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11 giugno 2010

Audizione Anm in Comm. Giustizia Camera su riforma delle intercettazioni

La Giunta esecutiva centrale dell'Anm ritiene opportunosottoporre preliminarmente alla Commissione giustizia, alcuni datidi interesse per la valutazione delle determinazioni da assumere inmateria. In primo luogo i dati sul numero di intercettazioni telefoniche eambientali disposte in Italia.


1. Premessa



Preliminarmente riteniamo opportuno sottoporre alla Commissione
alcuni dati di interesse per la valutazione delle determinazioni da
assumere in materia.



In primo luogo i dati sul numero di intercettazioni telefoniche
e ambientali disposte in Italia.



Nell'anno 2006 sono stati adottati complessivamente 71.698
provvedimenti di autorizzazione alle operazioni di ascolto.



Nel 2007 i provvedimenti autorizzativi sono stati
complessivamente 79.966.



Per una corretta lettura di questi dati sembrano necessarie
alcune precisazioni.



In primo luogo, come è stato ripetutamente chiarito, il numero
dei provvedimenti non corrisponde al numero delle persone
intercettate, in quanto per ogni indagato sottoposto ad
intercettazione normalmente vengono adottati più decreti di
autorizzazione. E' esperienza comune, infatti, che le persone
dedite al crimine utilizzano più schede telefoniche, cambiandole
con frequenza.



In secondo luogo emerge che la maggioranza delle intercettazioni
è disposta su richiesta delle procure distrettuali, anche se non
sempre  l'indicazione risulta raccolta con precisione. A
questo dato andrebbe aggiunto quello relativo al numero di
intercettazioni disposte in procedimenti per reati relativi al
traffico di sostanze stupefacenti, sicuramente molto rilevante sul
piano quantitativo.



Inoltre circa un terzo delle intercettazioni risultano disposte
da uffici giudiziari della Sicilia, della Calabria, della Campania
e della Puglia, regioni nelle quali è nota la presenza di
organizzazioni criminali.



Quanto al confronto con gli altri paesi occorre considerare che
in Italia le uniche intercettazioni lecite sono quelle
"giurisdizionali", in quanto in forza delle disposizioni
costituzionali in materia la intercettazione delle comunicazioni
telefoniche è consentita solo su autorizzazione di un giudice.



Quanto alle spese appare utile ricordare che nell'anno 2007 il
costo complessivo per le intercettazioni telefoniche è stato di 224
milioni di euro (su un totale di spese complessive del Ministero
della Giustizia di 7 miliardi e 700 milioni di euro). Va aggiunto
che il costo delle intercettazioni è determinato dalle tariffe
praticate dai gestori e dal noleggio degli apparati per le
intercettazioni. Su entrambe le voci si potrebbe efficacemente
incidere da un lato mediante una revisione delle tariffe applicate
dai gestori e dall'altro mediante una contrattazione dei costi di
noleggio degli apparati, sulla linea di prassi virtuose già in atto
presso alcuni uffici giudiziari.



L'analisi dei dati, dunque, consente di ritenere che non
sussista un "allarme" per un eccesso nell'uso delle
intercettazioni. Al riguardo occorre considerare che con lo
sviluppo delle tecnologie e dei sistemi di comunicazione, anche
telematica, le intercettazioni sono spesso strumento investigativo
indispensabile e irrinunciabile per raccogliere elementi di prova
in ordine a gravi delitti.



Un punto di sofferenza, invece, è sicuramente rappresentato dal
regime di tutela della privacy, soprattutto delle persone estranee
alle indagini, che non appare adeguatamente assicurata dal codice
del 1988. In particolare le norme attuali non prevedono un vincolo
di segretezza  per le intercettazioni di comunicazioni non
rilevanti per le indagini, che pertanto possono essere impunemente
(o quasi) diffuse e pubblicate.



2. La riduzione del numero dei reati
per i quali sono possibili le intercettazioni



Venendo all'esame delle disposizioni contenute nei disegni di
legge in discussione in Commissione, l'Anm ritiene che sarebbe un
grave errore ridurre l'elenco dei reati per i quali è consentito il
ricorso a questo strumento di investigazione. Allo stesso modo
appare criticabile la previsione di un limite massimo (di tre mesi)
di durata delle operazioni di intercettazione.



Verrebbe così sancita una drastica limitazione dell'uso di uno
strumento investigativo che si rivela sempre più importante in ogni
tipo di processi. Si tratta di un evidente paradosso: si proclama
la massima attenzione alla sicurezza ma contemporaneamente si
indeboliscono le possibilità di acquisire prove decisive per reati
che destano grave allarme sociale.



La fissazione di un termine massimo inderogabile di durata delle
intercettazioni risulta gravemente irragionevole. Si pensi ad
esempio ad una indagine per un sequestro di persona, che per
avventura si prolunghi oltre il termine fissato dal legislatore,
oppure ad una indagine in materia di traffico di armi, di
stupefacenti o di esseri umani, in cui gli indagati si accordino
per una consegna in epoca successiva  al termine massimo di
durata degli ascolti.



Al riguardo una soluzione equilibrata appare quella contenuta in
alcuni disegni di legge, secondo la quale la prosecuzione degli
ascolti oltre un certo termine richiede che siano emersi elementi
nuovi rispetto a quelli che avevano giustificato l'avvio delle
operazioni di captazione.



E' vero, peraltro, che tale limite non è stato previsto per i
delitti di terrorismo e criminalità organizzata, ma l'esperienza
insegna che le indagini in materia di criminalità organizzata
muovono spesso dai reati fine (per molti dei quali l'ascolto non
sarà più possibile) che consentono di svelare un contesto più
ampio.



Inoltre, appare decisamente incongrua la scelta, contenuta nel
disegno di legge del Governo, di subordinare tutte le
intercettazioni ambientali al presupposto - prima previsto soltanto
per quelle effettuate in ambito domiciliare - della presenza di
fondati motivi che inducano a ravvisare lo svolgimento
dell'attività criminosa nel luogo in cui si realizza la captazione.
Con tale norma diventerebbe impossibile, ad esempio, sottoporre ad
intercettazione, negli uffici di polizia, le conversazioni tra
soggetti indagati per la commissione di un omicidio avvenuto poche
ore prima; oppure la intercettazione delle conversazioni dei
detenuti nelle sale colloqui o nelle celle. 

Tale disposizione si applicherebbe, peraltro, anche ai delitti di
criminalità organizzata e terrorismo.



Particolarmente grave è, al riguardo, la progettata abrogazione
della disciplina speciale introdotta per le intercettazioni
ambientali relative a reati di criminalità organizzata dall'art. 13
del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12
luglio 1991, n. 203: una normativa, quest'ultima, che consente, in
tale settore, di effettuare le intercettazioni ambientali
nell'ambito domiciliare anche se non vi è motivo di ritenere che in
esso si stia svolgendo l'attività criminosa.

Tale previsione, che ora si vorrebbe abrogare, si è invece
rivelata una vera e propria "carta vincente" in moltissimi processi
di mafia.



Appare, inoltre, irragionevole la assimilazione, contenuta nel
disegno di legge del Governo, della regolamentazione delle
videoriprese e dell'acquisizione dei tabulati alla disciplina delle
intercettazioni telefoniche e ambientali. I vincoli così imposti
travalicano di molto gli standard di tutela della riservatezza
richiesti dalla giurisprudenza della Corte europea. Al riguardo
appaiono condivisibili le indicazioni contenute in altri disegni di
legge all'esame della Commissione, che disciplinano, graduando le
forme di tutela,  la captazione di immagini (questa appare la
definizione maggiormente idonea sul piano tecnico), distinguendo in
particolare tra la ipotesi della captazione di immagini  in
luoghi pubblici o aperti al pubblico e quella della captazione di
immagini in luoghi privati.



Dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo
emerge la necessità che gli Stati membri predispongano nel diritto
interno un sistema di investigazione e perseguimento dei reati
adeguato a far valere la violazione di determinati diritti
fondamentali, evitando casi di impunità: le autorità nazionali sono
tenute  a garantire l'effettiva applicazione, e non solo la
vigenza astratta, delle norme penali incriminatrici.



Tale obbligo internazionale resterà sicuramente inadempiuto in
presenza di una nuova disciplina che verrà ad escludere la
possibilità di avvalersi non solo dello strumento delle
intercettazioni, ma anche di quelli dell'acquisizione dei tabulati
telefonici e delle videoriprese, per reati come il sequestro di
persona o la violenza sessuale.



3. La tutela della privacy



L' Associazione nazionale magistrati condivide l'esigenza di un
regime più rigoroso di tutela della privacy delle persone coinvolte
nelle attività di intercettazione, in particolare se estranee al
reato oggetto di indagini. Le conversazioni attinenti alla sfera
privata delle persone non rilevanti per le indagini non devono mai
essere diffuse e pubblicate. Le norme attuali, come già detto, non
garantiscono tale risultato.



Al riguardo appaiono condivisibili le disposizioni contenute in
alcuni disegni di legge che prevedono la istituzione di un archivio
riservato nel quale custodire le intercettazioni non rilevanti per
le indagini, sulle quali permane, a tutela della privacy delle
persone, il vincolo del segreto con conseguente divieto di
diffusione e di pubblicazione.



Incongrue rispetto al fine perseguito appaiono, invece, le
disposizioni che vietano la pubblicazione, "anche parziale o per
riassunto o nel contenuto", di tutti gli atti delle indagini, anche
quelli non più coperti da segreto, prevedendo incisive sanzioni,
anche detentive, per i giornalisti e gli editori. Si tratta,
infatti, di previsioni che   finirebbero per ridurre
drasticamente, e irragionevolmente, il diritto di cronaca. Si
pensi, ad esempio, ad una indagine per omicidio  o per un
sequestro di persona, vicende sulle quali la stampa non potrebbe
legittimamente dare nessuna informazione al pubblico sullo sviluppo
delle indagini.



Una soluzione del genere comporterebbe un pregiudizio
irreparabile per il diritto di cronaca (art. 21 Cost.) e, di
conseguenza, per il diritto della collettività di controllare come
viene amministrata giustizia in suo nome (art. 101 Cost.).



Sotto questo profilo, la riforma si porrebbe in netta
contraddizione con le indicazioni tratte dalla giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell'uomo, che, nella recente sentenza
emessa il 7 giugno 2007 nel caso Dupuis contro Francia, ha
ravvisato una violazione del diritto alla libertà di espressione,
protetto dall'art. 10 della Convenzione, nell'ipotesi in cui un
giornalista sia condannato in sede penale per la pubblicazione di
materiale coperto dal segreto istruttorio, qualora la divulgazione
di tale materiale non possa arrecare un effettivo pregiudizio né
all'amministrazione della giustizia né alla presunzione di
innocenza dell'interessato, e serva a fornire - nel rispetto
dell'etica professionale - informazioni affidabili e precise su una
vicenda di interesse generale, che abbia formato oggetto di ampia
copertura mediatica.



Un intervento penale così concepito determinerebbe pertanto una
illegittima compressione del diritto alla libertà di espressione,
integrando una violazione dell'art. 10 della Convenzione europea
dei diritti dell'uomo e dell'art. 21 della Costituzione.



Forti dubbi di opportunità pongono, infine, le disposizioni
contenute nel disegno di legge governativo, in materia di
sostituzione del pubblico ministero titolare delle indagini. Si
tratta di disposizioni che  si prestano al rischio di
strumentalizzazione, anche il ragione del procedimento, piuttosto
sommario e non garantito, attraverso il quale dovrebbe avvenire la
preliminare verifica sulla fondatezza di una denuncia.




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