anche in deroga all'art. 829, commi 4 e 5
c.p.c., in quanto ciò renderebbe possibile escludere
l'impugnabilità per violazione di norme di legge ("regole di
diritto"), anche inderogabili, o di contratto collettivo.



Occorre sottolineare che la disposizione di cui al
comma sei dell'art. 24 appare fortemente criticabile nella parte in
cui consente l'inserimento della clausola compromissoria, o del
compromesso, nel contratto individuale con riguardo ad ogni
controversia, purché il contratto sia certificato. E', infatti,
palese il rischio che il lavoratore, parte debole del rapporto, pur
di essere assunto, sia indotto a sottoscrivere e ad accettare la
clausola compromissoria con devoluzione di qualsiasi futura lite
agli arbitri, la cui decisione secondo equità non garantisce il
rispetto delle norme di legge e del contratto
collettivo.



In relazione all'art. 25 deve osservarsi, in
via generale, che la norma è ispirata alla legittima esigenza di
pervenire alla certezza delle situazioni giuridiche in tempi
ragionevoli con riguardo ad una tipologia di controversie la cui
tardiva risoluzione espone l'impresa, e gli interessi ad essa
collegati, a rilevanti pregiudizi economici.



La previsione di un termine così breve di decadenza sostanziale
appare, tuttavia, fortemente pregiudizievole per il lavoratore, per
cui si ravvisa necessario procedere ad una riformulazione della
disposizione con la previsione di un differente e più lungo
termine.



Permangono, comunque, forti perplessità per il contrasto con il
regime dei termini prescrizionali, operanti per i rimanenti
rapporti giuridici.



Inoltre, l'innovazione è destinata a sortire effetti
pregiudizievoli sul numero delle controversie e, quindi, sulla
durata del processo, posto che, pur di non incorrere nella
decadenza, l'impugnativa giudiziaria verrà comunque intrapresa,
sebbene a scopo cautelativo.



Occorre, poi, riflettere sull'applicazione della norma con
riguardo all'impugnativa del contratto a termine. Al riguardo è
stata inserita la lettera d), che fa esplicito riferimento
all'impugnazione del termine legittimo.



L'applicazione del ristretto termine di decadenza per
l'impugnativa del contratto a termine appare probabilmente
confliggente con il diritto comunitario dal quale si ricava il
principio per cui si intende sanzionare l'abusiva ripetizione di
contratti a termine, agevolando il deprecabile fenomeno del
precariato, e, d'altra parte, è agevole considerare che il
lavoratore a tempo determinato, pur di esser assunto nuovamente,
difficilmente impugnerà il contratto nel temine di decadenza.



L'applicazione, poi, del contributo unificato anche alle
controversie di lavoro e previdenziali, con l'intento di ridurre il
numero dei ricorsi, potrebbe attuare, in effetti, una
penalizzazione del lavoratore.



Va, infine, segnalato che il disegno di legge recante modifiche
al codice di procedura civile, nel mentre propone l'introduzione
nell'ordinamento dell'astreinte, e cioè della condanna di colui che
non adempie agli obblighi imposti da una sentenza di condanna ad un
fare infungibile o ad un non fare ovvero non osserva tali obblighi
o ne ritarda l'adempimento, al pagamento di una sanzione pecuniaria
in favore dell'altra parte, esclude espressamente che essa trovi
applicazione  rispetto alle sentenze relative ai rapporti di
lavoro, e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa
di cui all'articolo 409 c.p.c. Essa non trova cioè applicazione
proprio laddove il rapporto, per sua natura, è caratterizzato dallo
squilibrio economico e contrattuale tra le parti, sicché più forte
si avverte l'esigenza di effettività della tutela
giurisdizionale.




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