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18 giugno 2010

Razionalizzazione e semplificazione del codice di procedura penale

E' ormai convinzione diffusa che i problemi della giustiziaitaliana siano legati soprattutto alla eccessiva durata deiprocessi, penali e civili, come non manca di ricordare spesso ilPresidente Ciampi.


TEMI DI DISCUSSIONE PER LA
RAZIONALIZZAZIONE E SEMPLIFICAZIONE DEL CODICE DI PROCEDURA
PENALE



1)
INTRODUZIONE.



E' ormai convinzione diffusa che i
problemi della giustizia italiana siano legati soprattutto alla
eccessiva durata dei processi, penali e civili, come non manca di
ricordare spesso il Presidente Ciampi. E' questo l'aspetto centrale
che occorre affrontare con determinazione e rapidità, ricordando
che anche la Costituzione e la Convenzioni internazionali pongono
la ragionevole durata del processo come un diritto fondamentale del
cittadino. L'efficienza del processo implica anche l'idoneità del
modello processuale, nell'interesse dell'intera collettività, a
raggiungere il suo scopo istituzionale mediante la pronuncia di una
sentenza definitiva, sul merito dell'accusa, entro un termine
ragionevole. Al riguardo, è essenziale che il sistema giudiziario
sia dotato di risorse adeguate, materiali e di personale; che siano
coperti gli organici dei magistrati e del personale; che sia
completata l'informatizzazione degli uffici; che sia valorizzata la
professionalità del personale giudiziario; che sia realizzato
l'ufficio del processo. La risoluzione di questi problemi è
pregiudiziale a qualsiasi altro intervento, altrimenti ogni riforma
sarebbe destinata a sicuro fallimento.



Tuttavia, l'Associazione nazionale
magistrati non intende sottrarsi al compito di fornire il suo
contributo al dibattito in corso sulle riforme, in particolare del
processo penale, funzionali ad una semplificazione delle procedure
ed alla razionalizzazione del sistema delle garanzie, nella
convinzione che sia possibile recuperare efficienza al sistema
senza pregiudicare, ed anzi rafforzando, i diritti di difesa di
tutte le parti del procedimento.

L'Anm è consapevole che il dibattito sull'oggetto e sulle forme
del processo penale, anche alla luce delle ancora recenti e
profonde riforme costituzionali, dovrà svilupparsi con tempi e
cadenze adeguate alla complessità della materia ed all'essenziale
coinvolgimento di molte voci di diversa origine. Non è pertanto né
possibile né opportuno, in questa fase, avanzare proposte di
carattere generale o prospettare disegni di generale revisione dei
fondamento del processo penale. 

E' tuttavia evidente che l'attuale situazione esige alcuni
interventi mirati che, in attesa di più meditate ed incisive
iniziative sulla struttura del processo, consentano di fronteggiare
alcune evidenti strozzature procedurali. L'ottica è quella di
fluidificare (e quindi accelerare) il dipanarsi delle varie
attività processuali, senza incidere sul sistema di garanzie, in
tal modo restituendo al sistema una maggiore coerenza.

Le nostre proposte si concentrano pertanto su aspetti pratici,
ispirati in gran parte dalla esperienza quotidiana di chi, come
noi, applica quotidianamente le norme processuali e ne conosce,
pertanto, l'attuazione vivente, la funzione effettiva, e, quando si
verificano, ne sperimenta gli effetti distorti.

E così gli interventi da noi proposti si concentrano su alcuni
punti "critici", nei quali ci è parso di individuare regole e forme
processuali inutilmente barocche, prive di effettivo contenuto di
garanzia, ma assai gravose in termini di appesantimento di tempi e
di adempimenti ed inoltre inutilmente e gravemente onerose per
l'erario.



2) MODIFICHE DI NORME DI
GENERALE APPLICAZIONE.



A) Il regime delle
notificazioni.


La più recente esperienza giudiziaria e l'attenta analisi
statistica della materia rivelano come l'irragionevole durata del
procedimento e del processo penale dipenda in larga misura dalla
complessità del sistema delle notificazioni, considerato anche
l'elevato di numero di avvisi previsto dal codice di rito nel corso
sia del procedimento sia del processo, inteso come uso anormale del
diritto, privo di tutela positiva perché esercitato in contrasto
con lo scopo per il quale il diritto medesimo viene riconosciuto e
protetto dall'ordinamento giuridico. E' chiaro che il limite
all'esercizio del diritto deve essere positivamente stabilito,
sulla base di norme specifiche o degli indici normativi desumibili
dall'ordinamento giuridico nel suo complesso, senza sconfinare in
settori diversi, come quello morale o sociale, per cui la
discrezionalità del giudice al riguardo deve essere delimitata
entro rigidi parametri normativi.

La difficoltà di ottenere in tempi rapidi la notificazione e la
prova dell'avvenuta notificazione degli atti procedimentali e
processuali penali, ed in particolare dei numerosi avvisi previsti
dal codice di rito, contribuisce significativamente sia a
determinare rinvii delle udienze e degli altri atti assumibili solo
previo avviso sia, anche, a causare nullità formali che spesso
comportano la regressione del processo a gradi o fasi anche di
molto precedenti.

In un contesto già particolarmente delicato e complesso, la
modifica dell'art. 148, contenuta nella novella legislativa n.
155/2005, gergalmente denominata antiterrorismo, che ha
vietato al giudice in via assoluta e definitiva di delegare la
notificazione degli atti alla polizia giudiziaria anche in casi di
urgenza e di procedimenti o processi con indagati/imputati detenuti
per quella causa, rischia di determinare di fatto una stasi
irreversibile del processo penale.

In questa cornice, sembrano potersi proporre alcuni interventi di
riforma del codice di rito, di sèguito indicati.



In tema di notifica di atti
all'indagato, il comma 8 bis dell'art. 157, come aggiunto dalla
novella legislativa n. 60/05, va emendato, prevedendo che il
difensore non possa rifiutare di ricevere la notifica salvo che non
documenti di avere già rinunziato al mandato. Qualora il difensore
di fiducia rinunzi al mandato in epoca successiva alla
notificazione, in mancanza di nomina di nuovo difensore di fiducia,
dovrebbe applicarsi la disciplina dell'art. 161 per i casi di
dichiarazione/elezione di domicilio rifiutata o inidonea, con
conseguente notifica degli atti successivi al difensore di ufficio
fino ad eventuale nuova dichiarazione/elezione di domicilio o a
nuova nomina di difensore di fiducia.



La facoltà del difensore di
rifiutare la notifica, attualmente prevista dall'ultimo alinea del
comma 8 bis dell'art. 157, rischia di rendere di fatto inefficace
il principio della notifica nelle mani del difensore di fiducia di
atti destinati all'indagato, perché pare astrattamente suscettibile
di prestare il fianco a rifiuti impropri e di conseguenza,
paradossalmente, di prolungare, invece che diminuire, i tempi di
notificazione. Deve osservarsi, sul punto, che il diritto di
rifiutare la notifica è stato aggiunto in sede di legge di
conversione, poiché il decreto legge, non per caso, non lo
prevedeva.

Questa scelta tutelerebbe sia l'esigenza di speditezza del
procedimento, poiché renderebbe la notificazione all'indagato
maggiormente celere, sia le garanzie difensive, poiché si
riferirebbe esclusivamente al difensore di fiducia - che in quanto
tale ha certo la possibilità di avvisare l'indagato - e
consentirebbe allo stesso di documentare, purché tempestivamente,
di avere rinunziato all'incarico difensivo in data antecedente alla
notifica dell'atto destinato all'indagato.



Quanto poi alla disciplina
della notifica di atti al difensore, pare necessario attribuire
applicabilità generale (e non solo residuale, come attualmente
accade) al principio della collegialità della difesa di fiducia,
per cui in caso di nomina di due difensori di fiducia la notifica
all'uno di un atto equivale a notifica ad entrambi
.



Una simile opzione normativa non
pare sacrificare le garanzie difensive; in primo luogo,
l'esperienza rivela come il coordinamento tra i diversi difensori
di fiducia di un medesimo indagato costituisca ormai strategia
difensiva largamente preferita e praticata, per i positivi effetti
che normalmente produce sulla buona gestione della difesa tecnica,
né del resto due difensori di fiducia dovrebbero avere comunque
difficoltà a colloquiare tra loro in relazione agli avvisi
ricevuti; in secondo luogo, il principio sembra già pacificamente
esistente nell'ordinamento, sebbene in forma larvata e residuale,
come accade in relazione all'udienza prevista dall'art. 305.

Sembrerebbe pertanto che la previsione secondo cui la notifica di
un atto ad uno dei due difensori di fiducia vale per notifica
effettuata ad entrambi consentirebbe di accelerare i tempi di
procedimento, riducendo il dispendio di tempo, energie e risorse
finanziarie per le notificazioni, senza sacrificare
apprezzabilmente le garanzie della difesa tecnica.



In linea generale, poi,
sembrerebbe opportuno prevedere espressamente che allorché la
notificazione di un atto destinato a più soggetti debba venire
eseguita nei confronti di una stessa persona - che rappresenti per
volontà o per legge più persone quanto al ricevimento della
notifica -, l'atto vada notificato in unica copia.



In tal modo si ridurrebbe
notevolmente il numero delle copie da notificare - con ulteriore
risparmio di tempi, energie e denari - senza sacrificare alcuna
garanzia difensiva, dal momento che non vi è dubbio che il
difensore che riceve un atto destinato a se medesimo, all'indagato
ed al condifensore non avrà maggior beneficio né maggiore garanzia
se in luogo di ricevere una sola copia dell'atto ne riceverà tre.
Al contrario, la notifica di un'unica copia per il destinatario
materiale consentirebbe un notevole risparmio di risorse e tempi,
senza dunque sacrificare le garanzie della difesa.



In tema di modalità delle
notificazioni, inoltre, la ripetuta novella legislativa n.
155/2005, sovraccaricando gli uffici n.e.p., rende necessario
prevedere che le notificazioni possano venire eseguite
ordinariamente - e cioè non solo in casi di urgenza, non solo dal
giudice ma anche dal pubblico ministero e non solo a persone
diverse dall'imputato ma anche a lui - anche a mezzo del telefono,
del telegrafo, del telefax e della posta elettronica, prevedendo le
opportune forme di conferma della ricezione.



Dall'esame dei progressi, anche
legislativi e regolamentari, in materia di telecomunicazioni e di
certificazioni delle comunicazioni elettroniche - come la firma
digitale, la firma elettronica, la posta certificata e i numerosi
altri sistemi già previsti ed in vigore in materia -, e dalla
contemporanea capillare diffusione di tali mezzi di comunicazione
in tutte le fasce sociali, pare potersi sostenere che l'unicità,
salvo urgenza, del sistema della notificazione a mezzo consegna di
copia, attualmente prevista, sia in gran parte superata dalla
realtà effettuale.

A tanto si aggiunga che la ripetuta novella dell'art. 148 ha messo
in grande difficoltà gli uffici n.e.p., con ricadute già evidenti
sulla tempestività delle notificazioni e della - non meno
indispensabile - tempestiva trasmissione delle relazioni di
notificazione.



A fronte di ciò, pare non
sussistere un motivo veramente fondato per continuare a ritenere
opzione secondaria, da utilizzare solo in caso di urgenza, solo dal
giudice e solo con riferimento a persone diverse dall'imputato, la
notificazione con il mezzo del telefono, del telegrafo, del telefax
e della posta elettronica. Previste le necessarie norme tecniche
per individuare il mezzo di prova dell'avvenuta ricezione dell'atto
inviato per la notifica, sembra potersi ritenere che l'autorità
giudiziaria tutta debba venire investita del potere di notificare
ordinariamente, e dunque non solo in casi di urgenza, atti
giudiziari, anche all'imputato, con il mezzo del telefono, del
telegrafo, del telefax e della posta elettronica.

Una simile previsione consentirebbe una notevole riduzione dei
tempi di procedura, oltre ad una contrua diminuzione del dispendio
di risorse umane e finanziarie, senza sacrificare le garanzie
difensive.



Con riferimento alla disciplina
delle notificazioni nella fase processuale dibattimentale, deve
tenersi conto dell'esigenza, imposta dalla necessaria progressiva
omogeneizzazione dei processi penali europei, di garantire che il
dibattimento si celebri soltanto allorché l'imputato abbia avuto
effettiva conoscenza dell'inizio del medesimo.



Dovrebbe pertanto
prevedersi che la prima notifica all'imputato, nella fase
dibattimentale e prima dell'apertura del dibattimento, venga
eseguita nelle sue mani, anche a mezzo della polizia giudiziaria,
prevedendo la sospensione del processo e della prescrizione fino a
che la notifica a mani proprie non sia eseguita.



Durante la sospensione del
processo, naturalmente, dovrebbe prevedersi che il giudice possa
pronunziare provvedimenti cautelari ed assumere prove con il mezzo
dell'incidente probatorio nei casi previsti.



In questo modo sembrerebbe potersi
contemperare l'esigenza di non rendere obbligatoria la
partecipazione dell'imputato al processo con l'opposta istanza, da
parte degli altri Paesi europei, di non celebrare processi in
contumacia.

La soluzione proposta, consistente nell'accertarsi che l'imputato
abbia conoscenza effettiva e personale dell'inizio del
dibattimento, richiede certo una apposita organizzazione e
costituisce una eccezione rispetto alla disciplina delle
notificazioni all'indagato sin qui tratteggiata. Tuttavia sembra
costituire un buon compromesso per conciliare le due esigenze
dianzi indicate.



B) Il regime delle
nullità.

La proposta di modifica del regime delle nullità si
inserisce nel più ampio discorso delle misure volte ad evitare
l'abuso del processo in generale e, più in particolare, di alcuni
istituti processuali; abuso del processo inteso come uso anomalo
del diritto, privo di tutela positiva perché esercitato in
contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo viene
riconosciuto e protetto dall'ordinamento giuridico. E' chiaro che
il limite all'esercizio del diritto deve essere positivamente
stabilito, sulla base di norme specifiche o degli indici normativi
desumibili dall'ordinamento giuridico nel suo complesso, senza
sconfinare in settori diversi, come quello morale o sociale, per
cui la discrezionalità del giudice al riguardo deve essere
delimitata entro rigidi parametri normativi.



Le innovazioni che si suggeriscono
si fondano su due considerazioni.

Anzitutto la valorizzazione dei principi di lealtà delle parti e
di economia processuale tipici del sistema accusatorio deve
investire anche la disciplina delle invalidità, per il riflesso
enorme che essa ha sul regolare andamento del processo e sulla
certezza dei suoi tempi di celebrazione.

In secondo luogo, l'aggiornamento del sistema delle nullità si
impone per la constatazione che esso è stato trapiantato pressoché
invariato da un processo di stampo sostanzialmente inquisitorio,
quale quello delineato dal codice Rocco, a quello attuale.



Inoltre, sul piano fenomenologico,
è divenuto ormai inaccettabile che sempre ed in ogni caso, senza
possibilità di rimedio in corso di causa, la parte possa sollevare
per la prima volta in Cassazione un vizio pur grave quale una
nullità assoluta. Ciò infatti determina sui tempi di svolgimento
del processo un effetto dirompente assolutamente sproporzionato
rispetto all'effetto di tutela ottenuto con la deduzione del
vizio.

Sarebbe peraltro del tutto ultronea una completa rivisitazione
dell'istituto, che, nella sue linee essenziali, costituisce un
aspetto fondante del sistema processuale, conforme alle nostre
tradizioni giuridiche.

Dunque deve rimanere ferma la fondamentale distinzione tra tipi di
nullità (relative, intermedie, assolute) quanto a termini di
rilevabilità.



Per ovviare agli
inconvenienti segnalati più sopra è invece necessario e sufficiente
agire sul sistema delle sanatorie, prevedendo che i casi di
sanatoria ed i limiti alla deducibilità (art. 182 c.p.p.) siano
estesi alle nullità assolute.



Inoltre, proprio in omaggio
al divieto di abuso del processo, si deve stabilire in via generale
che quando l'atto, affetto da nullità di qualsivoglia gravità, ha
raggiunto il suo scopo, il vizio è comunque sanato.



Tutto ciò può essere agevolmente
ottenuto, sul piano formale: - eliminando i riferimenti alla
insanabilità delle nullità assolute contenuti nei commi 1 e 2
dell'art. 179 c.p.p.; - eliminando il riferimento agli artt. 180 e
181 contenuto nel comma 1 dell'art. 182 ed adeguatamente
riformulando il comma 2; - eliminando la clausola di esclusione
contenuta nell'incipit dell'art. 183, nel cui ambito andrà aggiunta
l'ipotesi di sanatoria concernente il raggiungimento dello scopo
dell'atto.



C) La trasmissione degli
atti tra uffici giudiziari.



Va inserita tra le norme di
attuazione del c.p.p., una disposizione che consenta,
ordinariamente, la trasmissione degli atti al GIP, GUP, Tribunale
del Riesame, al Giudice del dibattimento, di appello e alla
Cassazione, su supporto informatico, con annotazione di conformità
agli originali, da parte della Cancelleria o Segreteria
competente.



Con un'altra disposizione, va autorizzata la messa a disposizione
degli atti, su supporto informatico, al difensore. Gli atti da
includere sul supporto informatico sono solo quelli (come le
richieste e ordinanze applicative di misure, CNR, verbali di
interrogatorio, verbali e trascrizioni di intercettazioni o
relazioni di consulenze e perizie tecniche, ecc…) che ammettono
un'agevole duplicazione di redazione informatica, mentre altri
atti, come gli avvisi, le comunicazioni, le relate di notifica, e
simili, il cui supporto cartaceo serve a garantire la regolarità
degli adempimenti processuali, devono essere trasmessi in originale
ovvero in forma scannerizzata.



Tali disposizioni mirano a snellire
le attività delle Segreterie e Cancellerie e a risparmiare i costi
delle fotocopiature, particolarmente nei procedimenti con
molteplici imputati.



3) MODIFICHE DEL
PROCEDIMENTO E PROCESSO DI PRIMO GRADO.



A) Il regime degli
avvisi.


L'esame della disciplina degli avvisi rivela la possibilità di una
rivisitazione e di una razionalizzazione, nell'ottica del
contemperamento tra l'indispensabile garanzia del diritto di
difesa, tecnica e materiale, ed il necessario aumento di efficienza
del procedimento e del processo, teleologicamente orientato a
ridurne la durata entro limiti ragionevoli ed in linea con la media
europea.



L'avviso della conclusione
delle indagini preliminari, previsto dall'art. 415 bis, potrebbe
venire abrogato in relazione a tutti i procedimenti per reati
rispetto ai quali sia prevista la celebrazione dell'udienza
preliminare nonché, al di fuori di questi, in tutti i procedimenti
nel corso dei quali sia stata adottata una misura cautelare,
personale o reale.



In questo modo il diritto
dell'imputato di difendersi provando sarebbe salvaguardato in tutti
i procedimenti in cui egli, in assenza di previsione dell'udienza
preliminare e di deposito degli atti a sèguito dell'applicazione di
misure cautelari, rischierebbe altrimenti di trovarsi citato
direttamente a giudizio senza avere avuto del procedimento altra
conoscenza che l'informazione di garanzia.



Negli altri casi, l'imputato avrebbe completa e tempestiva
conoscenza degli atti del procedimento, vuoi in sede di deposito in
cancelleria/segreteria conseguente all'adozione di una misura
cautelare, vuoi in sede di notifica dell'avviso di udienza
preliminare previsto dall'art. 419, e ben potrebbe difendersi
provando prima che il giudice dell'udienza preliminare o del
dibattimento tenga la prima udienza. In questa ottica, del resto, a
prescindere dal fascicolo delle indagini difensive che potrebbe
venire offerto al giudice, nulla vieterebbe al giudice dell'udienza
preliminare di disporre ai sensi dell'art. 421 bis o dell'art. 422
gli approfondimenti istruttori indicati dall'imputato.

In questo modo sembrano adeguatamente contemperati il diritto
dell'imputato di difendersi provando e la necessità di accelerare i
tempi del processo.



Analogamente potrebbe
prevedersi l'abrogazione dell'avviso all'indagato del deposito
della richiesta del pubblico ministero di proroga del termine per
le indagini preliminari, previsto dall'art. 4063, e di abrogare
l'udienza attualmente prevista dall'art. 4065 nel caso in cui la
richiesta di proroga del termine vada rigettata dal giudice, ferma
restando la residua disciplina dettata dagli artt. 405, 406 e
407.



In relazione a tale tematica,
l'esperienza giudiziaria recente dimostra che a fronte del notevole
dispendio di energie umane, tempo e risorse finanziarie per
notificare l'avviso in parola agli aventi diritto, il diritto di
depositare memorie difensive è esercitato non frequentemente e
spesso - in considerazione dell'impossibilità per l'imputato di
prendere visione degli atti del procedimento - in maniera
necessariamente piuttosto generica.

Ne consegue che tale avviso non sembra particolarmente utile dal
punto di vista dell'esercizio del diritto di difesa, mentre appare
notevolmente lesivo dal punto di vista della speditezza e
dell'economicità del processo.



Sembrerebbe quindi potersi affermare che l'abrogazione di esso
avviso, fermi restando i termini per le indagini attualmente
previsti ed il potere-dovere del giudice di concedere la proroga
solo nei casi attualmente contemplati dal codice di rito,
costituisca una minima compressione delle garanzie difensive,
certamente ben controbilanciata dal notevole risparmio di energie
umane e processuali, di tempo e di risorse finanziarie.



Non diversamente, l'udienza
attualmente prevista prima del rigetto della richiesta di proroga
si appalesa nella pratica quotidiana pressoché superflua, dal
momento che - stante la tipologia del provvedimento e dei
presupposti che lo regolano - difficilmente il pubblico ministero
e/o il difensore possono utilmente interloquire circa la
prorogabilità del termine, offrendo al giudice elementi di
valutazione ulteriori rispetto a quelli presenti nel fascicolo
procedimentale. Di fatto, tale udienza viene normalmente disertata
dalle parti (oppure offre l'occasione per sollevare impropriamente
eccezioni che non attengono alla materia della decisione, che è
costituita esclusivamente dalla prorogabilità del termine), ma
richiede un notevole dispendio di tempo, energie e denari per
notificare i necessari avvisi ed attendere i termini dilatori di
legge.



Ne consegue che, anche in questo,
caso, l'abrogazione dell'udienza garantirebbe una sicura
accelerazione dei tempi procedimentali, con correlativo risparmio
di tempi, energie e risorse finanziarie, senza sacrificare
significativamente le garanzie difensive.



B) Il mutamento del
giudice.


Con la riforma del 2001 il legislatore ha, nel contempo, esteso
l'area di applicazione e meglio precisato gli effetti di un
meccanismo di ammissione in base al quale la ripetizione
dell'assunzione delle prove già formatesi nel contraddittorio delle
parti nel medesimo procedimento (incidente probatorio, istruttoria
già svoltasi avanti un giudice diverso) od in altro procedimento è
possibile - in determinati tipi di processi (quelli per i delitti
di cui all'art. 51 comma 3 bis c.p.p. e quelli per delitti in
materia sessuale, limitatamente alle deposizioni di testi minori
degli anni sedici) e, comunque, con utilizzabilità soggettivamente
limitata a coloro che hanno partecipato all'assunzione - soltanto
quando riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle
precedenti dichiarazioni ovvero se sia ritenuto necessario sulla
base di specifiche esigenze (art. 190 bis c.p.p.).



Questa regola ammissiva, che deroga al disposto generale dell'
art. 190 c.p.p., determina effetti del tutto rispettosi del
principio di contraddittorio stabilito dall'art. 111 comma 4 Cost.
Invero, da un lato, il diritto al contraddittorio nell'assunzione
della prova si suppone sia stato esercitato (rectius: esercitabile)
e, dall'altro, il suo mancato esercizio da parte di un imputato
impedisce l'utilizzo nei suoi confronti della prova formatasi in
sua assenza.



Per converso - risolvendosi la norma in una limitazione dei casi
di ri-assunzione della medesima prova -, viene sacrificato, in quei
casi, il principio in base al quale la prova deve formarsi davanti
al giudice che decide (principio di immediatezza).

Peraltro tale sacrificio non è illimitato ma circoscritto a
situazioni in cui la ri-assunzione si presume superflua (esame
concernente gli stessi fatti, assenza di specifiche esigenze di
ripetizione) e, quindi non lesiva del diritto delle parti alla
prova.



In tali casi il legislatore preferisce opportunamente tutelare,
piuttosto che il principio di immediatezza, quello di economia
processuale, evitando di imporre un defaticante rituale ripetitivo
ritenuto incapace di portare a conoscenza del giudice significativi
elementi informativi nuovi e diversi rispetto a quelli già
acquisiti.

Si tratta di un' impostazione costituzionalmente corretta, laddove
si consideri, che il principio di immediatezza - pur nell'ambito
della profonda revisione dell'art. 111 cost., attentissima ai
valori del giusto processo - non è stato inserito nel novero di
quelli costituzionalmente tutelati e che invece il principio di
economia processuale, sub specie di ragionevole durata del
processo, ha ricevuto esplicito riconoscimento.



Se tutto ciò è vero, allora sembrano venute meno le cautele che
avevano consigliato di limitare l'ambito di applicazione dell'art.
190 bis c.p.p. ai soli processi per reati di criminalità
organizzata e per reati sessuali (qui con riferimento ai testi
infrasedicenni): l'esigenza di non imporre defaticanti quanto
inutili ripetizioni di assunzioni probatorie già avvenute nel
contraddittorio delle parti obbedisce al canone generale di evitare
l'allungamento dei tempi processuali in assenza di una concreta
esigenza di tutela effettiva dei diritti delle parti.



Si propone quindi di
estendere a tutti i processi il meccanismo di ammissione probatoria
oggi previsto dall'art. 190 bis c.p.p. solo con  riferimento a
processi per determinati reati.



Sul piano puramente formale, lo
scopo appena illustrato sarebbe facilmente raggiungibile
sopprimendo, nel testo dell'articolo in questione, ogni riferimento
a processi aventi ad oggetto particolari categorie di reati ed
eventualmente sostituendo la locuzione "ovvero se il giudice o
taluna delle parti lo ritenga necessario sulla base di specifiche
esigenze" con la locuzione, poco più ampia e più precisa, "ovvero
se risulti comunque necessario ai fini dell'esercizio del diritto
alla prova".



4) MODIFICHE DEI GIUDIZI DI
IMPUGNAZIONE.



Va premesso che appare ad oggi
veramente arduo svolgere una completa riflessione su tale
argomento, stante all'attualità la nebulosa presenza di un testo di
legge, approvato da entrambi i rami del parlamento, ma ancora "sub
iudice", cioè in attesa della firma del Capo dello Stato.

Uno dei settori nei quali si avverte con maggiore evidenza la
mancata realizzazione del principio della del processo> è proprio quello delle impugnazioni, settore non
toccato dall'oramai ultradecennale riforma che ha inciso solo sul
procedimento di primo grado.



E' chiaro che il nodo cruciale è infatti quello dell'equilibrio
tra il dovere di un ordinamento moderno di assicurare un
accertamento della verità (processuale) quanto più rapido possibile
e l'esigenza di assicurare in contemporanea una verifica del lavoro
svolto al fine di evitare un sempre possibile errore giudiziario.
Non vi è dubbio che, privilegiando una visione meramente
"efficientista", la soluzione più logica sarebbe quella di
concepire due soli gradi, uno di merito, ispirato ed assistito dal
principio del contraddittorio, e l'altro di legittimità.

Ma tale conclusione non appare praticabile soprattutto perché
vanificherebbe una fondamentale funzione che è propria delle
Supreme Corti, anche di quella italiana, cioè quella della
nomofilachia.



Ugualmente impraticabile appare la soluzione che vedesse nella
Corte di cassazione un giudice controllore della legalità
"nell'interesse dell'ordinamento", lasciando alle Corti d'Appello
il controllo della legalità "nell'interesse delle parti".

E ciò perché in tal modo si affiderebbe alla Cassazione un potere
quasi (non essendoci nel nostro ordinamento la forza vincolante del
precedente) parificabile a quello legislativo e, soprattutto, si
creerebbe un ulteriore "vulnus" alla reale indipendenza della
magistratura creando di fatto un interlocutore unico e privilegiato
dei "poteri forti".



Appaiono quindi non condivisibili, per la messe delle
problematiche che implicano, le soluzioni estreme.



Sembra maggiormente condivisibile, invece, uno sforzo di
razionalizzazione dell'attuale strumento dell'appello che da una
parte ne contenga l'uso patologico e dall'altro continui ad
assicurare il suo ruolo di garanzia.

E' chiaro che tale discorso deve riguardare ambedue le parti del
processo, in quanto entrambi meritevoli di tutela, sia l'imputato
che ha diritto a vedere affermata la sua innocenza (già presunta),
la collettività ed il suo interesse all'accertamento della verità,
rappresentato, nel processo, dal p.m.



Non sembra quindi accettabile
l'impossibilità per il P.M. di appellare le sentenze di
assoluzione, fondata sull'ingannevole premessa che il giudice di
appello non possa rovesciare il giudizio assunto da un giudice di
primo grado davanti al quale si sono formate le prove. Tale assunto
infatti non considera che il giudice di secondo grado è chiamato,
nel caso di appello del P.M.,, ad accertare se il giudice di primo
grado abbia correttamente svolto il processo di valutazione delle
prove già assunte (e come assunte) in primo grado nei casi diversi
ed ulteriori rispetto alla mancanza o illogicità della motivazione,
come ad ex: sottovalutazione di alcuni elementi, valutazione
atomistica e non globale del materiale probatorio, etc. In questi
casi il giudice d'appello, partendo dall'impianto accusatorio già
portato alla cognizione del primo giudice, giunge a diversa ed
opposta conclusione perché diversamente valuta l'identico materiale
probatorio.



Premessa tale parità di
posizione tra le due parti del processo, la strada da seguire
probabilmente è quella di ridurre l'appello ad uno strumento
razionale, depurato da tutto ciò che, come incisivamente è stato
detto, "favorisce le sue funzioni più ambigue", ma introducendo dei
correttivi. In tale direzione si possono ipotizare una serie di
interventi di facile realizzazione e di minimo impatto "sul
sistema", tali da snellire il procedimento senza diminuire le reali
garanzie che devono assistere non solo l'imputato ma anche lo
svolgimento del procedimento.



Una praticabile soluzione potrebbe essere quella di limitare
l'efficacia devolutiva dell'impugnazione prevedendo che, come il
ricorso per cassazione, anche l'appello attribuisca al giudice di
secondo grado la cognizione limitatamente ai motivi proposti, in
modo da escludere la possibilità di modifiche della sentenza
impugnata diverse da quelle richieste dall'appellante.



Oggi infatti l'art. 597 comma 1
c.p.p., come l'art. 515 del codice Rocco, prevede che l'appello
attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del
procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si
riferiscono i motivi proposti.

Questa ambigua definizione del giudizio d'appello consente oggi al
giudice dell'impugnazione di apportare alla decisione impugnata
anche modificazioni diverse da quelle richieste dall'appellante,
purché riconducibili ai temi della decisione investiti
dall'impugnazione e salvo il divieto di reformatio in pejus.



Ancora potrebbe essere introdotta la norma che dispone che,
nell'ipotesi di impugnazione proposta contro una sentenza di
condanna, se la stessa viene dichiarata inammissibile, non può
essere rilevata l'estinzione del reato per prescrizione o per
amnistia.



Si potrebbe ancora ipotizzare che tutta la fase dell'appello sia
di regola (e quindi non solo nelle ipotesi oggi già previste)
celebrata con rito camerale salva la possibilità per ciascuna parte
di chiedere, con istanza motivata delibata dal presidente della
sezione, il rito ordinario. Tanto certamente snellirebbe,
rendendola molto più celere, tale fase.



Nella medesima direzione, non intravedendosi alcuna plausibile
ragione in contrario, si potrebbero affidare alle Corti d'Appello
anche impugnazioni di sola legittimità con riferimento ai
provvedimenti diversi dalle sentenze, così individuando l'appello
come mezzo d'impugnazione generale e necessario,

almeno intermedio quando non sia possibile escludere il
ricorso per cassazione
.



Non ha certamente senso, ad
esempio, che siano attribuite alla competenza della Corte di
cassazione, come avviene oggi, anche le impugnazioni proponibili
contro i provvedimenti che, non essendo qualificabili sentenze
neppure in senso sostanziale e non incidendo sulla libertà
personale, non rientrano nell'ambito di applicazione dell'art. 111
cost., come i provvedimenti di archiviazione (art. 409 comma 6
c.p.p.) o di diniego della revoca della sentenza di non luogo a
procedere (art. 437 c.p.p.), o i provvedimenti di sospensione del
processo (art. 3, 71, 479) e i provvedimenti in tema di sequestro
(art. 325 e 737).



Né vi sarebbe alcuna ragione plausibile per non affidare
alle corti d'appello anche impugnazioni di sola legittimità, come
appunto quelle proponibili, solo per violazione del
contraddittorio, contro i provvedimenti di archiviazione: con la
conseguenza che in questi casi, estranei all'ambito di applicazione
dell'art. 111 Cost., il successivo ricorso per cassazione potrebbe
essere riconosciuto solo quando si manifestino contrasti
giurisprudenziali.



Nella medesima prospettiva si potrebbe ragionare anche con
riferimento al procedimento di esecuzione, che dovrebbe rientrare
sempre nella competenza del giudice di primo grado, in modo da
affidare alla corte d'appello il (primo o unico) controllo di
legittimità sulle decisioni assunte in sede di incidente di
esecuzione.



Ancora, e ciò per motivi di moralizzazione del
procedimento, si potrebbe restringere l'applicabilità
dell'art. 599 c.p.p. solo alle fattispecie che non abbiano già
beneficiato in primo grado della diminuente del rito (essendo state
celebrate con rito abbreviato) e comunque in modo tale da non
eccedere la diminuzione di un quarto della pena già
comminata.




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